In Palestina i massacri non hanno fine. Negli ultimi giorni l’esercito israeliano, come sempre celando le proprie barbarie dietro la ricerca di terroristi, ha assassinato quattordici persone. Dieci nel solo campo di Jenin, lo stesso campo dove, l’11 maggio scorso, venne giustiziata da cecchini israeliani Shireen Abu Akleh, giornalista palestinese e volto notissimo di Al Jazeera. Se Shireen Abu Akleh fosse stata assassinata da un cecchino russo la sua storia sarebbe di dominio pubblico. Ma è stata uccisa da soldati israeliani, dunque solo una parte della pubblica opinione conosce la sua storia e la stragrande maggioranza dei giornalisti italiani non si è neppure presa la briga di imparare a pronunciarne il nome. Ieri, a seguito della mattanza a Jenin, da Gaza, una prigione a cielo aperto la cui stessa esistenza, ovviamente, genera rabbia tra chi è imprigionato al suo interno, sono partiti i soliti razzi rudimentali verso Israele. Così il governo israeliano ha ottenuto la solita ipocrita scusa per i soliti indegni raid sulla Striscia. Film visti e rivisti i cui sceneggiatori sono i soliti politici di estrema destra israeliani che ogni mattina si svegliano pensando a come provocare il popolo palestinese. Non è forse un’ignobile provocazione, oltre che una palese violazione dei diritti umani, come denuncia Amnesty International, la direttiva emessa lo scorso 8 gennaio da Itama Ben-Gvir, neo-ministro per la Sicurezza nazionale di Israele nonché leader del partito ultra-nazionalista Otzma Yehudit? La direttiva che condanna la bandiera palestinese arrivando a considerarla quasi un simbolo del terrorismo consente alle forze di polizia di intervenire per rimuoverla quando questa viene mostrata. Le limitazioni alle libertà di espressione o al sacrosanto diritto ad una nazionalità non sono provocazioni? E non è una provocazione l’apartheid che viene praticato in Palestina dal governo israeliano? C’è qualcuno in occidente che riesce a rendersene conto che abbia il coraggio di parlarne?
Nei campi profughi palestinesi – A proposito di nazionalità
Nel 2023, dopo innumerevoli prese di posizione politiche, dopo decine di risoluzioni ONU, molte delle quali rese carta straccia dal diritto di veto esercitato dagli Stati Uniti, dopo gli accordi di Oslo del 1993 ed il Nobel per la Pace del ’94 assegnato a Shimon Peres, Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, non esiste ancora uno Stato di Palestina. In Italia nessun politico osa avanzare la questione. La Cisgiordania è un territorio sotto occupazione militare dove si paga in moneta israeliana, dove l’esercito israeliano fa il bello ed il cattivo tempo, dove le colonie illegali crescono ogni giorno e dove non possono essere garantiti minimi diritti sociali ed economici essendo, oltretutto, impediti quelli civili e politici. Tra questi anche il diritto al ritorno per i milioni di palestinesi (più i loro discendenti) costretti a fuggire dalla Palestina dal 1948 in poi. Di questi una parte consistente vive in Libano, in quei campi profughi divenuti un inferno, ancor di più oggi, con il Paese che vive enormi difficoltà. Halima ha settantasei anni anni ed è rifugiata da settantacinque. Quando, nel 1948, la sua famiglia fu costretta dalle milizie israeliane a lasciare la Palestina, Halima aveva appena compiuto un anno. Centinaia di migliaia di palestinesi furono costretti a lasciare le loro case e la loro terra. Da oltre settantanni chiedono, inascoltati, il diritto al ritorno. Halima vive a Jalil, un campo profughi palestinese che si trova nella cittadine di Baalbek, nella Valle della Beqa’, una fertile vallata utilizzata dagli antichi romani per coltivare il grano necessario al sostentamento della provincia di Siria. Dal campo di Jalil, in linea d’aria, il sito archeologico di Baalbek, un santuario costruito durante la dominazione romana, dista poche centinaia di metri. Nel 1984 l’Unesco ha iscritto le rovine di Baalbek tra i siti Patrimonio dell’Umanità. Qui le rovine archeologiche hanno più diritti degli esseri umani. Alessandro Magno attraversò Baalbek durante il suo viaggio verso Damasco. Per i palestinesi oggi, nel 2023, è praticamente impossibile lasciare il campo. Halima l’ha fatto un paio di volte in settantacinque anni. E’ andata a Beirut a visitare alcuni parenti ospiti di un altro campo. Questa è la vita che fanno centinaia di migliaia di persone in Libano. Fantasmi per quella comunità internazionale che si riempie la bocca della parola diritti, ma che si volta dall’altra parte se ci sono di mezzo in palestinesi. Il campo di Jalil è simile ai campi palestinesi sulla costa.
Abitazioni fatiscenti, sistemi fognari precari, fili elettrici scoperti che ogni anno ammazzano qualcuno, povertà. Povertà ovunque. A Jalil in più d’inverno fa freddo. Siamo a 1100 metri d’altezza e le case non hanno riscaldamenti. Le persone si riscaldano con stufe a gasolio ed il gasolio oggi è carissimo. Le conseguenze della guerra in Ucraina (e della speculazione internazionale) si sentono anche qui. Piove sul bagnato in un Paese come il Libano falcidiato dalla lunga guerra civile, dai bombardamenti israeliani del 2006, dalle infinite crisi economiche, dall’inflazione divenuta ormai una caratteristica del Paese, e dall’esplosione nel porto di Beirut dell’agosto 2020. Quel giorno persero la vita oltre duecento persone mentre gli sfollati furono decine di migliaia. In tutto è da ottobre scorso che il Libano non ha un Presidente in quanto le principali forze politiche non riescono ad accordarsi su un nome. Centinaia di migliaia di profughi palestinesi oggi vivono in un Paese che sta attraversando probabilmente la crisi sociale più grave della sua storia. Se erano dimenticati prima, lo sono ancor di più oggi. In Libano ai palestinesi sono preclusi decine di lavori. Gli ultimi tra gli ultimi banalmente sognano di non essere più profughi, sognano di infilare le chiavi che nonni e genitori hanno conservato dal 1948 nelle serrature di casa in Palestina. Case che oggi ad Haifa, a Gerusalemme e Nazareth non esistono più. Halima conserva ancora gli atti di proprietà dei terreni della sua famiglia. Terreni che si trovavano a Tiberiade, non lontano dal lago dove i resort accolgono turisti da tutto il mondo. Della Nakba (la Catastrofe), il tragico esodo palestinese del 1948 non si parla quasi mai dalla nostre parti. Farlo costringerebbe pavidi addetti ai lavori ad affrontare il tema del diritto al ritorno per chi venne espulso o, quanto meno, il diritto ad una Patria a chi ne è sprovvisto.
Nei campi profughi palestinesi – Campi sovraffollati e povertà
A Jalil negli ultimi anni sono arrivati anche molti profughi siriani. Le conseguenze del conflitto in Siria, l’ennesima guerra per procura che ha distrutto un Paese intero, le patiscono per primi i disgraziati della terra. Jalil, come tutti gli altri campi palestinesi in Libano, è diviso in zone. Vi sono quelle controllate da Hamas, riconoscibili da bandiere e stendardi di color verde, e quelle da Fatah, l’organizzazione legata all’OLP, (Organizzazione per la Liberazione della Palestina), caratterizzate dalle immagini di Arafat. I responsabili della sicurezza delle zone di “confine” sono uomini armati di kalashnikov. I campi sono sovraffollati, poveri, abbandonati e pieni di umanità. L’essere umano, e questo è il suo miglior pregio nonché il suo peggior difetto, si abitua a tutto. Al pensiero della morte, alla guerra, alla prigionia. I campi nel Libano non sono “sigillati” come Gaza, ma di fatto è come se lo fossero. Dove potrà mai andare quella gente senza soldi, spesso senza un documento e ancora senza Patria? Per di più oggi è il Libano intero a sembrare una distesa di povertà. All’ingresso meridionale di Shatila, luogo dell’eccidio del 1982, decine di bambini libanesi rovistano nella spazzatura alla ricerca di qualche pezzo di rame. Dovrebbero stare a scuola, lavorano per portare a casa spiccioli per un po’ di pane arabo e qualche falafel. Il tutto davanti ad un centro UNRWA, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel Vicino Oriente istituita nel 1848 durante il conflitto arabo-israeliano e che, ancora oggi, si occupa, o prova a farlo, dei rifugiati palestinesi in Libano, Siria, Giordania nonché degli abitanti di Gaza e della Cisgiordania.
Nei campi profughi palestinesi – La consapevolezza del popolo
Nella mia vita ho visto luoghi più depressi economicamente dei campi palestinesi in Libano. Luoghi più affamati, più assetati. Penso al Congo, ai bordos di San Pedro Sula, ad alcune comunità guatemalteche. Tuttavia mai mi era capitato di dover assistere ad una tale concentrazione di ingiustizie come quelle che quotidianamente hanno contezza di subire i rifugiati palestinesi. Perché sanno perfettamente quello che sono costretti a subire. Sanno di essere poveri, sanno di non poter tornare a casa, sanno di essere discriminati, sanno, il più delle volte, di non avere nazionalità. Sanno di vivere lungo lo stesso mare che bagna luoghi di opulenza, sanno di essere fuggiti da un’occupazione militare, sanno di non avere futuro, sanno di non poter scappare da lì, sanno che difficilmente, dopo decenni di peggioramenti, le loro condizioni di vita miglioreranno, sanno di essere dimenticati e sanno il perché. Israele è potente, viene considerata un esempio di democrazia anche se pratica apartheid ed anche se, il ministro delle Finanze si dichiara “fascista” promettendo comunque di non “lapidare gli omosessuali”. Israele compra e produce armi sofisticate. Israele è il principale alleato degli USA in un momento in cui gli Stati Uniti sempre meno altrove ma sempre più in Europa, esercitano egemonia. Tutto questo i profughi palestinesi lo sanno e talvolta la conoscenza è direttamente proporzionale alla rabbia. Rabbia che continua a crescere. E non potrebbe essere altrimenti. Scrisse Bertolt Brecht: “Tutti a dire della rabbia del fiume in piena e nessuno della violenza degli argini che lo costringono”. E’ una frase che chiunque abbia il coraggio di approfondire la questione palestinese dovrebbe imparare a memoria.