Anche Oppenheimer, come buona parte dei film di Christopher Nolan, si presenta con un intreccio tortuoso in cui l’ordine cronologico viene abbandonato a favore di una scomposizione-ricomposizione non lineare degli eventi. In questo caso ci sono due direttrici narrative principali dalle quali se ne diramano numerose altre. La prima, a colori, è intitolata “fissione” e mostra l’interrogatorio che il fisico, interpretato da un perfetto Cillian Murphy, subisce nel 1954 da parte di una commissione d’inchiesta incaricata di verificare l’accusa – rivoltagli da alcuni colleghi – di essere una spia sovietica. Questa prima linea di plot ripercorre poi, attraverso lunghi flashback, la formazione e i primi passi di Oppenheimer, fino ai fatti che lo hanno portato alla guida del progetto Manhattan e alla ideazione della bomba atomica, prima collaudata a Los Alamos e poi sperimentata sulle città di Hiroshima e Nagasaki. La seconda linea narrativa, in bianco e nero e intitolata “fusione”, racconta l’interrogatorio dell’ammiraglio Lewis Strauss (Robert Downey Jr. nella prova migliore della sua carriera) che, in procinto di assumere un importante incarico governativo, viene esaminato dal Senato poiché sospettato di essere stato il manovratore occulto delle accuse a Oppenheimer. Da questo interrogatorio si diramano altri salti all’indietro che ricostruiscono il periodo della Guerra fredda e lo scontro tra Strauss e lo stesso Oppenheimer. I passaggi tra le varie dimensioni temporali avvengono con estrema libertà e senza soluzione di continuità, con un ritmo indiavolato, supportato dall’eccezionale lavoro di montaggio di Jennifer Lame. Il primo risultato che il nuovo film di Christopher Nolan riesce a conseguire è la rivitalizzazione del genere biopic, ormai liso e consumato e forse inadatto, nella sua forma tradizionale, a reggere il peso che ha assunto la complessità della storia. La biografia cubista dal ritmo concitato del regista inglese regala al genere una profondità nuova, in grado di collocare il profilo storico del padre della bomba atomica nel concitato paradigma dei nostri tempi.
Oppenheimer, l’ambigua morale della storia – The Gadget e il Trinity Test
La grandezza di un film come Oppenheimer si rende evidente in una delle scene più attese del film, quella del Trinity Test, quando il 16 luglio 1945 nel deserto di Los Alamos viene fatto esplodere il primo ordigno nucleare della storia davanti agli sguardi degli scienziati del Manhattan Project, prova generale del genocidio del popolo giapponese. Ci si arriva con il cuore in gola, per via di un crescendo da thriller hitchcockiano: i preparativi sono frenetici, solo poche ore dopo inizierà la Conferenza di Potsdam e il Presidente Truman vuole fare il bullo al tavolo delle trattative davanti a Stalin, annunciandogli di essere in possesso di una nuova arma di distruzione di massa che “sperimenterà” sul popolo giapponese. Le condizioni meteo in Texas sono avverse e fanno temere un rinvio del test, c’è l’incognita di una probabilità vicina allo zero di distruggere il mondo, c’è il countdown e c’è soprattutto la musica perfetta di Ludwig Göransson che scandisce l’avvicinamento al momento cruciale. Curioso che, quasi allineandosi a noi spettatori, la popolazione della base di Los Alamos si prepari ad assistervi come se fosse al cinema, qualcuno seduto su comode poltroncine, altri sdraiati sui materassini, altri ancora addirittura in auto, come in un drive-in. Il nostro sguardo è “protetto” dallo schermo cinematografico, il loro viene riparato da un vetro o da un occhiale apposito, perché per sopportare i raggi ultravioletti dell’esplosione è necessario che un diaframma si frapponga tra l’occhio e il mondo. Quando il pulsante rosso viene premuto, cala un silenzio terribile, interrotto solo dagli aliti dei respiri dei personaggi, che si confondono con i nostri, e si sprigiona una luce accecante, un bagliore che segna l’inizio di una nuova epoca: quella in cui al genere umano, in nome della “ragion di stato”, è concessa la possibilità di autoannientarsi.
Oppenheimer, l’ambigua morale della storia – Volti giganti e paesaggi interiori
La prima cosa che colpisce di questa scena meravigliosa è che essa ci ricorda che il cinema è in grado di cogliere ciò che sfugge a una prima occhiata e soprattutto di restituirci quel reale che sa di morte che lo sguardo non può reggere e sopportare. Un altro dettaglio non trascurabile è il fatto che il fotogramma in questi secondi sia riempito principalmente da volti e sguardi, come buona parte del film. Un paradosso: in un’opera girata con il super spettacolare formato 70 mm, invece dei paesaggi prevalgono visi giganteschi che riempiono lo schermo, che parlano molto e ascoltano e su cui si scrive e rimbalza il dramma della storia. Soggetti persi dentro alla complessità delle proprie scelte, la cui posta in gioco è troppo alta e le cui espressioni vengono fotografate e scolpite dalla luce del direttore della fotografia Hoyte van Hoytema nel formato gigante dell’IMAX, quasi per catturarne i tumulti interiori. Protagonista assoluto, in campo per almeno due terzi abbondanti della durata del film, è il volto del protagonista Robert Oppenheimer, il cui più grande contributo alla civiltà è stata un’arma in grado di distruggerla. Su di lui Nolan, a proposito di morte, cuce un’esemplare trattazione sul tema dell’ambiguità etica e sull’impossibilità di leggere la storia sulla base di coordinate morali precise. Il protagonista, scritto da Nolan e incarnato dal corpo dolente di Cillian Murphy, è incapace di prendere posizione, divorato dalle contraddizioni e paralizzato dai dubbi, una rappresentazione eccellente della complessità interiore dei soggetti che si muovono nella storia, che giunge oggi, in un’epoca fatta di tifoserie contrapposte e di semplificazioni. Oppenheimer è però anche un uomo attraversato da un senso di colpa insondabile, avvitato su un dilemma irrisolto che confligge con la sua sconfinata ambizione.
Una didascalia nei titoli di testa ricorda che “Prometeo rubò il fuoco agli dèi per darlo agli uomini e per questo fu fustigato”, mentre Oppenheimer, leader imperfetto della squadra di scienziati di Los Alamos il cui contributo apocalittico alla scienza gli è valso il soprannome di “American Prometheus”, ruba alla natura la sua potenza primordiale e la regala all’uomo, dandogli il potere, mai avuto prima, di autodistruggersi. E così Nolan dà volto e corpo anche a ciò che non si vede, alla liquidità della morale, alla sua intangibilità, con un film di paradossi e conflitti, come la pace mantenuta grazie al fantasma della distruzione, come l’ambizione assecondata a costo dello sterminio (senza giustificazione, perché, come il film afferma in modo netto, i giapponesi si sarebbero arresi comunque) di popoli. Lo fa anche grazie a un cast ricco fino alla ridondanza (oltre a Murphy, Matt Damon, Florence Pugh, Emily Blunt, Gary Oldman, Robert Downey Jr., Rami Malek, Casey Affleck, Josh Hartnett, Kenneth Branagh, Matthew Modine e l’elenco potrebbe andare oltre), in cui tutti sono sorprendentemente in parte. Lo sterminio, invece, è tenuto accuratamente fuori campo, Hiroshima e Nagasaki vengono raccontate attraverso numeri, dati e statistiche, ma mai mostrate, suggerite dagli incubi e dalle visioni del protagonista ma mai descritte, a volte imposte attraverso espedienti sonori (questa scelta ricorda un po’ The Zone of Interest di Jonathan Glazer, tratto da Amis, in cui la morte dei campi di sterminio incombe “al di là” del fotogramma).
Oppenheimer, l’ambigua morale della storia – Decodificare la natura
Oppenheimer è tanti film in uno. È un biopic anomalo, è un legal thriller avvincente, è un grande dramma storico, ma a tratti ha anche un sapore malickiano. Riesce a farci percepire la forza invisibile e misteriosa della natura, quella da cui è ossessionato il “padre della bomba”: atomi e particelle, come segni da decodificare e interpretare (come il Sanscrito, da cui lo scienziato riprende la frase che pronuncia al momento della detonazione: «Sono diventato Morte, il distruttore di mondi»). Immagini astratte, pulviscoli, il fuoco, la pioggia che fa cerchi in una pozzanghera. Anche in questo caso si tratta di mostrare l’invisibile e rendere evidente ciò che è latente e sembra quasi una dichiarazione d’intenti quando il protagonista, nelle prime battute, sottolinea come siano nate nello stesso tempo storico la fisica quantistica, la psicoanalisi e l’arte astratta, discipline che hanno in comune la capacità di andare oltre il visibile e di svelare un livello di significato profondo e nascosto. Un disvelamento, in questo caso, che è però per lo più mortifero, giacché un senso di morte incombe su tutto il film, di gran lunga il più cupo e pessimista di Nolan. Un’opera straordinaria, uno dei film più importanti degli ultimi decenni, con cui saremo inevitabilmente chiamati a confrontarci per molto, molto tempo.