Harris non basta per far dimenticare che i democratici stanno sterminando un intero popolo
Era novembre del 2020. Erano passati otto mesi dal lockdown per la pandemia di Covid-19, e quarantaquattro mesi da quando gli americani non credevano possibile che Donald Trump potesse diventare il loro presidente. C’era paura e c’era speranza. C’era incertezza e c’era stanchezza. Tanta. Mesi a non fare niente fisicamente, chiusi in casa, ma a far lavorare la mente come non mai. “Cosa succederà alla mia famiglia? Dove andrò a vivere? Come mi curo visto che ho perso il lavoro e di conseguenza l’assicurazione sanitaria?”; “mi vaccino o non mi vaccino?
Il mio presidente dice che big Pharma ci usa come topi da laboratorio, che il virus cinese è stato creato per distruggere la nostra economia”; “io sono immigrato e con il travel ban non posso uscire. Non basta che abbia un affitto e un lavoro qui in America, se torno a casa a vedere la mia famiglia in Europa, poi non posso tornare, perché non ce li ho 10 mila dollari per andare a passare 15 giorni in uno dei paesi che secondo Trump non hanno tanto Covid”; “sono incinta e sono emigrata ma nessuno della mia famiglia può venire a trovarmi, e io non posso viaggiare per andare da loro, perché il travel ban del presidente ce lo impedisce.
“Dopo venti anni negli Usa, sono stato cacciato da alcuni agenti ICE mandati da Trump”
Qualcuno dice che lo mantiene in atto perché così gli stranieri non rubano il lavoro agli americani”; “poverine quelle famiglie spezzate e divise in gabbia al confine con il Messico. Pensavo che il tempo dei muri fosse finito, ma invece no. E si sa, quando si costruisce un muro, non è mai un buon segno per la storia”; “dopo venti anni negli Usa, sono stato cacciato da alcuni agenti ICE mandati da Trump, ho figli americani, un lavoro, pago le tasse, ho fatto anche parte dell’esercito ma non sono regolarizzato e devo andarmene”.
“Sono dell’Alabama, sono stata violentata e non posso abortire il bambino che ho nella pancia perché i politici al governo non vogliono”; “sono un’afroamericana e ho paura che un giorno si canti il mio nome a una manifestazione Black Lives Matter”; “ho perso mio zio ma non posso andare al suo funerale in Francia”; “ho perso mia sorella ma sono appena rientrato dopo aver speso tanti soldi per poter tornare a casa in America, e se vado al suo funerale e lascio gli USA, non posso più rientrare e perdo il lavoro e il futuro”. Queste frasi rimbombano nella testa come il grido di un bambino in una stanza senza mobili. Se le ricordano tutti gli americani con coscienza sociale e tutti gli immigrati che vivevano lì. Quattro anni, lunghi e brevi allo stesso tempo. Paura per un’evidente mancanza di controllo, perché di un presidente cattivo ma lucido si possono prevenire le mosse, ma di un lunatico é l’imprevedibilità che fa tremare.
La storia
Poi vince Biden. Si tira un sospiro di sollievo, che però dura niente. L’ossigeno si blocca in gola e non arriva fino a su e ci si sente soffocare: dei pazzi scalmanati, come li definirebbe una nonna italiana emigrata in New Jersey, sono entrati a Capitol Hill, alcuni vestiti da vichinghi. Ci sono dei morti. Terrorismo? No, è Trump, non ha accettato la sconfitta elettorale.
“Ma ora ci riprenderemo, Biden aprirà le gabbie in cui Trump aveva rinchiuso i latino americani in cerca di un futuro. E butterà giù il muro, lo ha promesso”, si diceva. I mesi passano ma il muro ancora lo si sta costruendo. Sì, il rilascio dei soggiorni permanenti é aumentato, ma per gente benestante, per gli immigrati di serie A, non per gli altri. La solita furbata politica, direbbe un italiano emigrato nel Maine. Però, forse, ora che c’è Biden, gli afro americani smetteranno di essere uccisi dalla polizia… Nemmeno, anzi, è il periodo peggiore per loro.
E adesso nemmeno si manifesta più di tanto. Perché le piazze e le strade sono verdi, rosse, nere e bianche per la Palestina, perché Biden continua a vendere le armi a Israele, partner in crime letterale, e Israele con quelle armi continua a uccidere tutto e tutti a Gaza, anche i suoi ostaggi. Nel mentre, con quelle armi e con quella impunità, i coloni della Cisgiordania, le cui gesta ricordano sempre più i bulli coatti del Trullo, cacciano di casa i palestinesi a suon di proiettili e bruciano tutto, stile Trump a Capitol Hill. “Ma, almeno, proprio grazie a questa sua malefatta, non lo vedremo più alla Casa Bianca”, si diceva. E invece no, eccolo di nuovo, con il suo capello color mandarino, come direbbe Verdone, candidarsi nonostante una condanna penale per trentaquattro reati di falsificazione di documenti aziendali.
Quanto accaduto a Capitol Hill viene invece considerato solo un capriccio, nessuno ne parla più. Non importa, è eleggibile. Poi dicono agli italiani, direbbe un trentenne emigrato in California. I mesi passano e ora i moltissimi venezuelani richiedenti asilo negli Usa approvano l’operato di Biden, che li ha legalizzati e ha dato loro un futuro. Ma ai più esperti, questa mossa sembra un chiaro dispetto a Maduro, più che un atto di gentilezza nei confronti degli immigrati, perché altrimenti avrebbe aiutato anche quelli di altri Paesi, come Messico ed Ecuador.
E avrebbe buttato giù quel muro. I mesi passano e Joe Biden emette segnali di demenza. Ormai è più incontrollabile di Trump: fa gaffe, sbaglia i nomi dei presidenti, si assenta, guarda nel vuoto. Punta i piedi insieme alla moglie e a tanti altri ex presidenti e sostenitori democratici per restare: “sto benone”, dice. Ma poi Trump viene sparato all’orecchio, e ora fa davvero paura. Fa paura lui e soprattutto fanno paura i repubblicani che lo sostengono, che iniziano a bendarsi l’orecchio anche loro e rasentano l’inquietudine emessa dalla setta americana di Chicago dei Ripper Crew.
C’è solo un modo per non farlo vincere: cambiare colore delle pedine, da bianco a nero. Kamala Harris, è lei la candidata scelta per sconfiggere Trump. Per tutti i democratici, soprattutto i bianchi, c’è un’unica cosa che conta: non far tornare Donald alla Casa Bianca. Ma c’è un problema. Già, proprio lui, il partner in crime degli Stati Uniti d’America: Israele.
Il genocidio che sconvolge solo una parte di mondo
Netanyahu continua a comportarsi da matto: bombarda tutto e tutti, uccide lui praticamente tutti gli ostaggi israeliani ancora nelle mani di Hamas, sembra un bambino di due anni lasciato solo a giocare nella propria cameretta per mesi. Ogni tanto Biden apre la porta della stanza ed emette il suono flebile di due sillabe: “Bibi…”. Un grido disumano penetra non solo dalla porta semi aperta ma dalle pareti della camera tutta, ormai irriconoscibile, ormai distrutta. Allora puntualmente Biden richiude la porta e va via. Come succede a un genitore quando si rende conto che il disastro creato dal figlio è talmente irrimediabile che accetta il proprio destino e lo lascia fare.
“Blinken, provaci tu”, ha detto, esasperato Biden qualche giorno fa, proprio come una madre esausta fa con il padre quando spera che un’altra autorità abbia più impatto. Niente, Bibi è incontrollabile. E Biden e Kamala lo lasciano fare. Trump lo lascerà fare se venisse eletto. Ma c’è qualcuno che invece ha fatto dello stop al genocidio dei palestinesi la sua causa principale in campagna elettorale: Jill Stein, ebrea, Green Party, che ha scelto come vice presidente il professore di storia Butch Ware, sostenuti da tutti coloro che non sopportano più quanto sta accadendo in Medio Oriente, soprattutto afro americani, giovani, studenti universitari, palestinesi americani, americani arabi, attivisti dell’ambiente.
E come biasimarli? Sono giovani, svegli, hanno talmente poco da perdere come generazione che se ne fregano delle briciole dei privilegi, a cui invece sono aggrappati gli over 45, soprattutto bianchi. Stanno assistendo a un genocidio su un social network, Instagram, che era nato per condividere il rosso dei tramonti, non del sangue di un popolo intero. Brandelli di corpo appesi alle pareti delle case distrutte, bambini senza testa, bambini con occhi di fuori per un cancro lasciato scorrere nel corpo senza trattamenti farmacologici, che bastardo corre perfino più veloce del sangue versato sulle strade della Striscia di Gaza tutta.
Si dovrà impegnare un po’ di più il Democratic Party se non vorrà spegnersi nei prossimi anni. Perché Jill Stein non vincerà queste elezioni, ma spianerà la strada a una terza opzione che decreterà la fine del sistema elettorale americano come lo abbiamo visto fino a oggi. E la Ocasio-Cortes, Obama e gli altri, possono commuoversi e commuovere alla National Convention dei democratici, ma i cassetti segreti si sono aperti e hanno svelato un contenuto corrotto dai troppi interessi. Sono passati dieci mesi, gli americani continuano a gridare per le strade Free Palestine, ma è la Palestina che sta liberando loro da loro stessi e dal loro capitalismo.