È notte fuori dallo stadio Al Bayt di Al Khor, a 60 km da Doha, quando decine di giovani ragazzi mangiano uno snack seduti su un muretto. Sono tutti indiani sulla ventina e da poco meno di un mese vivono a Lusail, la cittadina a sud tra Al Khor e la capitale, e fanno avanti e indietro con lo stadio, tutti i giorni fino alla fine dei mondiali. Sono addetti ad uno dei tanti controlli per accedere all’immensa struttura, e come loro migliaia di altri lavoratori stranieri venuti nel piccolo Stato che affaccia sul Golfo Persico per lavorare proprio per e durante la competizione calcistica. “Nessun salario al momento”, dice uno di loro; “ma tu lavori per la Fifa?”, chiede subito un altro. Seppur ingaggiati da una compagnia terza indiana, non sono autorizzati a condividere il loro contratto di lavoro, sempre ce ne sia uno. E neanche ad entrare negli stadi per vedere una partita: “solo per una foto e poi basta”. Dicono di essere in Qatar per 45 giorni, poco più della durata della Coppa del Mondo, per lavorare. Il pagamento, come avviene per altri comuni contratti a progetto, solo a conclusione dello stesso, “non è tanto ma per noi va bene – conclude uno dei due -, è bello essere qui”. Nulla di strano nel trovare un gruppo di giovani lavoratori indiani in un Paese dove nel 2017 la popolazione di quelli stranieri aveva raggiunto gli oltre 2 milioni, cifre aumentate del 40% da quando il Qatar è stato designato per l’edizione del 2022 dei Mondiali. Quelli incontrati fuori da uno degli stadi non sono infatti gli unici ad aver accettato una proposta di lavoro in Qatar, con loro migliaia provenienti dal Pakistan, Sri Lanka, Nepal e Bangladesh, una parte di questi deceduti nei cantieri messi su in questi anni.
L’inchiesta del Guardian
Quando il quotidiano inglese The Guardian all’inizio del 2021 aveva svelato lo sfruttamento e le morti di migliaia di lavoratori migranti (oltre 6.500) avvenute in circostanze legate ai lavori di pianificazione e costruzione di stadi e strutture architettoniche in Qatar, il polverone non si è alzato poi così tanto. Quando le testimonianze dei migranti provenienti da India, Pakistan, Sri Lanka, Nepal e Bangladesh (le cifre non hanno incluso i decessi di lavoratori filippini e kenioti), si sono susseguite una dopo l’altra, a distanza ravvicinata con l’inizio dei mondiali in Qatar, si è iniziato a considerare il vero costo di una semplice competizione calcistica. Che no, non sarebbe stata possibile senza i 2 milioni di lavoratori migranti che hanno costruito le infrastrutture in vista di Qatar 2022. Molti di loro probabilmente morti mentre lavoravano, senza che la loro morte fosse stata veramente appurata, se per una caduta dall’alto, per un’insufficienza cardiaca o respiratoria acuta spesso descritta come “morte naturale”. La realtà si traduce in uno stress termico non più tollerato dai lavoratori, costretti a lavorare anche nei mesi estivi con temperature che in media raggiungono tranquillamente ben oltre i 40 gradi. I primi a denunciare il sistema sono stati proprio i giornalisti del Guardian, poi criticati per non aver fatto distinzione, nella loro inchiesta, tra i lavoratori migranti e la popolazione straniera residente in Qatar. Anche se già nel settembre 2013, l’International Trade Union Confederation aveva messo in guardia che il Mondiale avrebbe potuto costare la vita a circa 4.000 persone. Due mesi dopo, Amnesty International aveva diffuso un report nel quale denunciava lo sfruttamento dei lavoratori migranti in Qatar. Poi, nel gennaio 2014, sempre il Guardian parlava di 185 nepalesi morti nell’ultimo anno nei cantieri qatarioti, mentre un anno più tardi, nel 2015, il Washington Post aveva pubblicato una grande inchiesta sul tema parlando di 1.200 operai deceduti.
Cards of Qatar
La schiavitù moderna, però, è fatta di persone oltre che numeri, e una partita di calcio in più non dovrebbe valere neanche una vita in meno. “Se ne fossero morti mille, uno o 6mila avrebbe fatto differenza?” La domanda retorica è di Martin Schibbye, giornalista investigativo svedese e tra gli autori del progetto giornalistico “Cards of Qatar”, che si traduce come figurine del Qatar, più che con “carte”. Ad ognuna, proprio come quelle dei calciatori, corrisponde la storia di uno dei tanti lavoratori migranti morti nel Paese, raccolte in due anni di lavoro per connettere quei punti che la Fifa, e il Qatar, avrebbero preferito cancellare. Un catalogo di circa 100 storie di denuncia di chi è stato sfruttato, e delle loro famiglie, ancora in attesa di un risarcimento. “Ho capito che dovevamo raccontare le conseguenze delle morti, da quelle mentali a quelle economiche”, racconta Martin a il Millimetro. Al telefono e non da Doha a causa del rifiuto dell’accredito stampa che Fifa rilascia ai giornalisti per i mondiali. A molti, ma non a lui, senza alcuna spiegazione.
Il sistema Kafala
Per capire da dove si sia insediato negli anni lo sfruttamento, bisogna fare un passo indietro e citare il kafala, un sistema che regola il diritto del lavoro per gli stranieri nel mondo arabo: una volta arrivato in Qatar il lavoratore deve infatti rivolgersi a un garante, o sponsor, il quale da quel momento vanta di alcuni diritti nei suoi confronti, come forma di tutela per la garanzia offerta. Tra questi, la possibilità di controllare gli spostamenti del lavoratore, per assicurarsi che non abbandoni il lavoro senza permesso, regola che può arrivare fino al ritiro del passaporto con la conseguente impossibilità di lasciare il Paese. Nell’agosto 2020, il Qatar aveva adottato due leggi per porre termine a questi limiti, compreso quello di cambiare impiego senza il consenso del datore di lavoro. La loro completa applicazione avrebbe dovuto avere delle conseguenze sul sistema kafala, che invece continua a vincolare i lavoratori ai datori di lavoro. Il processo di riforme era iniziato già nel 2017 attraverso limitazioni all’orario di servizio per il lavoro domestico, la costituzione di tribunali del lavoro per favorire l’accesso alla giustizia, l’istituzione di un fondo per risarcire i salari non pagati, l’introduzione del salario minimo e la ratifica di due importanti trattati internazionali, pur non prevedendo ancora per i lavoratori il diritto di aderire a sindacati. La mancata attuazione delle riforme ha fatto sì che lo sfruttamento continuasse: sebbene il Qatar sulla carta abbia cancellato l’obbligo, per la maggior parte dei lavoratori migranti, di chiedere e ottenere il permesso di uscire dal Paese e di cambiare lavoro attraverso un certificato di nulla-osta da parte dei datori di lavoro, questi ultimi riescono ancora a bloccare i trasferimenti e a tenerli sotto controllo. Ad alzare la voce in questi anni di denunce non solo i giornalisti: nel maggio 2022 Amnesty International e una coalizione di organizzazioni hanno lanciato una campagna per chiedere al Qatar e alla Fifa di avviare un programma complessivo di rimedi per le centinaia di migliaia di lavoratori vittime di tasse di assunzione illegali, salari non pagati, ferimenti e decessi. Senza ricevere alcuna risposta ma affidandola involontariamente al suo presidente Gianni Infantino, il quale ha dichiarato di sentirsi, tra le altre cose, un lavoratore migrante. Ma solo per una conferenza stampa, quella inaugurale dei mondiali in Qatar, a Doha, in diretta tv, in tutto il mondo. Non tutti i giorni, tutto l’anno per anni.