*il 7/02 sul N. 5 della rivista il Millimetro
Che quella che si sta combattendo nel cuore dell’Europa non sia più (o non lo è mai stata) una guerra Russia-Ucraina ma una guerra Russia-Nato in Ucraina, ormai l’hanno capito tutti. Basti pensare all’immenso arsenale inviato a Kiev dai paesi del Patto Atlantico. Dagli Stati Uniti, per la gioia delle grandi fabbriche di armi (le prime 5 al mondo, Lockheed Martin, Raytheon Technologies, Boeing, Northrop Grumman Corporation, General Dynamics sono tutte statunitensi) sono arrivati miliardi su miliardi in armamenti. La Gran Bretagna sta inviando i carri armati Challenger 2, la Germania, nonostante la reticenza del cancelliere Scholz ha spedito i tank Leopard mentre il governo Meloni, dopo il vertice Nato di Ramstein, ha annunciato l’invio di una delle sei batterie anti-aeree SAMP/T in dotazione dell’Esercito Italiano. Si tratta, tra l’altro, di armi costosissime. Ogni batteria più l’equipaggiamento (radar multifunzione ARABEL 90, missili ASTER30, modulo di ricarica terrestre) vale circa 800 milioni di euro, più o meno la cifra che la Meloni si è vantata di risparmiare tagliando alcune mensilità di reddito di cittadinanza alla categoria degli occupabili. L’immensa quantità di armamenti arrivata a Kiev in questi mesi onestamente cozza con la narrazione di una Russia sull’orlo della resa. A distanza di quasi un anno dall’invasione russa dell’Ucraina Mosca, nonostante macroscopici errori iniziali dovuti ad errate informazione raccolte dai servizi segreti, controlla in Ucraina un territorio vasto poco meno del Portogallo. È vero che la controffensiva ucraina di settembre scorso ha provocato ritiri e riposizionamenti da parte russa (ritiri e riposizionamenti, purtroppo, caratterizzano le guerre lunghe) è altrettanto vero che la Caporetto russa pronosticata dai commentatori succubi della Nato non si è ancora vista. Al contrario, mentre veniva profetizzata un’imminente riconquista ucraina della Crimea o l’esaurimento di missili da parte di Mosca, i russi riparavano il Ponte di Kerč ed intensificavano i vili bombardamenti sull’Ucraina. Non solo, nelle ultime settimane, a Soledar e Bakhmut, due cittadine dell’oblast’ di Donec’k, si stanno combattendo le battaglie più sanguinose dall’inizio della guerra. Russi ed ucraini combattono sui cadaveri dei loro commilitoni.
Tra palco e realtà – Nessuna mediazione
Non si vede la luce, non si vede la Pace, non si vede un negoziato. Quello che si vede è Zelensky, praticamente ovunque. Zelensky è divenuto l’eroe dei potenti della terra, il protagonista assoluto del mainstream, l’idolo degli attori di Hollywood ed il miglior alleato delle fabbriche di armi. Lo scorso 10 gennaio, intervenendo alla premiazione dei Golden Globe (sì, dei Golden Globe) Zelensky ha detto che “non ci sarà una terza guerra mondiale”. In realtà una terza guerra mondiale a pezzetti, come la definì Papa Francesco, è già in atto dal 2011 anche se in pochi se ne sono accorti. Libia, Siria, Yemen, Africa subsahariana e Donbass, luoghi scelti dalle grandi potenze per regolare i conti, per ragioni geopolitiche o, banalmente, per tastare sul campo l’efficienza dei propri sistemi d’arma. Quei sistemi d’arma che Zelensky chiede a più non posso per sconfiggere il “nemico comune”. Così ha definito la Russia pochi giorni fa intervenendo al World Economic Forum di Davos. Che sia un nemico dell’Ucraina è ovvio. Molto meno che lo debba per forza diventare di tutti gli altri paesi, inclusa l’Italia. A meno che non si ammetta di essere ufficialmente in guerra. Che è poi l’obiettivo, legittimo, di Zelensky quando chiede immediate garanzie sull’entrata dell’Ucraina nella Nato. Alcune settimane fa, parlando a Leopoli, il Presidente ucraino, nonostante Kiev sia stata foraggiata di una quantità di armi incredibile, si lamentava di un ancor insufficiente coinvolgimento da parte dell’Alleanza atlantica. “Per oggi, il solo sostegno all’Ucraina da parte dei colleghi della Nato e il sostegno sotto forma di retorica sulle porte aperte non sono sufficienti per l’Ucraina. Ossia, non è abbastanza per motivare il nostro Stato e i nostri soldati”. Parole importanti che da un lato ricalcano svariate dichiarazioni passate di Zelensky, dall’altro ci informano che anche i militari ucraini, comprensibilmente tra l’altro, hanno bisogno di motivazione. Soprattutto in una fase della guerra in cui, sebbene il mainstream ci voglia far credere che a morire siano esclusivamente i russi, stanno morendo migliaia di soldati ucraini, civili in divisa, povera gente che spesso e volentieri neppure vuole andare al fronte. Esattamente come i soldati russi. Ma la parola negoziato si fatica sempre più ad ascoltare.
Tra palco e realtà – Continua la richiesta di armi
Io non sono più convinto che Zelensky voglia la pace. Vuole la sconfitta militare della Russia. Per questo chiede armi sempre più distruttive che Washington, riluttante fino a poche settimane fa, sembra in procinto di spedire. Qualche settimana fa il New York Times ha pubblicato un pezzo dal titolo U.S. Warms to Helping Ukraine Target Crimea. Gli Stati Uniti vogliono aiutare l’Ucraina a colpire la Crimea. L’escalation sembra non finire. Zelensky ha i suoi obiettivi sebbene occorra, una volta per tutte, capire quanto questi siano condivisi dalla popolazione ucraina. La Nato-narrazione è piuttosto chiara. In Ucraina vogliono combattere tutti mentre in Russia non vi sono altro che potenziali disertori costretti dal Cremlino ad andare in prima linea con la minaccia della fucilazione. Sarà, certo sarebbe utile mostrare anche le immagini di cittadini ucraini che distruggono i fogli di arruolamento o delle mamme che protestano perché nulla sanno della sorte dei loro figli al fronte. Scene drammatiche, scene di guerra. Una guerra che davvero in pochi vogliono far finire. Lo scorso novembre Ursula Von der Leyen pubblicò un video su twitter nel quale sosteneva che fossero morti 100.000 soldati ucraini. Subito dopo quel video venne sostituito con un altro dal quale avevano tagliato la parte relativa alle vittime. “Cifre inesatte” trapelò dalle solite fonti della Commissione europea. Eppure alcuni giorni prima Mark Milley, ex-Capo di stato maggiore dell’Esercito degli Stati Uniti, aveva fornito numeri identici: 100.000 morti tra i russi e 100.000 tra gli ucraini. Ma era novembre. Oggi, dopo le battaglie di Soledar e Bakhmut, temo che i morti siano molti di più, soprattutto tra gli ucraini. Ma la propaganda deve andare avanti, da tutte le parti.
Tra palco e realtà – Sempre più Star
Zelensky, dopo essere intervenuto ai Golden Globe, dopo aver aperto il Festival di Cannes chiedendo al cinema di non restare muto, dopo aver chiesto durante la consegna dei Grammy a tutti i cantanti di “riempire il silenzio della guerra con la musica”, dopo essere intervenuto all’Eurovision Song Contest 2022 chiedendo, tra l’altro, di votare per Kalush Orchestra, gruppo hip-hop ucraino che, stranamente, si è aggiudicato il primo posto e dopo essere intervenuto al Festival del Cinema di Venezia dicendo che “viviamo in un horror, non di 120 minuti ma di 189 giorni”, è intervenuto anche al Festival di Sanremo con un testo che letto da Amadeus. La bulimia mediatica di Zelensky non mi ha mai convinto. A volte penso che mentre il suo popolo vive sotto le bombe e spesso senza luce né gas lui viva in una bolla mediatica resa da altri più grande di lui. Ripeto, temo che non sia interessato alla pace come probabilmente lo era durante i primi mesi di guerra. E questo nonostante il bagno di sangue che si consuma sulla sua terra o sulla terra contesa del Donbass. Insomma, nelle ultime settimane Putin ha visitato lo stabilimento Obukhovskij di San Pietroburgo, storica fabbrica di cannoni navali durante l’epoca degli zar e che tutt’oggi produce armamenti, ricordando gli investimenti sul comparto militare-industriale russo in rovina durante gli anni di Eltsin, e Zelensky è intervenuto a Sanremo con un testo scritto. Francamente entrambe le cose mi spaventano. In molti sostengono che Mosca stia pensando ad una seconda, grande, mobilitazione. In molti ritengono che il Cremlino stia pensando ad una nuova offensiva in Donbass e allo stesso tempo ad un attacco dalla Bielorussia. Sono gli stessi che fino a due mesi fa ritenevano Putin prossimo al suicidio come Hitler nel bunker di Berlino. Sono gli stessi che continuano ad insistere sulla pace che si costruisce con la guerra. Sono gli stessi che “amano le armi ma non le usano”, per lo meno direttamente, per citare Daniele Silvestri, lui sì a suo agio sul palco dell’Ariston. Sono gli stessi che ripetono a pappagallo i comunicati della Nato. Sono gli stessi che non pensano più. Quando prima di sparare sarebbe necessario farlo. Sempre. Perché “tra palco e realtà” ci sono migliaia di morti.