Sono chiamati “giganti bianchi” per la loro maestosità. Ma non è solo estetica la loro funzione, né riguarda da vicino unicamente gli amanti della montagna. I ghiacciai rappresentano una riserva di acqua dolce fondamentale per l’esistenza umana: una loro progressiva fusione rischierebbe di aumentare il quantitativo di acqua in circolazione, creando episodi di siccità, correnti oceaniche insolite, innalzamento del livello dei mari e forti tempeste. Che è proprio quanto sta accadendo. In effetti, la tragedia del 3 luglio, con il distacco della calotta in cima al ghiacciaio della Marmolada, non è che l’ultima manifestazione di un fenomeno planetario.
Cosa succede ai ghiacciai italiani
Esposti a Sud, quindi “baciati” dal sole, e più soggetti a fenomeni di fusione, i ghiacciai italiani sono più sottili e più deboli di quelli europei. Sono perlopiù di piccole dimensioni, dunque più inclini a sgretolarsi, anche per la limitata capacità di accumulare neve in inverno. Inoltre, sono sottoposti al “darkening”, il fenomeno di annerimento della superficie dovuto alla raccolta di detriti, che rende la massa non più bianca ma grigia o tendente al rosso, aumentandone la capacità di assorbimento della radiazione solare, quindi la velocità di fusione. In Italia, i ghiacciai sono 903 e si trovano tutti sulle Alpi, tranne i due abruzzesi del Calderone. La Lombardia ne vanta 230, l’Alto Adige 212 e la Valle d’Aosta 192. Gli altri sono dislocati tra Trentino, Piemonte, Veneto e Friuli-Venezia Giulia. Il tutto per un’estensione di 368 chilometri quadrati: il 30 per cento in meno rispetto al 1959-1962. Paradossalmente, il numero di masse glaciali è salito, passando da 835 nel 1962 a 903 oggi. Un aumento che però non deve rallegrare: secondo il WWF, si tratta di «un altro segnale di pericolo perché dovuto all’intensa frammentazione che ha ridotto sistemi glaciali complessi a singoli ghiacciai più piccoli. Negli ultimi 150 anni alcuni ghiacciai hanno perso oltre due chilometri di lunghezza, ma a ridursi è anche il loro spessore, che in una sola estate può assottigliarsi anche di 6 metri».
I ghiacciai, su tutti quelli alpini, sono uno degli indicatori più evidenti dei cambiamenti climatici in corso. Due sono i parametri che segnalano quanto sta succedendo su queste vette: le sempre maggiori fusioni e l’aumento dei fenomeni d’instabilità. Non a caso, dal 2000 al 2020 le cime sotto i 1500 metri sono state colpite da 508 frane. Stando ai dati del Comitato Glaciologico Italiano (CGI), la deglaciazione interessa perlopiù le Alpi Orientali e, al loro interno, le Giulie, il cui volume si è ridotto del 96 per cento (l’area dell’82). Non se la passano meglio le Alpi Occidentali e quelle Centrali, dove il ghiacciaio dei Forni, il secondo più grande d’Italia dopo quello dell’Adamello, è in parte coperto da detriti e minaccia di cedere. Entrambi rischiano la fusione, così come il ghiacciaio del Miage. Infine, sul Monte Rosa i giganti bianchi dell’Indren, del Bors, del Locce, del Pioda e del Sesia-Vighia stanno lasciando sempre più il posto a massi e rocce.
Le cause
I ghiacciai stanno sparendo perché si è creato uno squilibrio tra l’alimentazione nevosa invernale e le temperature estive. Un ghiacciaio nasce, si evolve e muore in funzione della quantità di neve che accumula durante l’inverno e di quella di ghiaccio e neve che fonde durante l’estate: se quanto riceve in inverno è uguale a quanto perde l’estate, il ghiacciaio è in equilibrio; se prevale l’accumulo invernale, avanza; se prevale la perdita estiva, arretra. Come spiega al Millimetro il glaciologo Claudio Smiraglia, ex docente dell’Università di Milano e membro del Comitato Glaciologico italiano, «tutto è funzione delle modificazioni climatiche che si sono sempre succedute nella storia. L’attuale fase di regresso glaciale è dovuta a un incremento di temperatura e a una riduzione di nevosità (o alla prevalenza di uno dei due) che hanno subito un’accelerazione negli ultimi decenni. Questo cambiamento climatico è causato, per la quasi totalità dei climatologi, dalle modifiche antropiche della chimica dell’atmosfera». Quello della deglaciazione è un evento che ha subito un’impennata soprattutto a partire dal Novecento, ma che inizia già con la rivoluzione industriale. È negli ultimi dieci anni, però, che gli scienziati hanno cominciato a documentare temperature medie annuali da record e modificazioni del sistema Terra: dalla distribuzione del ghiaccio ai livelli e alle temperature degli oceani, fino alla salinità.
Il caso della Marmolada
La Marmolada comprende diversi ghiacciai, tra cui il Ghiacciaio Principale della Marmolada, il più grande dell’area, che riposa su un dislivello inclinato verso Nord che culmina con le vette di Punta Penia e Punta Rocca. Ed è proprio sotto quest’ultima che il 3 luglio scorso è avvenuto il distacco della calotta che ha ucciso 11 persone. Se fino a poco tempo fa la parete del massiccio era quasi interamente rivestita di ghiaccio, gli ultimi anni hanno visto una forte contrazione dei volumi (del 30 per cento tra il 2004 il 2014), dovuta a una frammentazione delle masse glaciali in blocchi più piccoli: oggi il ghiacciaio è 1/10 di quello che era cent’anni fa. Per Claudio Smiraglia, entro il 2030 i ghiacciai della Marmolada saranno scomparsi.
Più ottimistico uno studio condotto nel 2019, che fissa al 2050 la loro fine. In ogni caso, solo pochi anni fa i modelli indicavano un’aspettativa di vita di gran lunga superiore, pari a 100 o 200 anni. Che durante l’estate il ghiaccio tenda a fondersi rientra nella normalità. Meno normale è quando il punto di scioglimento si alza toccando la vetta: esattamente ciò che è avvenuto nei mesi scorsi a causa del caldo. Il 3 luglio, le temperature sulla cima della Marmolada superavano i 10 gradi centigradi, ben oltre la media: in generale, in 35 anni la temperatura media è salita di 1,5 gradi. A peggiorare la situazione, poi, le scarse nevicate dell’ultimo inverno: una quantità consona di neve, infatti, avrebbe “raffreddato” il ghiacciaio ed evitato smottamenti.
Il caso del Planpincieux
A preoccupare in questi giorni è anche il Planpincieux, sulle pendici meridionali delle Grandes Jorasses, lungo il versante italiano del Monte Bianco (Valle d’Aosta). Il ghiacciaio ha dimensioni relativamente modeste, con una lunghezza di 2 chilometri e un’area di 1008 e, come spiega Smiraglia, «la sua fronte è sospesa su un ripido salto roccioso ed è quindi soggetta a frequenti fenomeni di crollo di blocchi di ghiaccio che potrebbero creare un rischio per la strada e gli edifici sottostanti». Oltre alle temperature elevate, il problema sono anche le violente piogge che a volte si abbattono sulla zona, nonché la limitata presenza di neve anche ad alta quota. Nel tempo, il ghiacciaio è stato danneggiato da diverse valanghe ed esplosioni glaciali che hanno minacciato la permanenza della comunità a fondovalle, quella della Val Ferret. Negli ultimi anni, poi, il movimento della parte inferiore ha subito una forte accelerazione, toccando la velocità di 2 metri al giorno in estate: un’instabilità che rischia di far crollare un volume di ghiaccio da 400mila metri cubi, e che ha convinto il comune ad adottare delle misure preventive, come l’evacuazione temporanea.
I ghiacciai nel mondo
La criosfera terrestre (cioè l’insieme dell’acqua allo stato solido che comprende, oltre ai ghiacciai, il permafrost e il ghiaccio marino) sta subendo gli effetti del cambiamento climatico in tutto il mondo, comprese le regioni polari. Le celebri nevi del Kilimangiaro hanno subito dal 2012 una riduzione dell’80 per cento, mentre i ghiacciai del Garhwal Himalaya (India) si stanno ritraendo così rapidamente da convincere gli studiosi che la gran parte di essi morirà entro il 2035. Il ghiaccio marino artico è diventato sottilissimo e si è ridotto del 10% in 30 anni. Per non parlare della calotta glaciale della Groenlandia, la cui estensione diminuisce ormai a vista d’occhio. Ma se in tutto il mondo i ghiacciai arretrano, alcuni invece sembrano stabili, se non in crescita: «Un’eccezione è rappresentata dalle gigantesche fiumane di ghiaccio del Karakorum, nella catena dell’Himalaya – prosegue Smiraglia – dove i ghiacciai fanno registrare improvvisi incrementi di velocità e spesso bilanci stabili o addirittura lievemente positivi. Fenomeno quest’ultimo attribuito sia alla copertura detritica quasi completa sia a situazioni climatiche locali». Si chiama “anomalia del Karakorum”, e mentre i glaciologi si interrogano sulle sue cause, i negazionisti del climate change la strumentalizzano per contraddire l’origine antropica del riscaldamento globale.
Quale futuro per i ghiacciai
Le prospettive non sono rosee. Secondo il WWF, «anche se riduciamo in modo significativo le emissioni nei prossimi decenni, più di 1/3 dei ghiacciai rimanenti si scioglierà prima del 2100. E il 95% del ghiaccio più antico e più spesso dell’Artico è già scomparso». A risentirne inizialmente saranno soprattutto le megalopoli sorte in zone costiere o sul delta dei fiumi, più esposte agli effetti catastrofici dell’innalzamento dei livelli del mare (Shangai, Tokyo, Bangkok, Giacarta e New York) e gli Stati più poveri e densamente popolati, come il Bangladesh. Ma anche per alcuni territori ricchi il futuro appare incerto: è il caso dei Paesi Bassi, con quasi la metà della loro massa continentale già sul livello del mare, o sotto. Se l’ineluttabilità della fusione dei ghiacciai è oggi un fatto, è possibile agire però per ritardarla. Assodato che la causa sono i fattori climatici e che l’attuale crisi climatica è dovuta perlopiù all’uomo, Smiraglia ritiene che «è proprio su queste che si debba intervenire riducendo le emissioni di gas serra, cosa ovviamente non facile a livello globale. Questi interventi, anche se attuati subito, avrebbero però effetti non immediati e avvertibili su scala almeno pluridecennale, in funzione soprattutto dell’entità degli interventi stessi, nonché della dimensione dei ghiacciai. Infine, andrebbe sostenuta la ricerca scientifica a tutti i livelli, soprattutto quella applicata. Si potrebbe aggiornare la mappa del rischio glaciale (tema sul quale ci sono delle aperture anche politiche) e valutare le possibilità e le modalità di monitoraggio».