Tracciare il bilancio di un’intera stagione teatrale, quella che ci siamo lasciati alle spalle, è un’impresa certamente ardua. La domanda vera da fare, però, è: quale la sua utilità? Per principio, il teatro è un genere artistico destinato a scomparire. Ne restano poche testimonianze: saggi, recensioni, fotografie, registrazioni. Ma tutto questo non è “teatro”. È la sua sindone: una traccia – o segnatura, come la chiamava Foucault – che restituisce più o meno un’idea di quello che può essere stato uno spettacolo. Ma nulla di più. Tra l’altro, fermare su un supporto, anche cartaceo, qualcosa che deve scomparire, è ingiusto. L’essenza stessa del teatro sta nel fatto che deve essere un edificio di sabbia che, esposto ai venti, si erode. Poi ognuno ne serberà un ricordo pallido, mai preciso, fatto più di sensazioni che di obiettività. Il cinema – quello sì – è un genere artistico nato per la fissità. Il teatro è mercuriale, è quindi mutevole per natura. Ciò che cambia di continuo, non si può arrestare in nessuna forma definitiva. Per tornare alla domanda iniziale: tracciare il bilancio di una stagione di spettacoli? Impossibile. Bisognerebbe essere un Angelo Maria Ripellino o un Alberto Arbasino. Ma entrambi hanno dato vita a capolavori difficili da ripetere (Il trucco e l’anima e Grazie per le magnifiche rose): veri e propri romanzi che hanno raccontato un periodo i cui personaggi erano attori e spettacoli andati in scena. Oggi non ci troviamo più nella situazione fortunata di Ripellino e Arbasino. I grandi protagonisti – fatte rare eccezioni –, quelli che l’autore di Fratelli d’Italia chiamava Venerati Maestri, sono venuti a mancare.
È difficile, perciò, ripescare spettacoli che sono rimasti impressi nella memoria come i geroglifici su un rotolo di papiro. Nei decenni passati vi era una certa continuità – qualitativa e quantitativa – di registi, scenografi, drammaturghi, attori al punto che veniva facilissimo ricostruire, tramite l’elaborazione di una trama, un lungo periodo di ribalte illuminate e calcate da veri mattatori. Se pensiamo alla prosa classica: apriti cielo! Il solo titolo che mi ricordi con un certo entusiasmo è Morte di un commesso viaggiatore, magnificamente interpretato da Michele Placido (che sostituì all’ultimo Alessandro Haber per via di un incidente postoperatorio che lo costrinse, e tuttora lo costringe, su una sedia a rotelle). Placido interpretò la pièce di Miller in modo davvero magistrale, con grande senso della misura e una profondità ricercata mai resa pesante dagli artifici del mestiere. Quindi: bravissimo! Meraviglioso! Soprattutto perché fu una messinscena che non badò a distorcere la natura classica di un testo classico. Non ne fece neppure una versione “arsenico e vecchi merletti” dal vago sapore di naftalina! Tutt’altro: fu moderna ma coerente con le intenzioni di Miller: rispettate e tradite con equilibrio. Se provo a ripescare nella memoria qualcosa che abbia a che fare col melodramma, debbo essere sincero, non mi viene in mente proprio nulla. Spettacoli non eccelsi, poco coraggiosi. E poi tutti con la costante fissa di volerli rendere moderni per colpa d’una convinzione: che l’opera lirica sia un linguaggio che, oggi, non riesce più a comunicare alcunché ai giovani e ai nostri contemporanei più vecchiarelli. E quindi abbiamo assistito a messinscene dislessiche: linguaggio ottocentesco, duelli, questioni d’onore, narrazioni di cui è impossibile non avvertire riferimenti a epoche lontane (l’Ottocento, santi numi!), e ambientazioni moderne stile loft newyorkese, abiti modernissimi, con macchine al posto delle bellissime carrozze. E perché? Semplice: così tutti capiranno meglio il “Nessun dorma”. Ma per non rischiare di dar vita ad un regesto tutto negativo, bisogna cambiare ambito di riferimento. E allora non sarà al teatro classico (mi ritorna in mente l’orribile Amleto di Barberio Corsetti, andato in scena all’Argentina e quest’anno replicato a grande richiesta: che orrore!), ma a quello leggero che sarà meglio pensare. Forse aveva ragione Savinio: la rivista salverà il teatro. Come non ricordare il delizioso Cetra una volta, dedicato al Quartetto Cetra, spettacolo che nella stagione di quest’anno tornerà in scena all’Ambra Jovinelli (l’anno scorso, invece, era al Parioli di Roma)? Bravissimi tutti gli interpreti (Stefano Fresi, Toni Fornari ed Emanuela Fresi): eclettici, simpaticissimi, ricchi di verve e presenza scenica che, col pretesto di rendere omaggio al leggendario gruppo canoro, hanno rievocato l’epoca del varietà con dovizia di particolari ed episodi gustosissimi che, altrimenti, sarebbero andati perduti per sempre. Nomi come Vaime e Terzoli, Scarnicci e Tarabusi, Marcello Marchesi, Dino Verde oggi li conoscono in pochi (peccato!), ma sono coloro che hanno creato il varietà per come lo si è conosciuto e fatto per lungo tempo. Per non parlare di spettacoli come Che disastro di commedia! o Che disastro di Peter Pan! In poche parole, ci si trova di fronte a meccanismi comici alla Laurel & Hardy trasposti dal cinema al palcoscenico. Operazione non facile, ma chi ha avuto la fortuna di assistere a queste due commedie, ha avuto l’onore di vedere spettacoli che possono assurgere alla categoria di veri capolavori.
Ma è soprattutto ai giovani che mi viene da pensare ricordando la passata stagione teatrale. Bistrattati, ignorati, ostacolati, con scarse opportunità per lasciarli esprimere…Sono proprio i nuovi attori, tra i venti e i trent’anni, quelli che hanno salvato il teatro dal baratro in cui i cosiddetti Venerati Maestri – per la verità rimasti allo stadio precedente, quello di soliti stronzi – lo hanno destinato. Shame culture, spettacolo dedicato al disagio giovanile conseguente alla scelta forzata di dover, per forza, frequentare l’università soffocando sogni e aspirazioni diverse, è una pièce innovativa sia sotto il profilo drammaturgico (un intreccio di monologhi polifonici che entrano in relazione tra loro senza mai diventare veri e propri dialoghi) che recitativo. Vincenzo Grassi, uno dei protagonisti, è stato eccezionale: ironico, drammatico, grottesco, severo e leggero: il tutto simultaneamente. E pensare che ha 27 anni. Per non parlare di un trio di giovanissimi attori, autori e registi: I Centouno – Luca Latino, Flavio Moscatelli ed Ezio Passacantilli – che hanno portato in scena, come di consueto, commedie brillanti ed esilaranti, che ricordano quelle dei fratelli De Filippo (La casa preoccupata, Poteva andare peggio e Parto o non parto?), mai volgari, e recitate in modo egregio. Michele Eburnea: altro giovanissimo attore, un fuoriclasse, che in Error materia ha dato vita a un Pinocchio originale che nulla aveva da condividere con i suoi predecessori illustri, e che ha anche dato prova d’essere un eccezionale interprete drammatico (penso al suo Riccardo II, nella tragedia shakespeariana omonima, andata in scena al Festival dei Due Mondi 2022). Per concludere: la stagione teatrale dell’anno scorso è stata variegata. Pessima – fatte pochissime eccezioni – pensando ai cosiddetti Venerati Maestri; buona e divertente pensando alla generazione di mezza età (o giù di lì); eccellente se si considerano gli spettacoli realizzati da interpreti giovani, ricchi di idee, originali, mai banali o scontati. Sono questi ultimi che andrebbero seguiti, inseguiti, scoperti. Perché loro sono in grado di rinverdire i classici interpretandoli con occhi e cuore nuovi. Perché sono loro gli unici che, con le creazioni cui danno vita – come autori, come registi e come interpreti –, possono salvare il teatro dal grigiore del già detto, già fatto, già visto. Il teatro, in definitiva, è vita. Ma per scoprirlo e farne esperienza occorrono coraggio e follia. Le nuove generazioni ce l’hanno. I grandi vecchi il loro coraggio e la loro follia dove li hanno lasciati?