Se ne è andato in punta di piedi lo scorso 7 agosto, 88 anni, una filmografia che farebbe e fa impallidire tutti i mestieranti che si aggirano per gli Studios stelle e strisce, tutti coloro che credono di aver detto la loro nella settima arte solo perché hanno fatto crash al botteghino con qualche Barbie ossigenata. Friedkin era autore con la A maiuscola. Al pari di un Martin Scorsese, di un Francis Ford Coppola, di un Brian De Palma. Un artista capace di travalicare i generi (dal dramma al poliziesco, dal war movie all’horror) e di riuscire sempre a dire qualcosa di nuovo, in anticipo sui tempi e sul tempo, imprimendo su celluloide immagini che restano, appunto, nel tempo e, col passare degli anni, acquistano lo status di vere e proprie opere d’arte. Una carriera che inizia lontano, nel 1962, in cui Friedkin si fa le ossa, grazie alla gavetta nel mondo delle serie (The Alfred Hitchcock Hour) e dei film per la TV (The People Vs Paul Crump), prima di approdare sul grande schermo. Il primo film è del 1968. In pochi lo vedono e la critica resta tiepidina. Tratto da uno script di Harold Pinter, Festa di compleanno (The Birthday Party) è un dramma da camera che risente troppo dell’impianto teatrale da cui deriva. Unità di luogo (una malinconica pensione sul mare), personaggi sfuggenti, atmosfera e dialoghi plumbei. Forse troppo poco per convincere, ma la mano di Friedkin c’è. La vediamo nella composizione delle immagini, nella voglia di raccontare la storia di uno strano triangolo umano in cui ogni personaggio sembra nascondere qualcosa, nella capacità di confondere lo spettatore e di farlo girovagare a vuoto, alla ricerca di appigli che vengono a mancare. Nello stesso anno esce anche Quella notte inventarono lo spogliarello (The Night They Raided Minsky’s), che ribalta le premesse delle pellicole d’esordio e catapulta il regista nel mondo del burlesque e dell’avanspettacolo. Dal kammerspiel alla commedia rutilante, fra boa di struzzo e teatri scalcinati, paillettes e polvere di stelle. Friedkin cambia rotta e dimostra di essere regista versatile, mai ancorato a un genere preciso, pronto a deviare il suo percorso. Ma bisogna fare attenzione. La storia, che vede una giovane amish lasciare la rurale comunità della Pennsylvania alla volta di New York, dove spera di recitare in spettacoli religiosi, finendo per esibirsi in show per adulti, è solo in apparenza una commedia. Friedkin prende di mira la superstizione e il bigottismo degli amish, il loro essere ancorati a una religione retriva e oscurantista e il suo non è uno sguardo consolatorio né amichevole. Ma non è tenero neanche con il mondo delle mille luci di New York e dei suoi spettacoli fracassoni, dei suoi carrozzoni ancora lontani dall’ingerenza mediatica, ma già pronti a fagocitare chi vi entra e farne parte. Anche stavolta il film non ottiene grandi consensi. Non dimentichiamoci che siamo nel 1968 e come cantava Bob Dylan quattro anni prima The Times They Are A-Changin’: è il tempo della contestazione e del Vietnam, dell’era dell’acquario e della Flower Power Generation. È ovvio che il film di Friedkin, ambientato nell’universo del vaudeville degli anni Venti, sembri un oggetto non identificato o, almeno, qualcosa che non abbia alcuna attinenza con il mondo del tempo, squassato da venti rivoluzionari e bombe al napalm.
William Friedkin: addio a un grande regista – Arrivano i ’70
Si entra in una nuova decade. Gli ideali del decennio precedente iniziano a mostrare le prime crepe e per gli Stati Uniti è già tempo di leccarsi le ferite. Quelle inferte a Sharon Tate da Charles Manson sono state mortali, quelle del Nam ancora di più. Gli anni Settanta da subito si aprono su un paesaggio urbano e umano che non ha nulla di rassicurante, che ha perso i colori psichedelici della controcultura. Nixon sogghigna dai teleschermi e il Watergate è alle porte, la criminalità dilaga e le città sono agglomerati pericolosi e solipsistici. Non c’è spazio per l’ottimismo, né per la fratellanza. Siamo soli e questo Friedkin lo sa bene. Siamo soli soprattuto se diversi. Siamo soli soprattuto se i nostri gusti sessuali deviano dal sentire comune. Per questo un film come Festa per il compleanno del caro amico Harold (The Boys in the Band) è importante e imprescindibile per capire il clima di quegli anni e per comprendere come la comunità gay sia vista come fumo negli occhi dall’establishment comune. Tratta da una pièce di successo di cui riprende in parte il cast originale, la pellicola è una commedia amarissima e feroce, claustrofobica e durissima, in cui va in scena un gioco al massacro che non sarebbe dispiaciuto al Roman Polański di Carnage. L’arrivo di Alan, unico etero a essere invitato alla festa del gay Harold, sarà l’elemento perturbante e deflagrante di una diversa concezione del mondo e della vita. Eterosessualità e omosessualità non sono e non potranno mai essere facce della stessa medaglia, sono comunità distinte e separate da voragini incolmabili anche negli appartamenti borghesi e radical chic che affacciano sulla New York bene dell’Upper East Side. La solitudine ammanta ogni cosa, l’odio e il rancore impregnano gli ambienti. La festa si trasforma ben presto in una resa dei conti in cui tutti, nessuno escluso, uscirà sconfitto. Il film è una bomba che esplode immediatamente. La comunità gay non accetta di venir rappresentata con così profondo pessimismo, i bacchettoni lanciano strali di fuoco contro la pellicola, la critica saluta finalmente l’arrivo di un nuovo grande regista. Da oggi in poi in molti dovranno fare i conti con Friedkin.
William Friedkin: addio a un grande regista – Strade violente…
Il braccio violento della legge (The French Connection, 1971) e L’esorcista (The Exorcist, 1973) segnano l’apice della carriera di Friedkin e sono considerati veri e propri capolavori della settima arte. Anche stavolta lo scarto fra i generi è epocale. Da una parte un poliziesco che fa convergere le coordinate del polar con la dilagante violenza newyorchese, traghettando le sfumature del noir sui lidi della paranoia urbana; dall’altra un horror demoniaco che oltrepassa i canoni del cinema del terrore, divenendo una lancinante e allo stesso tempo paurosissima riflessione sul male in senso universale. Come si diceva, la violenza degli anni Settanta ha preso possesso di strade, città, ambienti. Ha ammantato ogni cosa e ha intaccato ogni persona. Per questo Il braccio violento della legge è un film che ancora oggi è considerato un capostipite: perché non ci sono più personaggi dicotomici, non c’è più una netta distinzione fra buoni e cattivi. La malvagità è parte integrante del contesto umano e i metodi che vengono utilizzati dalla criminalità organizzata non sono poi così distanti da quelli messi in atto dalla polizia. Le differenze si stanno sempre più sfumando e la lotta senza quartiere fra gli sbirri Doyle e Russo contro la mala marsigliese ha regole del gioco identiche, entrambe segnate da una ferocia parossistica che mai si era vista sullo schermo. The French Connection è cinema allo stato puro, una continua endovena di adrenalina per lo spettatore che, impotente e affascinato, assiste al sempiterno gioco fra buoni e cattivi non riuscendo più a discernere chi sia parte integrante dell’una o dell’altra sponda. Vincitore di quattro premi Oscar (miglior film, miglior regia, migliore attore protagonista, miglior sceneggiatura non originale e miglior montaggio), il film diventerà una sorta di spartiacque nella narrazione del poliziesco made in USA e dopo di lui niente sarà più come prima. Le giungle d’asfalto che verranno successivamente dipinte saranno per sempre debitrici di questa matrice targata Friedkin, una matrice che resterà indelebile nell’immaginario collettivo.
William Friedkin: addio a un grande regista – …ed esorcismi
Blasfemo, terrificante, malsano, osceno, degradante, shoccante, malato. Questi alcuni degli aggettivi utilizzati per descrivere L’esorcista, pietra miliare dell’intera storia del cinema e, ad oggi, pellicola rimasta ineguagliata nel rappresentare il tema della possessione diabolica sullo schermo. C’è da chiedersi il perché di questo primato, da domandarsi come mai nessuno è mai più riuscito a raffigurare il diavolo con così virulenta suggestione e devastante complessità. La risposta è semplice: perché oltre alle contorsioni, ai crocefissi conficcati in vagina, agli spiderwalk, al vomito verde, ovvero alla messa in scena grandguignolesca del demoniaco, Friedkin mette in scena un mondo vulnerabile e contuso, in cui il male si annida e germoglia nei rapporti interpersonali lacerati (la nevrotica Ellen Burstyn con un matrimonio fallito alle spalle e una figlia ormai adolescente con cui fare i conti), nella dolorosa perdita della fede da parte di chi ha scelto di indossare l’abito talare, nella straziante consapevolezza e incapacità di prendersi cura di una madre anziana, nella sconfitta della medicina di fronte a una “fenomeno” che travalica la ragione. L’esorcista non è solo un film dell’orrore, malgrado dal pubblico venga a imperitura memoria ricordato. È un dramma travestito da horror, è l’ansiogena rappresentazione di un mondo privo di coordinate stabili, di una società al collasso, di un collante umano che, ormai disgregato, diventa terreno fertile in cui il male può edificare la sua chiesa nera. È un film che si abbevera e trae linfa da correnti pittoriche disparate (da Caravaggio con i suoi volti immersi nella penombra chiaroscurale, a Magritte con i suoi scorci urbani pregni di metafisica alienazione), che si serve dei Tubular Bells di Mike Oldfield per far danzare le immagini al suono di carillon sinistri, che utilizza il montaggio e il sound design per instillare nello spettatore un opprimente senso di angoscia. E che, ancora oggi, a quasi cinquanta anni dalla sua uscita in sala, mette addosso una paura… del diavolo.
William Friedkin: addio a un grande regista – Latex, serial killer e sadomasochismo
Dopo i grandi successi mietuti agli inizi degli anni Settanta, Friedkin sembra perdere l’ispirazione. Il salario della paura (Sorcerer, 1977) e Pollice da scasso (The Brink’s Job, 1978) sono dei tonfi colossali al botteghino, malgrado il primo, bistratto all’uscita ma rivalutato nel tempo, sia un grande dramma crepuscolare, epico e maledetto, quasi un affresco alla John Huston strafatto di mescal. Il 1980 si apre, invece, con una pellicola maledetta e anticipatoria di quelle tematiche che oggi definiremmo “fluide” o “transgender”. Il film è Cruising e vede la discesa inferica di un poliziotto (Al Pacino, in uno dei ruoli più controversi della sua carriera) che, per catturare un assassino seriale che sta decimando la comunità gay del Greenwich Village, si finge omosessuale e comincia a bazzicare i locali più trasgressivi della Grande Mela, quelli dove il sesso è una questione selvaggia di pelle e dove le tenebre delle dark room ospitano furiosi amplessi. E in questo cosmo di luci strobo e latex che avvinghiano pelle e sudore il poliziotto si perde, non riuscendo più a comprendere la sua sessualità, a capire chi è realmente, a dare un senso alla sua identità. Pellicola magistrale, controversa e furiosamente attaccata dalla comunità gay per aver rappresentato il mondo omo come una voragine infernale di peccato senza redenzione, Cruising (letteralmente “fare una crociera”, ma qui la traduzione potrebbe intendersi come “passare da una sponda all’altra”) è uno degli affreschi più cupi degli anni Ottanta che, da lì a breve, verranno investiti dallo tsunami reaganiano e dall’iperbole yuppie. Un capolavoro che prende per mano lo spettatore e lo accompagna nelle viscere oscure di una città tentacolare, di una Gomorra nera come la notte in cui è facilissimo perdersi e mai più ritrovarsi.
William Friedkin: addio a un grande regista – Le mille luci (e ombre) della città degli angeli
Un altro capolavoro arriva nel 1985, dopo la poco felice parentesi della commedia demenziale L’affare del secolo (Deal of the Century, 1983). Sono passati quattordici anni da Il braccio violento della legge e il noir metropolitano ha cambiato pelle, si è evoluto, è entrato in una nuova fase. E Vivere e morire a Los Angeles (To Live and Die in L.A.) ne è l’emblema. Dalla cupa New York si passa alla multietnica babele californiana, un luna park sterminato di freeway infinite, tramonti infuocati e locali fluo. Ancora una volta una coppia di sbirri. Ancora una volta un nemico sfuggente e trasversale. Ancora una volta il bene e il male che si confondono, si plasmano, perdono carattere identitario. Stavolta però non si deve fronteggiare un’enorme partita di eroina marsigliese. Siamo nei dorati eighties, dove il dio denaro è l’unica cosa che conta. Infatti stavolta il cattivo è un falsario. E tutto si muove secondo le regole del dollaro, tutto si inchina alla legge di chi possiede, di chi sperpera, di chi ce l’ha fatta. Reagan ha dettato le regole, il popolo le sta seguendo alla lettera. Sullo score dei Wang Chung va in scena un dramma elisabettiano ultra-pop e ultra-kitsch, un palcoscenico illuminato da neon fluttuanti e motori roboanti, dove il frusciare delle banconote si accompagna al deflagrare degli spari e allo scorrere del sangue.
William Friedkin: addio a un grande regista – La parabola discendente…
Dal 1987, anno di Assassino senza colpa? (Rampage), legal thriller senza sussulti, al 2003 di The Hunted – La preda (The Hunted), annosa riproposizione sul tema dell’homo homini lupus, Friedkin ripiega su se stesso e dirige pellicole che, se paragonate alle opere passate, ne sembrano il pallido riflesso. Colpa di sceneggiature sbagliate. Colpa di progetti in cui, forse, lo stesso Friedkin non sembra credere del tutto. A partire dal mediocre L’albero del male (The Guardian, 1990), strampalato horror tratto dall’altrettanto strampalato romanzo di Dan Greenberg, incentrato su una baby sitter che sacrifica bambini a un secolare albero celtico; passando a Basta vincere (Blue Chips, 1994) scontata parabola sportiva sul mondo del basket; per arrivare al thriller erotico Jade (1995) che paga dazio all’imperante ondata di pellicole generate sulla scia di Basic Instinct (1992) e al war movie Regole d’onore (Rules of Engagement, 2000) che unisce dramma processuale e conflitto bellico senza riuscire mai ad avvincere appieno. Tanti anni, forse troppi, per un regista che ci ha abituato a ben altro e che la critica ormai non prende neppure in considerazione. Ma le sorprese e i grandi film non sono ancora finiti.
William Friedkin: addio a un grande regista – …e il sorprendente colpo di coda
Arriva il 2006 e molti addetti ai lavori si devono ricredere. Esce in sala Bug – La paranoia è contagiosa. Un film dal budget modesto, tutto girato all’interno della stanza di uno sperduto motel dell’infinita landscape stelle e strisce. Due donne che si amano e un uomo, disturbato, che si insinua tra di loro. Echi della Guerra del Golfo e allucinazioni. Visioni e incubi. Deliri. Logico che la situazione non possa che degenerare. Friedkin torna con un film che è una sorta di abdicazione, una dichiarazione di resa nei confronti di una società che ha reso l’individuo una monade sempre più solitaria e incapace di comunicare o di esprimere sentimenti che non siano quelli tangenziali alla follia e alla disperazione. L’America è diventata una terra inospitale e l’unica regola che vige è quella di un disperato cupio dissolvi. E la visione di questa umanità dolente diventa ancora più cattiva e crudele con Killer Joe (2011), forse uno degli ultimi grandi film del cinema USA. In un Texas polveroso e sudato, accecato dal sole e febbricitante, debitore delle pagine più cupe di Joe Lansdale, va in scena una tragedia grottesca dove ogni personaggio rivela il peggio di sé. C’è una madre che ha rubato una grossa partita di droga al figlio spacciatore. Solo che la “roba” appartiene a un crudele boss del luogo che rivuole quanto gli è stato sottratto. Al ragazzo non resterà che far uccidere la madre, intascare i 50.000 dollari di assicurazione che la donna ha stipulato sulla propria vita, e ripagare il debito. Ma niente, ovviamente, va come deve andare. Rispetto a Bug, Friedkin aumenta il tasso di violenza e parossismo, di disillusione e amarezza. Stavolta la distinzione fra bene e male non solo è sfumata, ma scomparsa del tutto. Non ci sono schieramenti né diverse fazioni contrapposte: la crudeltà ha infettato ogni persona e non c’è speranza, né redenzione. Non c’è riscatto né salvezza. Tutti siamo colpevoli, nessuno è innocente. Siamo davanti alla pietra tombale, all’epitaffio finale dell’essere umano, belva assetata di sangue e avidità. Killer Joe è il testamento conclusivo, definitivo, di un regista che ci ha osservato, come un entomologo osserva gli insetti, e ha tratto le sue considerazioni. Lo ha fatto con uno stile magistrale e un’autorialità che mancherà immensamente alla settima arte. Con la morte di William Friedkin non ci lascia solo un grande regista, ma anche un acutissimo psicologo della nostra triste condizione esistenziale.