Tra le serie più cliccate in questi giorni su Netflix c’è “Wanna“, titolo che lascia spazio a pochi dubbi: è la prima docuserie sul fenomeno televisivo Wanna Marchi. L’opera, divisa in quattro episodi, analizza nascita, successo e caduta della più grande televenditrice italiana vivente che – in compagnia dell’inseparabile figlia, Stefania Nobile – sfugge a rimorsi e rimpianti e anzi, conferma la spietatezza che gli italiani le hanno da sempre affibbiato. Le intuizioni, la passione, la costanza e il superamento di ogni confine fanno da premessa a una delle migliori scalate professionali degli anni ’80, fatta di centralini e televendite, inganni e raggiri, miliardi e amicizie sbagliate. Un viaggio dell’antieroe che trova prima la grande accoglienza del mondo dello spettacolo e di quello civile e poi l’isolamento più totale, complici le inchieste di Striscia la Notizia e le successive condanne. La docu-serie – scritta da Alessandro Garramone con Davide Bandiera, diretta da Nicola Prosatore e prodotta da Freemantle – offre agli spettatori un rinnovato involucro della donna che ha truffato un paese intero: non è abbattuta ma anzi combattiva, rivendica quanto fatto e non fa sconti a nessuno (ex marito a parte, passato a miglior vita) e soprattutto fa a meno del perdono nazionale. La sua grinta sembra tutt’altro che scalfita dai tempi e detta il ritmo di una narrativa colma di nuovi particolari, a partire dalle intimidazioni subite dalla criminalità organizzata. “Wanna” è un nastro riavvolto nell’Italia della grande ricchezza pre seconda Repubblica, pronta a scommettere i risparmi di una vita intera pur di eliminare un malocchio o vincere milioni di lire con i numeri giusti. Un prodotto da interpretare, oltre che studiare per capire dove si è sbagliato per non cascarci più. Ne abbiamo parlato con il produttore, Gabriele Immirzi, produttore televisivo e CEO di Fremantlemedia Italia.
Come nasce l’idea di produrre una docuserie su Wanna Marchi, la truffatrice più celebre d’Italia?
“Nel 2019 Alessandro Garramone mi propone un’idea che apprezzo per diversi vantaggi immediati: un archivio sterminato a disposizione con anni di riprese televisive, la chance di narrare una sequela di cronache con il distacco di molti anni e soprattutto l’eco di alcuni prodotti internazionali, su tutti Tiger King (la storia di un matto esuberante, genio e criminale). Ci chiediamo chi fosse il corrispettivo italiano e, trovata la risposta, confezioniamo un promo per Londra. Giovanni Bossetti accoglie il nostro progetto, convinciamo le Marchi e otteniamo l’approvazione. La lavorazione inizia verso la fine del 2020″.
Nella scrittura, nello stile e nella ricerca vi siete ispirati a una tipologia di prodotto classica o a qualche docuserie in particolare?
“The Last Dance è un riferimento assoluto sotto molti aspetti tecnici ma io e Garramone abbiamo lavorato nel crime per History Channel raccontando, in una serie di trenta puntate, tutti i crimini possibili dal dopoguerra in poi. Pezzi verticali e comunque non seriali. C’è una parte della serie che ricorda quello stile, ma la grammatica è influenzata anche dalle regole d’ingaggio che la piattaforma dà e che dipendono dal tipo di fruizione. Il 60% degli spettatori decide se proseguire o no con la visione entro i primi due minuti quindi è d’obbligo partire a bomba per tenerli lì. Succede anche in Wanna, dove si accavallano plot orizzontali forti che includono cliffhanger validi, in grado di creare una reazione a catena verso l’episodio successivo. Il tutto con il supporto dei temi: il mondo delle televendite nato ed esploso negli anni Ottanta, il background biografico della protagonista con le sue motivazioni psicologiche e la figura della donna contro tutto e tutti che scala i gradini della società abbandonando ogni presupposto etico”.
Su quale dettaglio avete dovuto concentrare la massima attenzione?
“Non volevamo fare un programma con Wanna Marchi ma sulla storia di Wanna Marchi. Una volta contattate lei e Stefania Nobile abbiamo imposto le nostre condizioni: zero compenso, controllo editoriale e visione del prodotto finale fino alla pubblicazione in piattaforma. Non volevamo essere giudicanti da una parte né agiografici dall’altra, solo portare massimo rispetto alle vittime. La serie, al di là della forza prorompente di Wanna Marchi, non fa sconti a nessuno né esalta i protagonisti”.
Vi siete posti un obiettivo nel raccontare i fatti?
“Vari, quanto le sottotrame del racconto. Il primo: approfondire le truffe del passato per mettere in guardia da quelle presente. Ci riferiamo a un pubblico molto giovane (dai 18 ai 30) che magari neanche conosce il fenomeno ma incappa ogni giorno in truffe dello stesso stampo su internet e sui social network”.
Qual è stato il protagonista più arduo da intervistare?
“Do Nascimento. L’abbiamo cercato a lungo ma era un fantasma. Siamo riusciti a scovarlo a Bahia tramite una banca dati di atti processuali consultabile online. Da quel momento, tramite il suo avvocato, è scattata una lunga opera di convincimento che alla fine ha avuto successo. È stato altrettanto complesso trovare le vittime delle truffe, di cui abbiamo coperto volto e voce, perché ancora oggi c’è un enorme stigma sociale nei loro confronti”.
La prima testimonianza di una vittima arriva alla terza puntata. Una scelta ponderata?
“Nella prima parte raccontiamo una fase diversa del personaggio Marchi. Vendere uno sciogli pancia è fuffa ma non rappresenta attività estorsiva, cosa che accade quanto entrano in gioco amuleti e malocchi. Lì presentiamo le vittime con le loro testimonianze, piene di perdite e dolori”.
Tra le interviste spuntano anche vecchi colleghi di Marchi, in primis Roberto Da Crema.
“La sua e loro presenza avvalora il racconto di un mondo intero, quello delle televendite private, clamorosamente diffuso ieri e ancora oggi. Se fai zapping in tv non è difficile trovare contenuti simili a quelli di quarant’anni fa”.
Il motto delle due protagoniste è: zero rimorsi. Sta forse qui la potenza del vostro racconto?
“È uno dei tratti più forti del prodotto. Wanna e Stefania hanno commesso reati odiosi lucrando sul dolore delle persone eppure, avendo ricevuto una gogna mediatica micidiale e una condanna in tribunale più importante rispetto ai miti standard italiani, avvertono di aver pagato un prezzo più alto del previsto. La madre e la figlia sole contro tutto e tutti e che peraltro si fanno forza a vicenda sono tratti che invigoriscono ulteriormente la loro linea comunicativa”.
Secondo le critiche del web la vostra serie sarebbe un “regalo di visibilità” a un duo che definire spietato è poco.
“Le ho lette. Dopo l’annuncio siamo stati inondati. L’importante è ribadire due punti: non hanno guadagnato un euro da noi e il contenuto non risparmia nessuno. La domanda da porsi è una: gli regaliamo visibilità o le rimettiamo al centro del processo mediatico? La letteratura si occupa da secoli di criminali perché esercitano fascino. Conta la chiave giusta”.
C’è un rischio emulazione?
“Dubito fortemente che qualcuno, vedendo le “imprese” narrate, segua quell’esempio”.
Che mezzi ha un produttore per tornare a investire seriamente nelle sale?
“Non faccio cinema e quindi parlo da spettatore. Quand’ero piccolo avevo un televisore in bianco e nero di quattordici pollici a casa, al cinema trovavo uno schermo gigantesco con un audio altrettanto magnifico. Valeva la pena vestirsi, uscire e correre in sala. Oggi in salotto ho sessantacinque pollici in ultra HD con calice di vino sul divano; vado al cinema e trovo schermi spesso di scarsa qualità con sedili incastrati e impolverati. Le sale devono tornare a essere un’esperienza che sappia offrire una seria programmazione cinematografica”.