Pietragalla, dove il vino si conserva nelle rutt

A Pietragalla, un borgo in provincia di Potenza, rimangono gli ultimi esemplari di un’architettura rurale unica al mondo: i palmenti. Al loro interno viene prodotto il vino da tempo immemore: ce lo testimoniano i  racconti popolari e le fonti storiche. Pietragalla, il cui nome è legato allo stemma medievale raffigurante un gallo su tre monti, è un paese lucano abitato, nel centro storico, da 119 persone. Situato a 840 metri sul livello del mare, si sviluppa tra vicoli e vicoletti, in dialetto locale chjazz e chjazzòdd. La storia di questa comunità è legata tanto ai nobili del posto, gli Acquaviva, che tutt’oggi ancora risiedono nel palazzo Ducale del borgo; quanto ai santi. In quasi tutte le famiglie, c’è almeno una persona, giovane o anziana, che porta il nome del santo Rocco, per il quale la devozione è sicuramente profonda. Il caso vuole che sia così anche per le due guide, Rocco e Rocchina, che ci hanno accompagnato alla scoperta di Pietragalla, il borgo dei palmenti.

I palmenti

Queste strutture sotterranee sono state scavate in grotte di tufo, all’inizio del XIX secolo, che caratterizzano, morfologicamente, la parte bassa del paese. “L’etimologia del termine palmento deriverebbe dal latino pavimentum, ovvero il piano dove si pigiavano le uve” ci racconta Rocchina D’Amico, membro della Pro Loco di Pietragalla e fondatrice, insieme ad altre donne del posto, della cooperativa “Pietragalla experience”. Entrando nel palmento, notiamo la presenza di  due o tre vasche, differenziate a seconda delle necessità produttive. Troviamo strutture singole ma anche palmenti bi o trifamiliari. Accadeva spesso che le famiglie numerose acquistassero un solo palmento, al cui interno c’erano più vasche, così da potersi alternare nella produzione del vino. L’uva raccolta dai vigneti circostanti, trasportata a monte tramite asini e bigonce, veniva versata nella vasca di dimensioni inferiori e pigiata a piedi nudi. Il mosto, attraverso un foro, usciva nella vasca sottostante in cui si adagiavano anche i raspi.

Pietragalla, dove il vino si conserva nelle rutt
Lo storico Rocco Manzella mentre spiega i palmenti (foto di Valerio Bellavia)

Sopra l’ingresso di ogni palmento, una feritoia consentiva la fuoriuscita dell’anidride carbonica, generata all’atto della pigiatura. Dopo venti giorni di fermentazione, il vino spillato veniva depositato in botti di legno e conservato nelle caratteristiche grotte locali, le rutt. Situate a nord del centro storico per mantenere bassa e costante la temperatura del vino. Oggi i palmenti testimoniano la fortuna vinicola di Pietragalla, una terra fertile baciata dal sole, dal vento e dalla forza lavoro contadina. É persino attestata la presenza, dal 1800, di un mediatore, il vastas, che accompagnava possibili acquirenti, dalle regioni limitrofe ai palmenti, per assaggiare il vino. Qui, ogni ottobre era una festa: la vendemmia iniziava nella prima metà del mese, i palmenti erano illuminati da fiaccole fino a notte inoltrata e, tra canti, balli e pietanze, finiva il venticinque con la celebrazione di San Teodosio, in segno di buon auspicio. 

Il vino di Antonio Nolè: l’unico palmento ancora attivo

In origine i palmenti costellavano l’intera collina; oggi dei duecento interamente conservati, sessanta sono gestiti dal comune e aperti ai turisti, ma soltanto uno è ancora in funzione. É il palmento di Antonio Nolè, trentatreenne di Pietragalla, laureato in scienze agrarie, in cui ogni anno produce circa venti quintali di vino: “L’ho ereditato da mio nonno Domenico Antonio, da cui ho imparato tutti i segreti di questo mestiere antichissimo”. Le ultime vendemmie nei palmenti risalgono al 1985/1986, Antonio è l’unico della famiglia e di Pietragalla a produrre ancora vino nei palmenti e lo fa con alcune innovazioni: ha sostituito la pigiatura con i piedi con quella meccanica e adattato l’intero del suo palmento a una migliore funzionalità. Entrando si assapora l’incontro generazionale; su una parete, all’interno della nicchia che un tempo serviva come appoggio per il lume, Antonio espone le sue bottiglie di vino: “Nolè” è il bianco che porta il cognome di famiglia e Terre di Acquaviva”, il rosso che produce con una cooperativa di cinque giovani vinificatori locali. Un vino misto dalle uve di Aglianico, Malvasia, Sangiovese e Moscato; dodici gradi alcolici, fruttato e corposo, perfetto da accompagnare alla carne. “Come diceva un anziano di qui: faccio il vino per saziare la gola” ci ha raccontato Antonio.

Le rutt

Attorno al vino ruota la vita contadina di Pietragalla, al punto da dettarne anche la conformazione urbana, sviluppata su tre anelli concentrici. “Le abitazioni, le strade, il modo di vivere, le relazioni familiari, i comportamenti: tutto parla in modo contadino” scrive Rocco Manzella, storico di Pietragalla, nel suo libro Pietragalla ieri e oggi (Teodosio Pisani Edizioni, 2019) ricordando una passeggiata tra chjazz e chjazzòdd, nella metà del ‘900. Oggi il borgo conserva ancora quell’atmosfera grazie alla memoria storica e ai racconti degli abitanti. C’è una strada, comunemente detta la via del vino, che procede da sud-ovest a nord-est. Dai palmenti al centro storico costellato da rutt, strutture ipogee, dove i contadini hanno conservato il vino fino agli anni sessanta del secolo scorso. La più nota è la rutt della famiglia Z’cchin, in via Mancosa, lungo la quale, nel catasto del 1814, sono registrate in totale centotrenta di queste strutture. La porta d’ingresso è formata da due lastre di legno, legate l’una all’altra con del fil di ferro: dentro è come se il tempo non fosse mai passato. Le ragnatele imbiancano quà e là la grotta, lunga venti, trenta metri, segnando, a vista d’occhio, fin dove si può arrivare.

Pietragalla, dove il vino si conserva nelle rutt
Dettaglio del palmento di Antonio Nolè (foto di Valerio Bellavia)

Bisogna scendere una decina di gradoni di pietra: solo i primi vengono illuminati dalla luce esterna, poi occorre accendere una torcia. Alla fine delle scale il suolo è umido e dissestato; qui, sia in estate che in inverno, la temperatura resta costante sui sedici gradi. Camminando troviamo una fila di botte di legno a destra e una a sinistra. Ogni rutt aveva più proprietari che si assicuravano il “posto botte”, detto jazz, dal latino iacēre (giacere). Anche le donne lavoravano in questa “catena di montaggio”; oltre al prezioso ruolo di raccoglitrici delle uve, la corporatura minuta delle più piccole, le rendeva perfette per pulire l’interno delle botti. “Ogni ottobre, prima dell’inizio della vendemmia, le donne più esili del paese si infilavano, nude, nelle botti per pulirle dalla posa del vecchio vino, grattando le superfici interne con cenere e pungitopo. Entravano da una fessura molto stretta e rimanevano lì per ore” ci ha raccontato Rocco Manzella. Interessante scoprire come attorno al vino nacquero lavori di ogni tipo, tra cui questo.

La memoria di Pietragalla: la casa museo della civiltà contadina

Le rutt venivano scavate in inverno, quando le attività agricole erano ferme. Un lavoro lungo decine di anni, a cui partecipava tutta Pietragalla che, fino alla metà del ‘900 contava 6mila abitanti, mentre oggi, tra centro e frazioni, meno di 4mila. Una di queste grotte è adibita a ristorante: La Saittera. Deve il suo nome alla presenza, nel borgo, delle saittére: fessure poste sulla facciata esterna delle abitazioni, lunghe quanto la canna di un fucile, che, come moderne videocamere, consentivano dall’interno di scrutare i passanti. Gran parte degli attrezzi da lavoro utilizzati dai contadini per fare il vino, sono conservati nella casa museo della civiltà contadina di Pietragalla. Più di quattrocento oggetti catalogati dallo storico Manzella nel 2008 ed esposti ai visitatori, grazie all’aiuto della Pro Loco, affinché la memoria si conservi ancora. “Ieri e oggi”, come Rocco ha raccontato nel suo libro.

Da non perdere:

La Saittera: ristorante rustico dove assaporare la vera cucina lucana.

Ccòrj a la ptraaddés: piatto tipico con cicorie dell’orto, carne di manzo, ragù di braciole, aglio, sedano, pomodoro, sale e prezzemolo.

La casa dell’artista: una sistemazione originale dove dormire, vicino i palmenti.

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La rutt ‘Z’cchin (foto di Valerio Bellavia)

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