Cosa sarebbe successo se Gesù, invece del vino, avesse passato una canna ai suoi discepoli
«Se Gesù, invece del vino, avesse passato una canna ai suoi discepoli, dicendo: “Prendete e fumatela tutti, questo è il mio spirito…”, a Capodanno, mia nonna, al posto dello spumante, avrebbe festeggiato con un trombone».
A parlare è Lucio, il personaggio interpretato da Andrea Sartoretti nello spettacolo Io non c’entro, scritto trent’anni fa da Mattia Torre e da me. Eravamo giovani e artisticamente molto acerbi, ma quella battuta aveva un suo perché.
È innegabile che viviamo in una “società etilica”. Che non solo consente, ma incoraggia l’alcol. In Italia, in un modo o nell’altro, si beve sempre: a Capodanno (anche le nonne, appunto), a Natale, a Pasqua, a Pasquetta, a Ferragosto, ma anche ai compleanni, agli addii al celibato e al nubilato, e ovviamente ai matrimoni. E se ti fai un caffè che ti potrebbe tirare su, è ben visto rilanciare con l’ammazzacaffè (perché farsi un caffè se poi lo devi ammazzare?). Piace molto, qui da noi, l’espressione In vino veritas, ma io ho nitidi ricordi di ubriachi passare intere serate a inventarsi un fracco di cazzate.
Negli altri Paesi spesso si beve per dimenticare, noi beviamo soprattutto per ricordare. Si alzano i calici nel ricordo di un morto, di quando eravamo giovani, di una vacanza, di quella volta che… e i motivi possono essere infiniti.
La vita per gli astemi in questo Paese è un inferno. Non solo hanno difficoltà a stringere rapporti di amicizia duraturi ma stentano anche a farsi strada nel mondo del lavoro: si sa che, qui in Italia, la carriera si fa tra un brindisi e l’altro con i vari capi e responsabili. E in quei momenti chi non brinda è tagliato fuori, non ci si può fidare di lui. «O cominci a bere o finisce male» è il sottotesto degli sguardi di riprovazione rivolti all’astemio con il suo succo di pompelmo del cazzo.
All’epoca dello spettacolo citato all’inizio, come molti nostri coetanei, ci facevamo le canne. E certe volte ci capitava il “puzzone”, ossia un fumo tagliato talmente tanto e male che, semplicemente, puzzava. Ora, uno dei piaceri di fumare è il sapore: e quello, quando fumavi il puzzone, era pessimo. Noi ce lo fumavamo perché a Roma in certi periodi girava solo quello. Nell’accostamento tra fumo e alcol, il puzzone potrebbe essere paragonato a certi vini della casa che incredibilmente qualcuno ancora si ostina a bere.
Esiste, tra l’altro, il falso mito delle cose fatte in casa. Come se fosse sempre e comunque un valore aggiunto. «Questo vino lo fa mio zio»: lo assaggi e ti accorgi che fa schifo. «Quest’erba la coltivo io, senti che è…». Fai un tiro e sa di merda. Questo per dire, molto semplicemente, che fare il vino è un mestiere (quasi un’arte). E anche coltivare l’erba di alta qualità è molto complicato. Sono contento che lo Stato mi consenta di assaggiare un buon vino, e che sia legale. Ma vorrei che mi consentisse legalmente di fumare un’erba fatta da chi la sa fare.
L’erba, Gesù e l’ultima cena
Uno potrebbe obiettare che l’erba sia droga. L’alcol no. In realtà, quando parliamo di droga intendiamo una sostanza che altera il nostro stato psicosomatico. Ora, quando beviamo il nostro stato d’animo cambia: siamo più emotivi, sensibili, ci commuoviamo più facilmente, possiamo essere fastidiosamente euforici o, al contrario, nettamente più depressi rispetto a quando siamo sobri. Da ubriachi si perde di vista il concetto di pericolo e, di conseguenza, si può facilmente diventare molto aggressivi. Se un fascista beve tanto, ha tanta voglia di menare le mani. Se il fascista fumasse tanto, passerebbe intere serate a ragionare su Nietzsche, forse anche sulle Vergini delle rocce di D’Annunzio. Sta di fatto che con l’alcol il nostro stato d’animo è alterato. Quindi è incomprensibile che gli alcolici non facciano parte della categoria delle sostanze stupefacenti.
Ognuna delle quali ha un effetto diverso dalle altre, che siano leggere o pesanti.
Quando fumiamo una canna, i fotogrammi della vita sono rallentati e quindi noti cose a cui da lucido non presteresti attenzione. L’effetto collaterale è una certa svagatezza e la tendenza a dimenticare le cose.
Gli eroinomani, a modo loro, si assomigliano un po’ tutti. Hanno la stessa voce roca e modificata, sono persi nel loro mondo e sono totalmente autosufficienti, fino alla morte.
La cocaina ti rende protagonista, anche se sei solo in camera tua. Senti di essere al centro del mondo, sei concentratissimo su cose che non hanno bisogno di tutta quella concentrazione. Al contrario di chi fa uso di eroina, chi pippa ha bisogno degli altri, di parlare, di condividere. Chi pippa da solo fa disastri inenarrabili con il telefono. I danni collaterali sono la perdita totale del senso della realtà, e dei denti.
L’ecstasy è una droga che risveglia sensi che avevi sepolto. La musica ti sembra bellissima, abbracci tutti e senti che, nel mondo, l’unica cosa che conta è l’amore. Il giorno dopo ti rendi conto di aver detto cose bellissime a delle teste di cazzo, e sei costretto a richiamare tutti per mandarli affanculo e rimettere le cose a posto.
Gli acidi ti fanno vedere nemici immaginari e draghi al posto di un ascensore, ed è quasi inevitabile che ti salga un’ansia medievale. Il grosso rischio è di non tornare più da quello stato. Quelli ai quali è successo vengono chiamati “rimastini”.
Tutte le droghe cosiddette “pesanti” possono mettere seriamente a rischio la tua salute e se lo Stato le vieta ci può stare.
Ma la cannabis è noto che sia meno dannosa dell’alcol per il nostro organismo e non ha alcun impatto sociale sugli altri. È difficile trovare una banda criminale che si sfonda di canne. La banda dei giamaicani suona male, poi magari c’è.
Se si facesse un esperimento un sabato sera a Testaccio e si invertissero le proibizioni, se cioè si vietasse l’alcol ma si consentisse di fumare, in giro per Roma ci sarebbe un decimo delle risse. Al più, tantissima gente si aggirerebbe un po’ spersa perché non ricorda dove ha parcheggiato la macchina. Ma pacificamente.