La speranza – e l’auspicio – è quella di aprire fino a mille ristoranti entro 4 o 5 anni, costi quel che costi. E la strada, almeno per il momento, sembra spianata: a parlare alla stampa di ambizioni e numeri è Oleg Paroev, Ceo di Vkusno & Tochka, il nuovo fast food made in Russia appena inaugurato a Mosca. È già un successo. Buono e Basta, si legge sull’insegna del ristorante in Piazza Pushkin, lì dove nel dicembre del 1990 centinaia di persone in fila venivano immortalate in attesa di addentare per la prima volta un panino al sapore di capitalismo. Un sogno infranto con l’inizio della guerra su larga scala in Ucraina e che ha portato anche McDonald’s, simbolo indiscusso della cultura americana proprio grazie ai suoi hamburger, a chiudere tutti i ristoranti e a lasciare il paese. Persino loro, i capitalisti, hanno preferito abbassare le serrande degli 850 punti vendita presenti in Russia e mettere fine ad un business che andava avanti più o meno dall’ascesa di Vladimir Putin.
A comprare l’attività della multinazionale statunitense l’imprenditore russo Aleksandr Govor, proprietario di oltre 20 ristoranti McDonald’s in franchising in Siberia, che non ha rinunciato alla nuova sfida: “i nomi cambiano, l’amore resta”, recita lo slogan della catena di fast food russa all’ingresso del locale, costretto però a reinventarsi pur di attrarre la stessa clientela tanto fedele al gusto di Mc. Nonostante le riproduzioni del famoso Big Mac e del gelato McFlurry non siano più nel menù, gli hamburger preparati e venduti durante la giornata di apertura lo scorso 12 giugno sono stati circa 120.000, un numero oltre le aspettative di Paroev e Govor. Prova superata con il massimo dei voti, quindi, anche se lo stesso Ceo ha rivelato alcune perplessità su una alta richiesta in grado di durare nel tempo. E mentre la clientela russa comincia ad imparare i nomi dei nuovi panini – da “Filet-O-Fish” a “Fish Burger”, da “Royal Deluxe” a “Grand Deluxe”, solo per citarne alcuni – e il numero dei negozi continua ad aumentare, Vkusno & Tochka dovrà fare i conti con le sanzioni inflitte alla Russia dall’Occidente e cercare nuovi partner commerciali per assomigliare, almeno per questa volta, ancora agli americani.
Le sanzioni occidentali
In principio, si temeva sarebbe mancato tutto dai negozi russi, e che le sanzioni dell’Unione Europea e degli Stati Uniti in primis avrebbero messo in ginocchio l’economia russa. Tornando agli incubi del passato. E in parte così è stato: nella prima settimana di guerra, iniziata il 24 febbraio 2022, i prezzi al consumo in Russia sono aumentati del 2,2% con la percentuale più alta raggiunta dai prodotti alimentari (il prezzo di zucchero e cereali era di circa il 20% in più rispetto all’anno precedente), con alcuni venditori che hanno accettato di limitare l’innalzamento dei prezzi di alcuni prodotti di base al 5%. Ad inizio marzo, sacchi di zucchero e grano saraceno erano però irreperibili in alcuni mercati locali russi, così come diversi medicinali stranieri, con le aziende pronte a chiudere definitivamente con Mosca: da Apple ad Ikea passando per Nike, H&M, Nestlè, Johnson & Johnson, dal settore energetico a quello automobilistico fino alla moda e al cibo, in questi mesi sono centinaia le grandi compagnie che hanno deciso di andarsene dalla Russia. Le sanzioni non hanno risparmiato nessuno: sei pacchetti, tra cui misure restrittive mirate (sanzioni individuali), misure diplomatiche e sanzioni economiche che, da febbraio ad oggi, “mirano a provocare gravi conseguenze per la Russia”, come si legge sul sito del Consiglio europeo. 98 entità e 1158 persone sanzionate, divieti di viaggio e congelamento dei beni. Tra questi, il presidente Vladimir Putin e il ministro degli Affari esteri Sergey Lavrov.
“Nel quadro delle sanzioni economiche l’Ue ha imposto alla Russia una serie di restrizioni all’importazione e all’esportazione – scrive il consiglio europeo -. Ciò significa che le entità europee non possono vendere determinati prodotti alla Russia (restrizioni all’esportazione) e che quelle russe non sono autorizzate a venderne altri all’Ue (restrizioni all’importazione)”. Un elenco di prodotti vietati concepito per massimizzare l’impatto negativo delle sanzioni sull’economia russa, limitando nel contempo le conseguenze per le imprese e i cittadini dell’Ue. L’organismo collettivo europeo spiega come le restrizioni all’esportazione e all’importazione escludono i prodotti destinati principalmente al consumo e quelli dei settori sanitario, farmaceutico, alimentare e agricolo, al fine di non danneggiare la popolazione russa. Anche se l’altra faccia della medaglia rivela un’alta percentuale di russi che si sente colpita dalle sanzioni – il 60% secondo un sondaggio pubblicato ad aprile e condotto dal Vciom, il Centro di ricerca russo sull’opinione pubblica – e che lamenta una carenza di prodotti abituali e un aumento dei prezzi, rispettivamente del 50% e dell’80%.
Cosa ne pensa Vladimir Putin
Folli e sconsiderate, è così che il presidente russo Vladimir Putin ha definito le sanzioni occidentali contro il suo Paese, sottolineando come il loro scopo sia schiacciare l’economia della Federazione Russa, senza però funzionare. L’intervento del presidente russo alla 25esima edizione dello Spief, il Forum economico di San Pietroburgo, disertato dall’Occidente, arriva dritto a chi deve arrivare, ai suoi cittadini e ai suoi nemici, a chi lo ascolta. “Gli Usa pensano di essere l’unico centro del mondo. L’Occidente mina intenzionalmente le fondamenta internazionali in nome delle loro illusioni geopolitiche – ha precisato il presidente russo – ma l’era dell’ordine mondiale unipolare è finita, nonostante tutti i tentativi di conservarlo con qualsiasi mezzo”. Come solo lui sa fare, Putin non ha paura di dire che l’attuale situazione in Europa “porterà a un’ondata di radicalismo e in prospettiva ad un cambiamento di élite”, con il prezzo più alto delle sanzioni che non sarà lui a pagare.
Secondo il suo leader, nonostante tutto, la Russia sta benissimo e non rischia nessun isolamento: a dargli ragione, contro ogni pronostico, è la tenuta del rublo che in questi mesi invece di crollare a picco ha addirittura recuperato una forza rispetto al dollaro che non aveva dal 2015. Guardando ad alcuni numeri, sembra che le frasi taglienti di Putin abbiano un fondo di verità, arrivando a pensare che le sanzioni facciano più male “qui” che “lì”. E invece, con gli inasprimenti dei rapporti tra la Russia, l’Unione Europea e gli Stati Uniti, la Federazione riesce a fare cassa con l’esportazione delle sue energie fossili guardando a Sud e ad Est, in primis a Cina ed India. Non senza ostacoli: mandare il petrolio in Asia vuole anche dire trasporto via mare e con le sanzioni sempre più compagnie assicurative si stanno rifiutando di coprire le petroliere russe (e le banche di concedere prestiti per il tempo di transito del petrolio). Un motivo in più per chiedere, come nel caso dell’India, petrolio scontato per pagare le spese extra: una condizione alla quale Mosca, al momento, non può rinunciare.
Il rischio default
Anche perché i debiti aumentano e il rischio default è diventato realtà: dopo il mancato pagamento di due bond lo scorso 27 maggio la Russia ha faticato a mantenere i pagamenti sui 40 miliardi di dollari di obbligazioni in circolazione dall’inizio della guerra su larga scala in Ucraina, dovendo saldare 100 milioni di dollari di interessi su due obbligazioni, una denominata in valuta statunitense e l’altra europea in scadenza nel 2026 e nel 2036. Il mancato pagamento del debito in valuta estera con scadenza 27 giugno – erano stati concessi 30 giorni in più – ha fatto il giro del mondo insieme a quella del default russo per la prima volta dal 1918. Con la conseguente replica del Cremlino, “le accuse di default della Russia sono illegittime, il pagamento in valuta estera è stato effettuato a maggio”. Se da una parte il Cremlino ha sottolineato come non ci sono motivi per un default della Russia, che non è in grado di inviare denaro agli obbligazionisti a causa delle sanzioni, dall’altra c’è chi avverte il pericolo della situazione attuale. “Se non facciamo nulla potrebbe essere necessario circa un decennio per riportare l’economia ai livelli del 2021”, ha affermato il Ceo di Sberbank Herman Gref, chiedendo una riforma strutturale dell’economia russa. A margine del discorso di Putin allo Spief, l’amministratore delegato della principale banca russa ha chiarito che i Paesi che hanno colpito la Russia con le sanzioni rappresentano il 56% delle sue esportazioni e il 51% delle sue importazioni, smentendo un apparente stato di salute del sistema economico russo. Un altro botta e risposta tra finzione e realtà.