La cura delle malattie mentali, un problema che nonostante i passi avanti continua a persistere
Pazzia, un termine più duro e potente di follia, la cui etimologia sembra avere origini dal greco pathos, sofferenza. O dalla radice latina pact, pattume, perché in altre epoche l’infermità mentale era vista come qualcosa di sudicio, da ghettizzare. E così in effetti è sempre stato. Le malattie che colpiscono la mente hanno sempre spaventato l’uomo. L’infermità mentale per gli antichi era un segno divino, che veniva poi sviscerata da sacerdoti e santoni. Nel Medioevo era vista come un male oscuro mandato dal diavolo stesso. Si ricorreva al rogo, soprattutto se il soggetto da trattare era di sesso femminile. Qualsiasi tipo di diversità è sempre stato definito una forma di follia. Nel corso dei secoli, ogni situazione fuori dall’ordinario era considerata infermità mentale. Non accettare ciò che usciva dagli schemi è stato uno dei più grandi disagi dell’umanità.
È la paura del diverso, di ciò che ci si presenta in modo poco chiaro e imprevedibile. Nulla di più facile in queste occasioni, se non reagire gettando in un angolo oscuro ciò che appunto non si è in grado di capire e quindi controllare o “addomesticare”. Era talmente certo che si sarebbe inevitabilmente caduti in disgrazia, distrutti e fatti sparire, che il marchio del folle veniva usato anche per eliminare persone scomode, personaggi che con le loro parole avrebbero potuto compromettere la vita di altre importanti figure. E bastava quello: essere additati come pazzi ed emarginati per diventare dei fantasmi. Chi veniva rinchiuso, infatti, perdeva ogni diritto civile o politico. Oltre a non poter possedere beni propri, non poteva ereditare e finiva in un casellario giudiziario come “soggetto pericoloso”. I malati venivano “curati” con sistemi poco ortodossi: camicie di forza, letti di contenzione, docce gelide ed elettroshock. Era utilizzata anche la malarioterapia, ovvero veniva inoculata la malaria per provocare uno shock al malato con febbre fino a 42 gradi.
I manicomi nel periodo fascista
Durante il periodo fascista i manicomi venivano utilizzati come forma di repressione politica. Chi si mostrava contrario al regime veniva considerato anti-italiano e quindi folle. Doveva allora essere allontanato dalla società per non contaminarla. La motivazione per l’internamento era la devianza sociale, che comprendeva anche l’alcolismo, il vagabondaggio, l’ozio. Le donne venivano internate in manicomio con le motivazioni più stravaganti, ma che per l’epoca erano chiari segni di devianza sociale: l’essere civettuola, piacente, erotica, smorfiosa, capricciosa o troppo loquace.
La donna doveva essere sottomessa, madre, moglie e angelo del focolare domestico. Se questi paradigmi non erano rispettati, veniva rinchiusa in modo coatto. Alcune addirittura internate perché dopo molte gravidanze decidevano di non volere più figli, oppure perché – prostrate dal lavoro nei campi – non riuscivano a seguire in modo adeguato la casa e la prole. Questo tipo di atteggiamenti era considerato contronatura. Anche in presenza di donne troppo disinibite sessualmente il rischio di finire in manicomio era molto elevato, il sesso era considerato motivo di stigma sociale: ad eccezione delle prostitute, una donna non poteva nemmeno farne menzione.