Un ritmo per il riscatto di Napoli

Dicono che su TikTok esista un pulsante magico che consente di viralizzare qualsiasi canzone, anche quelle più dimenticate dai cataloghi. La realtà è che i fenomeni virali degli ultimi anni, compresi quelli ripescati dal cassetto, sono stati semplicemente alimentati dalla gente che li ha scelti come colonna sonora della propria vita per alcuni mesi. Per citarne solo alcuni, è accaduto al Gabbiano di Gianni Celeste (Tu comm’a mme) ma anche a Love Grows di Edison Lighthouse e I’m just a kid dei Simple Plan. Quest’anno è toccato alla Malatìa di Ciccio Merolla, un brano pubblicato a settembre, morto, (quasi) sepolto e sbocciato, letteralmente rinato, in primavera. Il singolo è entrato in classifica viral su Spotify l’8 marzo, rimanendoci per più di tre mesi; ha resistito al primo posto per più di sei settimane consecutive; su YouTube, il dato aggregato dei due video ufficiali parla di più di 9 milioni di visualizzazioni; su TikTok sono state realizzate quasi 900mila creazioni e per settimane ha tallonato Mon Amour di Annalisa ai primissimi posti della Top 20. Il brano si ispira alle umili origini della resistenza ecologica di Guataquí di Martina Camargo che, con la sua musica Palo y cuero, si batte da sempre contro le ingiustizie e gli espropri dai tempi del colonialismo fino alle multinazionali. Un sud del mondo depauperato e saccheggiato di cui anche Merolla, insomma, si fa legittimo portabandiera perché, se questo brano doveva parlare di riscatto, non poteva esserci parabola più opportuna sia per la canzone che per il suo autore ed esecutore principale, che insieme ad etichetta (Jesce Sole) e distributore (Believe Italia) ha raccolto risultati meritati, seppure inaspettati. Poi è arrivata la Time Records di Giacomo Maiolini (innumerevoli hit e intuizioni vincenti dal 1984) che sta trasformando il successo “pelle e voce” in una vera e propria hit con la versione “estiva” prodotta dal team Itaca di Merk & Kremont, la Capri Remix. Tim Summer Hits a Rimini e Battiti Live a Gallipoli sono stati solo l’antipasto di un’estate bollente per un brano che a colpi di percussioni si è preso la scena con gli interessi.

Ciccio, parto dalle brutte notizie: parlo con la gente, conoscono la canzone ma poi non conoscono ancora l’artista. Che si stanno perdendo! Ciccio, presentaci Merolla.

Sono un percussionista e suono da quando avevo quattro anni, quando rimasi folgorato da Sanremo: c’era la sigla finale suonata dal maestro Newman con un percussionista sempre inquadrato davanti a tutto il resto dell’orchestra e io ne rimasi talmente folgorato che iniziavo a suonare tutto quello che avevo intorno, mi costruivo batterie improbabili anche con le “cucchiarelle” di mia madre. Solitamente mettevo le canzoni di Bob Marley e suonavo continuamente per ore tanto che mio padre iniziò a preoccuparsi. Invece era successo qualcosa di inspiegabile che non mi avrebbe abbandonato mai più. Quando iniziò la scuola, ci organizzammo con gli amici alle elementari e io dissi subito che avrei suonato la batteria, ma mi fecero vedere un video col proiettore e scoprii che il batterista stava dietro a tutti e quindi optai per i famosi bonghetti perché mi davano la possibilità di stare davanti. Era l’epoca in cui si suonava molto per le strade: mio padre fa il parrucchiere e tutte le clienti andavano da lui dicendogli che avevano visto il figlio suonare per strada e mio padre la prendeva come un’elemosina. Per lui l’artista era solo un morto di fame senza futuro, a meno che non fosse imparentato con qualcuno. Io iniziai a chiedergli di andare al conservatorio ma il maestro Walter Scotti ci sparò 35.000 lire a lezione, una cifra al di sopra delle nostre possibilità. Non mi rassegnai, ma continuai a suonare con gli amici e a 12-13 anni mi chiesero per strada se avessi avuto piacere a partecipare a Blues Metropolitano, un film con Pino Daniele. Andammo a registrare in uno studio a Formia: per la prima volta vidi Pino dal vivo e conobbi anche Rosario Iermano, grande percussionista napoletano e amico di Pino, che mi disse che la musica si studia e iniziai a studiare con lui. Mi suggerì di studiare le congas col grande Karl Potter, e nel mentre iniziavo a farmi conoscere con i Panoramic che facevano rock progressive. Continuai a seguire il filo dell’aquilone: sotto la galleria Umberto conobbi Enzo Gragnaniello che era amico di Pasquale Barbaro, e insieme erano anche proprietari del Salone Margherita. Pasquale era un grande appassionato di percussioni, mentre Enzo mi invitò ad andare a suonare a casa sua anziché nei vicoli: stavo tutti i giorni, tutto il giorno, a casa sua. Assorbivo come una spugna i suoi insegnamenti, e sia lui che James Senese mi tramandavano ricordi unici. Il tutto mi consentì di imparare il mestiere, dalla composizione ai concerti che infatti andavano sempre meglio, pur essendo cose underground di nicchia. In più, ho sempre scritto: quando feci Sanremo con Gragnaniello e Ornella Vanoni, facevo già rap napoletano, uno dei pochi all’inizio. Una passione che non veniva dall’America ma dall’afrobeat. Il rap che cercavo di scrivere, e che ancora oggi cerco di produrre, ha sempre quel tipo di sentimento che è molto simile al napoletano. Le canzoni che mi sono piaciute l’ho sempre cantate con percussioni e voce: sentivo che il mio desiderio era appagato anche se speravo di comporre almeno una canzone pelle e voce, cosa che poi per fortuna è successa.

Malatìa, però, ci ha messo un po’ per ingranare.

È arrivata con la ricerca di tutte le melodie etniche, incluse quelle mediorientali. Quando l’ho sentita, ho avuto l’impressione di leggerla e assorbirla come se fosse una canzone napoletana e iniziai a scriverci sopra. Il giorno dopo chiusi la composizione con Lucariello. Ero veramente contento: la cantavo continuamente, anche per telefono. L’idea del primo video ufficiale dove suono la pornostar Amandha Fox nacque dal fatto che, tempo addietro, avevo fatto un assolo su un corpo di una modella che fece milioni di views, tanto che i miei fan mi chiedevano di farne un altro. Pensai che questa sarebbe potuta essere l’occasione giusta e, su consiglio di un amico, contattai Marco Bellocchio, regista hard storico che vive vicino Napoli. Scelsi Amandha Fox perché è anche una sportiva a livello agonistico. Mi piaceva l’idea della donna che sottomette l’uomo facendosi fare un massaggio e chiedendomi dove vuole essere suonata. Il corpo produce tante di quelle sonorità che è uno strumento a sé stante. I giornalisti, però, mi hanno distrutto, tant’è vero che una sera dissi a Fiorita (Nardi, titolare dell’etichetta Jesce Sole, N.d.R.) che avevo la sensazione di aver sbagliato l’operazione. Dopo un mese, facevo altro e non ci pensavo più. Più o meno a marzo, mio figlio mi dice che la canzone stava prendendo quota su TikTok e ogni giorno mi dicevano che i video aumentavano ed è stata una vera e propria magia. Mi sono ricordato di una metafora buddista che parla della parte migliore di una persona: c’è questo signore ricchissimo che incontra uno straccione e prima di abbandonarlo gli mette un brillante nella federa del cappotto e se ne va. Continua a fare una vita da povero e quando lo rincontra gli dice che ha addosso un diamante di un valore inestimabile. Io questo pezzo l’avevo anche psicologicamente maltrattato ma a un certo punto è stata la canzone a farsi strada da sola. Oggi, quando mi mandano link o video sul telefono, la canto insieme al video. Non mi stufa e la canto di continuo anche io. Ai concerti faccio sempre tre-quattro pezzi ma non vedo l’ora di rifarla. Stiamo facendo sold out dappertutto e vedo che la gente ormai sa a memoria anche “‘O bongo” e “‘Mpasta”. “Malatìa” l’ho metabolizzata in modo talmente forte che la canzone ormai mi appartiene, anche se ogni volta che la canto è diversa.

Quando hai conosciuto Giacomo Maiolini, l’hai suonato sul petto per percepirne la vibrazione. È così che capisci quando c’è sintonia con una persona?

È difficile spiegarlo a parole, è un’empatia che si crea. Giacomo mi disse che poteva far diventare un successo la canzone che per me, però, lo era già. Mi ha colpito perché stava già guardando avanti. A volte ci poniamo dei limiti, poi arriva qualcuno o qualcosa che te li toglie. La fantasia spesso è molto più bella della realtà. Con la fantasia possiamo andare ovunque anche se non lo facciamo materialmente. Ho percepito che era un altro filo dell’aquilone e che poteva essere ancora più forte di quello che avevo pensato. Ho capito che ogni cosa nella vita ha un disegno ben preciso: sono grato che mi stia succedendo a questa età perché a 20 anni non me la sarei giocata bene questa occasione. Le cose succedono quando uno è pronto. In questi anni ho imparato anche a condividere le cose con gli altri perché da soli non si fa niente. E questa è una tecnica che si sviluppa con gli anni. Etichettare le persone è un limite. Adesso posso avere perlomeno la predisposizione.

Il successo di Malatìa nasce con l’associazione alla cavalcata vincente del Napoli: per chi non è napoletano, ci spieghi meglio l’identificazione che il tifoso, ma anche il cittadino napoletano, prova per questo brano?

Se andiamo ad analizzare tutti i video che ci hanno mandato, non c’è un concetto che prevale su un altro. Lo scudetto si è messo in evidenza ma la “malatìa” per il napoletano è una passione forte di cui non si può fare a meno perché ne va pazzo e per quella passione è disposto anche a fare cose che non gli convengono: calcio, balletti, cibo, donne, soldi… ognuno ha voluto esprimere la sua ma non è che il calcio ha superato le altre. I bambini, i pasticcieri, i luoghi della città: c’è un equilibrio di contenuti, anche se non posso negare che la cavalcata del Napoli è stata sicuramente importante.

A parte la lingua, questa canzone parla di un concetto universale: come può allargare ulteriormente i suoi confini? (premesso che hai fatto pure un’intervista per una tv inglese)

Per quanto riguarda le parole, vale lo stesso concetto delle canzoni in inglese. Spesso c’è una melodia, un ritmo, un andamento che ci prende. Il ritmo che hanno conferito Merk & Kremont è legato al fatto che hanno dato un vestito che la canzone non aveva ancora e che mi permette di portarla fuori da TikTok e dai social. Mi permette di portarla oltreoceano. È come se questa canzone avesse questa esigenza di esprimersi ancora di più. Allo stesso tempo, mi piace pensare che i social abbiano corroso il monopolio di radio e tv perché prima per emergere bisognava per forza pagare o avere un contratto discografico potente. Oggi con i social ognuno ha un proprio canale televisivo, una propria radio, quindi, è il pubblico che decide e non c’è la sensazione di una regia dall’alto. Mi sembrano le commedie di Raffaele Viviani, nelle quali ogni personaggio che entra in scena racconta la propria storia, e tutte sono degne di attenzione, dal pescivendolo allo scienziato.

Un ritmo per il riscatto di Napoli

Ti sei ispirato al sound della tambora colombiana: chi è Martina Camargo per te? E perché ti senti vicino a un concetto geograficamente così lontano?

Martina Camargo non la conosco di persona ma probabilmente ha difficoltà nel mostrarsi in pubblico, preferisce non esibirsi. Io, misticamente, la prendo come se io stesso prendessi questa sua canzone – che ha scritto suo padre Cayetano che non c’è più e che era un grande percussionista di tumbadora – e le dicessi “non ti preoccupare che te la valorizzo io”. Per fare questo, devo anche metterci qualcosa di mio per onestà intellettuale, e qui nasce il ritmo che ho costruito in una maniera diversa rispetto al ritmo cumbia che c’è nell’originale e ovviamente anche le parole del testo. Io mi rimetto al giudizio di tutti ma questa melodia, Martina, te la porto oltreoceano perché sono sicuro che tuo padre desiderava questa cosa. Online non c’è molto dei suoi live, a parte il documentario del 2009. Volevo comunicare con lei all’inizio ma non c’è stato verso, ma ci proverò ancora, perché mi piacerebbe fare qualcosa insieme o magari altri brani ispirati a questa tradizione.

C’è in cantiere un album “pelle e voce”: senza svelare troppo, puoi anticipare qualcosa di questo filone che ormai hai sdoganato e che valorizza le tue doti di percussionista?

Ho ascoltato altre cose dei Camargo che trovo molto affascinanti e che potrebbero avere un respiro ancora più ampio. Vorrei incidere dei classici napoletani pelle e voce, ma anche degli inediti, creando questo genere. Quando un secolo fa si decise di far stare il Papa a Roma, il Vaticano vietò tutte le feste e le esecuzioni che includevano i tamburi, che quindi erano suonati soltanto dai contadini di nascosto per i canti propiziatori per il raccolto. Infatti, nella musica popolare napoletana dell’entroterra, come quella interpretata da Marcello Colasurdo, i canti popolari erano tutti eseguiti pelle e voce: si costruivano questi tamburi, che poi chiameremo tammorre, con le pelli di capra e le fascine che usavano per fare la ricotta, per asciugare i panni. Lo stesso è successo in Medioriente con i tamburi a cornice (i bendir): cambiano le tecniche e gli andamenti però i tamburi sono sempre uguali. Con i tamburi prima si andava a fare la guerra e questo era il motivo. È successo anche in Giappone con i famosi taiko, i tamburi enormi che venivano piazzati ai bordi delle navi da guerra per intimorire il nemico al momento dell’assalto. Il tamburo rappresenta la terra perché è il primo strumento che si è inventato l’uomo. Oggi posso andare con un djembe ospite in un concerto techno e i ragazzi ballano: è lo strumento contemporaneamente più antico e più moderno che esiste, è un mistero. È come se fosse il sole, la luna, il mare, il vento, un elemento primordiale, ancestrale. La chitarra e il pianoforte sono costruzioni dell’uomo, mentre il tamburo c’è già: suonarsi addosso, danzare ritmicamente o camminare sono cose che sono nate con l’uomo.

Ma tu a casa quanti ne hai?

Tra studio e casa ne ho circa duemila. È come con i vestiti: ti metti sempre quelle due-tre cose, ma devi aprire l’armadio e vedere che hai anche altro. L’altro giorno parlavo dei polistrumentisti e io devo dire che non ci credo a un polistrumentista perché se ti appassioni a uno strumento, un tamburo, un semplice scacciapensieri può diventare una batteria, una chitarra, un’arpa, un pianoforte, una voce che canta: da quella cosa fai uscire tutto quello che vuoi. È una questione di tuo, di animo. Se tu vai da Dr. Dre e ti fai fare una produzione incredibile, è capace che un ragazzino che fa beatbox solo con la voce ti dia una cosa ancora più potente.

La popolarità di questo brano ti ha anche portato a Piazza Plebiscito per i concerti con Gigi D’Alessio, che ti ha definito “maestro”.

Io mi sento maestro con la stessa percentuale con cui mi sento allievo. Continuo ad apprendere ogni giorno, ho una fame insaziabile. Sono genitore e figlio contemporaneamente. L’appellativo di maestro sta nella dedizione che dai a qualcosa e più acquisisci informazioni più le puoi trasmettere. Gigi è stato un passo che avevo già fatto io internamente e riguarda sempre il fatto di non porci limiti. Mi ripetevo che quello era un altro mondo ma era un limite che mi stavo ponendo io perché alla fine la musica è una, così come la vita è una sola. Non c’è genere, ma piuttosto ci sono uomini che si incontrano e ci sono dei significati profondi. Prima pensavo che ognuno stesse nel proprio genere, nel proprio binario e ci fossero dei treni che sono di passaggio nella stazione della vita, invece non è così: perché questi treni poi si uniscono, i passeggeri sono sempre gli stessi, il pubblico si è uniformato, il suo pubblico quindi poteva ascoltare tranquillamente anche me, il suo pubblico era lo stesso che cantava con me. Io devo essere ben consapevole che il mio pubblico è anche quello che canta Gigi D’Alessio. Ho partecipato a tutte e cinque le serate, una è andata anche in onda sulla Rai, ed è stata una gioia incredibile, ogni sera c’erano 30.000 persone che cantavano Malatìa con me. Gigi è un uomo di una generosità disarmante, ti imbarazza per quanto è generoso. Nello stesso modo di chi dona il sangue che alla fine il sangue lo tiene sempre pulito, lo stesso discorso vale anche per la persona ricca che è quella che sa far girare i soldi e non quella che se li prende e chiude il forziere. Il segreto sta nel donare con gioia perché poi la vita ci restituisce quella cosa.

Come tutte ‘e cose belle…

Non poteva durare per sempre. La sensazione che ci fa stare sempre all’erta e che non ci fa adagiare sugli allori è proprio il fatto che ogni cosa può finire da un momento all’altro e questo ci spinge all’automiglioramento perché niente è scontato, tutto può finire da un momento all’altro e non ci si può permettere di rilassarsi su una certa cosa, perché altrimenti finisce e noi stessi abbiamo la possibilità di alimentarla.

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