Da quando Dina Boluarte è diventata presidente del Perù e l’ex presidente Castillo è in carcere perché accusato di aver tentato un colpo di Stato, le proteste nel Paese non si sono arrestate. Da più di due mesi i manifestanti chiedono le dimissioni del neo-presidente e dei membri del Congresso, lo scioglimento del Parlamento, le elezioni generali anticipate e una nuova Costituzione. Proteste di massa, iniziate lo scorso dicembre, che hanno provocato 60 morti: 48 civili vittime degli scontri con le forze di sicurezza, mentre 11 sono rimasti uccisi in incidenti stradali legati ai blocchi stradali. Dall’inizio della crisi, secondo dati del ministero della Salute, sono stati feriti oltre 1200 manifestanti e 580 agenti delle forze di polizia. Manifestazioni, blocchi stradali, cortei e scontri fra dimostranti e polizia in nove regioni (Cajamarca, Loreto, Arequipa, Puno, Lambayeque, Cusco, Iquitos, Madre de Dios e Lima), dove è stato dichiarato lo stato di emergenza per 60 giorni. Epicentro delle proteste il dipartimento di Puno, in cui è stato imposto il coprifuoco dalle 20 alle 4. Scontri che si sono intensificati con l’arrivo di notizie relative alla morte e al ferimento di alcuni giovani. Una situazione di violenza senza precedenti nel Paese, particolarmente intensa nel mese di gennaio, più calma e pacifica nelle ultime settimane. “Abbiamo chiesto una tregua al Congresso e ora chiedo una tregua alla mia amata patria, per poter avviare i tavoli di dialogo e per fissare un’agenda per ogni regione”, ha detto la presidente Boluarte, “Non mi stancherò di fare appello al dialogo, alla pace e all’unità”. L’obiettivo della tregua, ha dichiarato, è soprattutto quello di aiutare le popolazioni colpite dai blocchi stradali. Nel frattempo, mentre le proteste andavano avanti mandando in tilt la viabilità in gran parte della Nazione, il Parlamento ha bloccato più volte il tentativo di anticipare le elezioni generali al 2023 alimentando ancor di più il malcontento popolare. Secondo i sondaggi dell’Istituto di Studi Peruviani (IEP) e del CPI, infatti, oltre il 70% dei cittadini ritiene che le elezioni generali, per uscire dalla grave crisi politica in cui versa il Paese, dovrebbero essere anticipate al 2023. Proteste senza un leader che non solo hanno creato grossi problemi all’ordine pubblico, ma hanno anche minato il settore turistico, fondamentale per il Pil peruviano. A metà gennaio sono stati chiusi l’aeroporto internazionale di Cuzco e il sito di Machu Pichu, per il timore che i manifestanti potessero creare problemi nell’attrazione visitata ogni anno da milioni di turisti. Circa 400 turisti sono stati bloccati al suo interno prima che le autorità ne decidessero la chiusura. Solo il 15 febbraio è stato riaperto al pubblico. Una situazione che ha posto il Paese sotto i riflettori di tutto il mondo, con l’Unione europea che ha condannato le violenze in Perù e l’uso “sproporzionato” della forza da parte della polizia contro i manifestanti, invitando le autorità “a trovare rapidamente una soluzione pacifica alla crisi”. Proprio qualche giorno fa, il 18 febbraio, la plenaria del congresso del Perù ha approvato una proposta di impeachmet contro l’ex presidente Castillo, accusandolo di organizzazione criminale, traffico d’influenza e collusione. Mozione passata con 59 voti favorevoli, 23 contrari e tre astenuti. Governo che, tra le altre cose, per difendere la propria posizione ha finito per incrinare i rapporti con altre nazioni, come la Colombia. Il Congresso del Perù ha dichiarato “persona non grata” il presidente colombiano, Gustavo Petro, per aver paragonato la polizia peruviana alle truppe naziste.
Perù in crisi – Diritti umani violati, l’uso indiscriminato e ingiustificato delle armi
L’esercito e le forze di polizia hanno represso con violenza le dimostrazioni, addirittura “usando illegalmente e in modo indiscriminato armi letali e altre armi potenzialmente letali nei confronti della popolazione, soprattutto contro i nativi e i contadini”, denuncia Amnesty International. Le proteste hanno interessato, come detto, diverse aree del Paese, in particolare alcune regioni storicamente marginalizzate e discriminate, perché abitate da popolazioni native. Proprio in queste zone e nella capitale Lima, l’organizzazione per i diritti umani ha condotto una ricerca dalla quale è emerso che “in un periodo tragico di violenza di stato, con 48 morti durante la repressione delle proteste, 11 morti durante i blocchi stradali, un agente di polizia ucciso e centinaia di feriti, le autorità peruviane hanno permesso l’uso eccessivo e letale della forza come unica risposta a oltre due mesi di proteste da parte di migliaia di comunità che pretendono dignità e reclamano un sistema politico che garantisca i loro diritti umani”. A dichiararlo è Erika Guevara-Rosas, direttrice per le Americhe di Amnesty International. Dallo studio emerge che l’80% delle vittime è stato registrato proprio in quelle aree. Segnale, questo, di un probabile pregiudizio razziale denunciato da anni, che avrebbe generato una risposta più dura da parte delle forze di Polizia. Solo a Juliaca, area nella regione di Puno abitata da un’elevata percentuale di nativi e rimasta sotto il controllo militare per settimane, il 9 gennaio sono morte 17 persone. Vittime che anche l’ufficio della Procura generale ha associato all’uso dei proiettili da parte delle autorità. Un uso – sottolinea Amnesty – “indiscriminato e ingiustificato”. Dalle indagini e dalle prove eclatanti di testimonianze video emerge, appunto, che in diversi casi le vittime sono state colpite da proiettili e da altri tipi di armi, seppur non stessero in alcun modo minacciando la sicurezza pubblica. Le autorità peruviane nel corso delle settimane hanno parlato dei dimostranti come di “criminali legati al terrorismo”, con l’intento di delegittimare le loro rivendicazioni e legittimare, invece, la repressione violenta da parte delle forze di polizia. Amnesty international il 15 febbraio ha incontrato il Presidente Boluarte per presentare i risultati della ricerca svolta e raccomandare al Governo e alla comunità internazionale una serie di azioni urgenti da attuare in direzione antirazzista. “La grave crisi dei diritti umani in corso in Perú è alimentata da stigmatizzazione, criminalizzazione e razzismo contro i popoli nativi e le comunità contadine che oggi scendono in strada esercitando i loro diritti alla libertà di espressione e di manifestazione e, per tutta risposta, ricevono solo violenza. I massicci attacchi contro la popolazione chiamano in causa le responsabilità penali individuali delle autorità, anche ai più alti livelli, riguardo alle loro azioni e alle loro omissioni”, ha sottolineato Guevara-Rosas.
Perù in crisi – L’impatto sull’economia
Le dimostrazioni hanno avuto un impatto pesante non solo sul turismo ma anche sull’agricoltura, settore fondamentale per la tenuta economica del Paese, che sopravvive anche grazie alle esportazioni dei suoi prodotti agroalimentari. Durante il periodo di maggiore caos molte aziende agricole e impianti di produzione hanno chiuso per una settimana perché minacciate da alcuni dimostranti che, in diversi territori, hanno invaso le proprietà agricole. A gennaio il valore delle esportazioni di frutta come uva da tavola, mirtilli e mango ma anche caffè ha subito un calo del 47%, per un totale di oltre 190 milioni di dollari. Una conseguenza non solo della chiusura delle imprese, ma anche dei blocchi stradali che hanno rallentato, e in alcuni casi bloccato del tutto, il trasporto e il commercio. Sempre per il caos sulle strade è stata chiusa temporaneamente la miniera di Las Bambas, operata dalla compagnia cinese Mmg e responsabile di circa il 2% della produzione mondiale del rame. La compagnia ha fatto sapere di aver “paralizzato” le attività. Uno stop, riferisce il segretario del sindacato dei lavoratori della miniera, Erick Ramos, che danneggia oltre 8.500 dipendenti e circa 75 mila famiglie. Conseguenze dirette sui prezzi dei beni, che iniziano a scarseggiare, e dunque sul prodotto interno lordo del Paese. Secondo l’Istituto nazionale di statistica e informatica (Inei) l’inflazione si è attestata all’8,87 per cento a gennaio, uno dei livelli più alti in oltre 20 anni. Il Paese, dunque, sta risentendo profondamente di una crisi politica che è diventata – drammaticamente – sociale ed economica. Il Parlamento, tuttavia, non riesce a trovare un accordo per anticipare le elezioni programmate per il 2026. Al momento sembra questa l’unica misura che potrebbe veramente placare le masse popolari peruviane.