Dalla Columbia University a Harvard: studenti e professori occupano i campus per la Palestina, accendendo la primavera americana
Una borsa di tela con dei disegni di frutta e verdura di Trader Joe’s, uno dei supermercati più famosi d’America. I manici sono annodati in una sorta di treccia, ricordano le catene di un’altalena avvolta su se stessa. La borsa è sul pavimento, accanto alla faccia della sua proprietaria, la cui guancia è spalmata sull’asfalto dell’UC Irvine, in California. A tenere la borsa, in modo goffo, quasi a svelare imbarazzo e a tradire delicatezza, un poliziotto.
A tenere la faccia della proprietaria della borsa altri due agenti. Loro sì che sanno cosa fare, invece: polsi dietro la schiena, corpo a pancia in giù, manette, e poi up, in piedi, trascinata. La proprietaria della borsa cammina, un microfono le spunta davanti. E lei grida queste parole: “Non possiamo avere, in democrazia, una politica estera che commette un genocidio. Questi giovani saranno coloro che pagheranno il prezzo di queste scelte terribili […]”.
- “Ha paura di aver compromesso la sua carriera (con questa reazione)?”
- “Quale carriera, se gli studenti non hanno un futuro?” .
Mesi di proteste
Tiffany Willoughby-Herard è un’autrice e professoressa associata di Studi afroamericani alla University of California, Irvine. È sua la reazione che viene ripresa da tantissimi utenti e diventa virale. È suo il disperato grido mentre viene arrestata, e che diventa il grido di ingiustizia di uno Spring Break e di una primavera storica per moltissime università americane. Inizia la Columbia University il 17 aprile 2024, alle quattro di mattina, 56 anni esatti dopo quello storico 22 aprile 1968, quando gli studenti occuparono il prato del campus per protestare contro la guerra in Vietnam e contro il razzismo. Quella fu anche la primavera in cui venne assassinato Martin Luther King. Oggi, la Columbia è la prima università americana a essere occupata, ma questa volta per protestare contro il genocidio del popolo palestinese a opera dello Stato di Israele e degli Stati Uniti d’America. Dopo la Columbia University si sono occupati, tra gli altri: la Cuny (The City University of New York), la New School, NYU, Yale, Suny, Harvard, The George Washington University, Arizona State University, Berkeley, The University of Texas. Studenti americani e provenienti da tutto il mondo hanno occupato i vari campus, chiedendo ai propri rettorati di cessare le collaborazioni con Israele. L’encampment della Columbia, iniziato il 17 aprile, ha coinvolto anche l’occupazione di Hamilton Hall, edificio fulcro dell’università, che è stato rinominato dagli studenti “Hind’s Hall”, in memoria di Hind Rajab, la bimba palestinese uccisa dall’esercito israeliano dopo aver chiamato i soccorsi perché bloccata nella sua auto accanto ai corpi dei genitori, ammazzati poco prima. Una settimana dopo è stato tutto smantellato dalle forze dell’ordine, che hanno arrestato studenti e professori. Venerdì 31 maggio, una nuova occupazione ha preso luogo ed è al momento attiva, con una call to action ancora più forte in cui si invitano tutti gli studenti del mondo a occupare e protestare affinché le università siano solo un luogo di educazione e non delle corporazioni che traggono profitto dallo sterminio di un popolo.
Oppressi e oppressori
Mariel Acosta, 37 anni, studentessa PHD di Sociolinguistica ispanica alla Cuny University, originaria della Repubblica Dominicana e trasferitasi a New York da circa 15 anni, ha partecipato al primo giorno di occupazione della Columbia in solidarietà con i colleghi studenti, e come parte attiva dell’organizzazione dell’occupazione del suo campus alla Cuny, iniziata la notte tra il 24 e il 25 aprile. Segue la “questione medio-orientale” fin da bambina, complice il fatto che la Repubblica Dominicana, così come altri Paesi dei Caraibi, ha accolto molti esuli palestinesi. È cresciuta leggendo libri come Breve Storia Dei Paesi Arabi di Juan Bosch, il primo Presidente democraticamente eletto nel 1963, e studiando i saggi di Amín Abel Hasbún, dominicano di prima generazione, avvocato e attivista politico nel periodo dell’invasione americana della metà degli anni Sessanta, ucciso dal dittatore Joaquín Balaguer, salito al potere dopo Trujillo, quando le truppe americane hanno lasciato il Paese. Amín Abel era uno dei figli dell’immigrato palestinese Mahoma Abel Afise.
Inoltre, facendo delle ricerche in Sociolinguistica ispanica e leggendo proprio Juan Bosch, si è imbattuta nel libro Ramo Di Ulivo – O Gerusalemme Liberata dell’autore palestinese Aguil Nimer, scritto durante il protettorato britannico in Palestina e che narra dell’esilio dei palestinesi, costretti già all’epoca, quindi oltre venti anni prima della Nakba del 1948, a emigrare. A testimonianza del fatto che l’imperialismo occidentale fosse già causa di esilio forzato in quella parte del mondo. Il colonizzato capisce l’oppresso. L’oppressore sta con il colonizzatore. Per questo i latino-americani si sentono vicino alla causa palestinese, perché Israele è spesso andato contro i diritti umani: ad esempio, quando ha addestrato le forze armate de El Salvador durante la guerra civile che ha causato l’eccidio di indigeni, donne e bambini; quando ha aiutato il governo messicano a coprire la morte dei 43 studenti Ayotzinapa con le loro unità di spionaggio; o quando ha armato le forze di Stato del Guatemala, che provocarono la morte di oltre 200.000 persone, la maggioranza delle quali era popolazione indigena Maya.
Dentro il campus universitario occupato
Mariel Acosta ci ha portato all’interno della Cuny University, dove da subito si è potuto notare un clima pacifico, tranquillo, letteralmente accogliente: studenti dei primi anni di corso, laureandi, bambini, staff universitario, professori: persone di religione ebraica, studenti di religione musulmana, atei, cattolici, ortodossi. Si è festeggiato Shabbat tutti insieme, si è parlato e si è ascoltato. Giovani studenti organizzatissimi a coprire ogni fabbisogno, dallo stand con il cibo fresco a quello del cibo pronto, tende per dormire, tende per pronto soccorso medico, tende dove fare attività creative, aree riservate alla preghiera, il “palco” per le conversazioni, la solidarietà. A differenza della Columbia University, il campus della Cuny è aperto e ha accesso libero, quindi ha accolto anche newyorchesi che vivono nei dintorni, sia che fossero solo incuriositi, sia che fossero a passeggio con i propri cani, sia che fossero ideologicamente solidali. “Il rettore e il sindaco di New York Eric Adams hanno mentito parlando di proteste violente agitate da persone esterne al campus. Cosa intendevano poi? Gli studenti non sono degli alieni che vivono su isole separate, ma parte di una totalità, parte di una community, parte di un neighborhood, di un quartiere. Paghiamo tasse, viviamo in città, non siamo solo studenti” – spiega Mariel.
“Nonostante ci siano persone di tutte le età, anche gente che ha partecipato alle proteste degli anni Sessanta, ai vertici dei vari movimenti ci sono sicuramente soprattutto i giovani della generazione Z, che stanno finalmente usando i social per scopi umanitari. A differenza degli altri attacchi israeliani su Gaza, questa volta c’è la variante generazione Z: i giovani giornalisti, civili, fotoreporter di Gaza hanno usato i loro social per mostrare notizie dirette e non filtrate, scavalcando completamente il muro dei media controllati, un po’ come i cantanti che hanno usato YouTube come canale di distribuzione, bypassando le etichette discografiche. I loro coetanei in America e in tutto il mondo hanno fatto lo stesso e questo non lo aveva previsto nessuno, tantomeno i vertici del governo e dell’esercito israeliani che stanno conducendo questo genocidio sulle basi di bugie. Da Gaza, invece, arrivano notizie dirette, tramite video e foto, non tramite post con parole scritte sopra da non si sa chi, o interviste di politici, e articoli dei principali giornali mondiali su testimonianze che si sono poi rivelate di parte e smentite dai veri protagonisti delle storie che raccontavano”.
Le richieste degli studenti
Oltre a spingere per il cessate il fuoco, gli studenti della Cuny hanno scritto una lunga lista di richieste:
- Interrompere tutti i viaggi accademici in Israele, inclusi i programmi Birthright (un programma che offre una vacanza gratuita di dieci giorni in Israele riservato a cittadini di religione ebraica) e Fulbright (scambio studentesco), e tutti quei viaggi finanziati con lo scopo di far conoscere Israele ai cittadini non ebrei; di cancellare qualunque tipo di cooperazione con le istituzioni accademiche israeliane, inclusi eventi, attività, accordi e collaborazioni di ricerca.
- Riconoscere il diritto, sancito dalla legge internazionale, degli individui colonizzati di resistere ai loro colonizzatori, inclusa la resistenza di tipo armato, ove necessario.
- Demilitarizzare i campus universitari.
- Il ritorno della Cuny a essere completamente gratuita come accaduto per oltre 125 anni, senza che sia controllata in alcun modo da donatori privati legati a società sioniste, e un giusto contratto per tutto lo staff (professori e non) dell’università.
- Interrompere immediatamente la collaborazione con compagnie che producono armi e tecnologie usate dallo Stato sionista per commettere le proprie atrocità.
Dopo una settimana, l’occupazione del campus della Cuny è stata smantellata dalle forze dell’ordine in tenuta antisommossa, chiamate dai vertici dell’università: “Quel mercoledì successivo sarebbero iniziate nuovamente le lezioni e hanno usato questo motivo per spingere verso la fine dell’occupazione, accusandoci anche di non aver protestato in maniera pacifica. La verità è che l’unico momento violento è stato proprio quando i poliziotti ci hanno attaccato, arrestando decine di studenti che ora sono costretti a pagare esose spese legali per difendersi. Dal primo maggio, il campus è cambiato e si è militarizzato. Ci sono poliziotti che controllano gli ingressi, bisogna presentare un documento di identità per accedervi, e sono stati spesi milioni di dollari per assumere altro personale di sicurezza, soldi che sarebbero potuti servire per cancellare il debito studentesco, risolvere il problema degli homeless, e tantissimi altri problemi di cui soffre questo Paese” – racconta Mariel.
L’occupazione studentesca delle università americane è stata solo il culmine di una escalation di azioni di protesta contro la politica di Netanyahu e Biden, iniziate già da fine ottobre 2023. La richiesta principale è di porre fine ai rapporti economici con lo Stato di Israele, e soprattutto di non utilizzare milioni di dollari dei contribuenti per fornire armi all’IDF, usate per uccidere in ogni forma possibile uomini, donne e bambini di Gaza e Cisgiordania. Il grido di protesta degli studenti d’America non è stato ignorato dai loro colleghi nel mondo: dall’occupazione delle università italiane a quelle messicane; dagli studenti accompagnati dalle bandiere palestinesi durante le cerimonie di laurea all’occupazione di Oxford a quello nel pieno di una serie di proteste rinforzatesi dopo l’orrore dell’ultimo massacro di Rafah avvenuto il 26 maggio. In alcuni casi le proteste hanno visto la vittoria da parte degli studenti, che hanno ottenuto alcune delle loro richieste, come accaduto in Spagna, alla Berkeley in California, alla Brown University di Rhode Island, a Harvard.
Il futuro di Gaza è il futuro del mondo
Il peso degli studenti è molto più leggero di quello di Aipac, IAC e tutte le altre associazioni israeliane che con il loro potere economico sostengono letteralmente la politica statunitense. Ma serve comunque a spingere l’ago della bilancia verso il basso, per questo serve la comunità, servono le persone e le loro voci, servono gli artisti e le loro piattaforme, perché più ce ne sono, più il grido si fa pesante. E più si fa pesante, più leggero si fa l’altro lato della bilancia.
In gioco, d’altronde, c’è il futuro del mondo, che è formato dai giovani. E il destino dei giovani è interconnesso, unito da un filo invisibile che li tiene uniti in tutte le parti del mondo. Se non c’è futuro per i giovani di Gaza, non c’è nemmeno per quelli di Israele, non per gli studenti della professoressa Tiffany Willoughby-Herard, non per il resto dei giovani di tutto il mondo.