Un comunicato dell’ISPRA del 2018 rivela che nel nostro mare finiscono ogni anno 600mila tonnellate di petrolio
Era l’11 aprile 1991, avevo 17 anni e frequentavo il quarto anno all’ITIS di Savona, quel giorno il nostro professore di chimica industriale entrò in classe scuro in volto. Qualcosa di grave stava accadendo a pochi chilometri da noi: al largo di Arenzano era esplosa una petroliera, la Haven.
Al momento dell’esplosione la petroliera conteneva quasi 150mila tonnellate di petrolio. Le conseguenze per il nostro mare si preannunciavano disastrose.
Per ridurre la quantità di petrolio sversato e circoscrivere la zona compromessa la nave venne trainata verso riva e l’incendio non fu spento del tutto.
La Haven bruciò per 70 ore di fila, da casa riuscivamo a distinguere la colonna di fumo nero e denso alzarsi nell’aria, la sera si vedevano i bagliori delle fiamme.
La nave si inabissò tre giorni dopo, il 14 di aprile, alle 10 del mattino, lasciando nel nostro mare il peso di 5 morti e circa 50mila tonnellate di petrolio. Uno strato di bitume spesso 10 cm ricoprì i fondali per oltre 120.000 km quadrati, soffocando i pesci e la posidonia, imbrattando i gabbiani.
Nei mesi successivi, una flotta di navi e mezzi fu impegnata a ripulire oltre 100 km di costa ma i danni per l’ecosistema e per l’economia della nostra regione furono incalcolabili. Ne risentirono turismo e pesca, il pescato fu quasi dimezzato, nei mitili e nei pesci da fondale si registrò un livello di inquinanti molto superiore alla norma; il nostro mare continuò a rigurgitare catrame per anni.
Il relitto della petroliera giace ancora al largo delle coste liguri, a 85 metri di profondità, e strati di bitume ricoprono i fondali più profondi che non fu possibile pulire.
Quello della Haven è stato il più grande sversamento di petrolio nel Mediterraneo. È diventato un simbolo della fragilità del nostro mare e della pericolosità dei traffici petroliferi. Quel disastro e altri occorsi negli anni successivi, come quello della Erika, inabissatasi al largo delle coste bretoni il 13 dicembre ’99 con un carico di 30mila tonnellate di petrolio, hanno scosso l’opinione pubblica e spinto i governi a intervenire.
Le carrette del mare
Ci sono voluti oltre 20 anni dal disastro della Haven per vedere approvate a livello europeo norme come la rottamazione delle petroliere monoscafo entro il 2015 e il limite di vita delle petroliere di 25-30 anni. È stato rafforzato il sistema di controlli delle navi cisterna che operano nel Mediterraneo, con ispezioni regolari per garantire che tutte le navi rispettino i requisiti di sicurezza e ambientali, e promossa la cooperazione tra gli Stati membri dell’UE e i Paesi non-UE del Mediterraneo per migliorare la sicurezza marittima.
Nonostante questi indubbi passi avanti la situazione del nostro mare resta critica.
Secondo l’ISPRA (l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), negli ultimi 30 anni ci sono stati 27 incidenti nel Mediterraneo che hanno prodotto uno sversamento in mare di circa 272.000 tonnellate di petrolio. A questi si devono aggiungere gli sversamenti volontari.
Ogni giorno nel Mediterraneo circolano circa 300 navi cisterna che trasportano prodotti petroliferi, sempre secondo l’ISPRA sono addirittura 600mila le tonnellate di idrocarburi sversate annualmente nelle acque del Mediterraneo.
Biodiversità a rischio
Questa marea nera, continua l’ISPRA, ha “gravemente compromesso l’ecosistema, determinando danni ambientali difficilmente calcolabili persino dagli attuali sistemi di indagine scientifica”.
Il Mediterraneo è un mare ricco di biodiversità, ci sono circa 12mila specie, il 10% degli organismi marini dell’intero pianeta. Di queste il 20% sono endemiche, ovvero sono animali e piante che vivono esclusivamente qui, ciò rende il Mediterraneo il secondo mare dopo i Tropici per l’importanza delle sue risorse naturali.
Il riparo fornito dai 46mila chilometri di coste è stato per millenni (ed è tuttora) “un bacino prezioso per la vita degli organismi marini, ma anche per la sopravvivenza dell’uomo”.
Questo ecosistema ricchissimo e vitale ha, a causa della sua chiusura, un ricambio delle acque estremamente lento: quelle che vi entrano possono impiegare oltre cento anni, prima di essere nuovamente espulse verso l’oceano. Gli inquinanti che vengono sversati nelle sue acque vi restano per lunghissimo tempo.
Antropizzazione, industria e turismo: un mare sotto pressione
La resilienza del mare nostrum è stressata da molteplici fattori, tra cui la forte antropizzazione delle coste, l’intensivo sfruttamento minerario e il turismo di massa.
Oltre la metà delle sue coste, circa 25mila km, sono urbanizzate. In riva al Mediterraneo risiedono 150 milioni di persone e arrivano annualmente 270 milioni di turisti; queste cifre sembrano destinate a salire: secondo uno studio condotto dalla Med Sea Alleance entro il 2030 sulle rive del Mediterraneo potrebbero abitare 200 milioni di persone e giungere 500 milioni di turisti.
E allo sfruttamento turistico e residenziale si aggiunge quello minerario, la pesca, il trasporto marino e l’industria.
Il nostro mare è solcato ogni anno da circa 200mila imbarcazioni di grandi dimensioni, come navi portacontainer o traghetti, e da una moltitudine di pescherecci e navi da diporto; solo le micro-perdite di carburante dovute alle pulizia della sentina o ai rifornimenti, moltiplicato per il numero di imbarcazioni, crea un impatto importante.
Il traffico merci è circa il 15% del traffico marittimo globale. I principali porti mediterranei movimentano milioni di tonnellate di merci, tra cui petrolio, prodotti chimici, e container.
Attraverso il Canale di Suez vengono trasportati ogni giorno 7.5 milioni di barili di petrolio, il 20% del commercio globale.
Trivellazioni, raffinerie e bandiere di convenienza
Ci sono poi le trivellazioni, un dossier del WWF del 2012 rileva che la zona più esposta alle trivelle è il Mare di Alborán, tra Spagna, Marocco e Algeria, ma anche le coste italiane non sono immuni da pericoli. Sul Mediterraneo insistono 13 impianti di produzione di gas e 180 centrali termoelettriche. Sulle coste italiane sono situate ben nove raffinerie, che nel 2010 hanno lavorato più di 90 milioni di tonnellate di greggio e semilavorati.
I rischi di incidenti sono accresciuti dal fatto che, per i Paesi del Mediterraneo non appartenenti alla UE, l’applicazione delle norme può essere meno rigorosa e Stati con grandi flotte commerciali a livello globale, come Liberia e Panama, hanno spesso bandiere di convenienza che potrebbero coprire alcune navi che operano sotto normative meno stringenti.
Incidenti come quello avvenuto nell’agosto del 2021, in cui la rottura di un serbatoio nella centrale elettrica di Baniyas in Siria ha causato lo sversamento di 15mila tonnellate di petrolio – una fuoriuscita che ha coperto 800 chilometri quadrati di mare vicino alle coste di Cipro e Turchia –, dimostrano che siamo ancora molto lontani dal risolvere il problema.
Proteggere il mare, ripensare al nostro futuro
Sono necessari ulteriori interventi per prevenire altre catastrofi: una sorveglianza continua e più rigorosa, magari utilizzando tecnologie avanzate come i satelliti e droni; sanzioni più severe alle navi che violano le normative e non rispettano gli standard di sicurezza. In particolare, è importante che le navi battenti bandiera di convenienza si attengano alle stesse regole delle flotte dei Paesi più regolamentati. Sebbene accordi come la Convenzione di Barcellona esistano già, occorre rafforzare la cooperazione tra i Paesi del Mediterraneo, soprattutto tra quelli non appartenenti all’UE, per garantire l’applicazione uniforme delle regole.
Fondamentale sarebbe poi espandere le Aree Marine Protette nelle zone più vulnerabili, come quelle ad alta biodiversità o vicino alle rotte marittime principali, per limitare il passaggio delle petroliere in zone ecologicamente sensibili.
Ma ancora più importante sarebbe un cambio radicale di prospettiva volto a ridurre l’utilizzo dei combustibili fossili sia per la produzione di energia che per la circolazione dei veicoli. Vi è un grande dibattito sulle auto elettriche e sul loro reale vantaggio, una cosa è certa: le auto elettriche possono essere alimentate con energia prodotta da fonti rinnovabili, quelle a combustione interna no.
I combustibili fossili creano danni ambientali non solo quando vengono bruciati, lo fanno in ogni fase della loro vita, quando vengono estratti bucando e squartando la superficie terrestre, quando vengono stoccati e molto spesso quando vengono trasportati.
Progettare una vera transizione energetica che non sia mero greenwashing è determinante anche per difendere l’immenso patrimonio (economico e di ecosistema) che sono i nostri mari.