Secondo un’indagine Adecco Group, un recruiter su due ha cambiato opinione sul candidato dopo aver visto i suoi profili social.
II lavoro del recruiter non è mai stato così strano o divertente, dipende dai punti di vista!
Oltre la metà dei recruiter ha cambiato idea sul candidato dopo aver visionato i suoi profili social. Tra condivisioni ambigue e un’immagine poco curata professionalmente parlando, sono numerosi i rischi che si celano dietro un semplice post nelle storie.
Dall’avvento dei social ci siamo abituati a considerare in nostri profili un luogo dove poter liberamente condividere qualsiasi contenuto senza alcuna conseguenza nella propria vita lavorativa. Adesso le cose non stanno più così.
Come riportato dal sondaggio di Adecco Group, il 51% dei recruiter intervistati hanno cambiato idea sul candidato dopo aver visto i suoi profili social: per Il 37% la causa è stata la presenza di foto ritenute inappropriate. per il 27% ad influenzare sono stati i tratti di personalità visibili dai contenuti pubblicati mentre per il 17% le manifestazioni esplicite discriminatorie di natura sessuale e/o razziale.
Lidia Molinari, People Advisor Director di Adecco Italia, ha dichiarato “Per questo consigliamo a chiunque sia alla ricerca di una opportunità lavorativa, lo sviluppo di un personal branding sui social che tenga conto della selezione dei contenuti prima che essi vengano pubblicati”
Ma è giusto abituarsi all’idea che i social possano condizionare la nostra situazione lavorativa?
L’articolo 8 dello Statuto dei Lavoratori parla proprio del “divieto di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”. Il problema sta proprio nel capire cosa si limiti ad essere ai “fini della valutazione”.
Come siamo arrivati fino a qui?
Per evitare di avere una sottospecie di “social scoring” stile Black Mirror, in cui ogni profilo Instagram e i corrispettivi contenuti sono sotto lente d’ingrandimento, molte aziende hanno deciso di affidarsi all’AI che però a sua volta rischia di non considerare numerose variabili.
Le uniche discriminanti rimaste ai recruiter sembrerebbero dunque i social. La colpa di fatto non è di nessuno o forse proprio di tutti: sia del recruiter “costretto” a utilizzare questi strumenti per avere una visione chiara del profilo del candidato, sia di chi più o meno ingenuamente condivide la propria quotidianità e le proprie opinioni.
(Edoardo Galassi)