L’ultima spiaggia secondo Paolo Virzì

Anni strani i ’90. Anni di grandi stravolgimenti, di sconquassi istituzionali, di terremoti giudiziari, di nuovi assetti economici. Anni in cui lo scenario politico del Belpaese cambierà pelle, muterà irreversibilmente, disegnando scenari di cui, ancora oggi, è possibile scorgere le rovine. Nel 1996, precisamente il 5 aprile, esce nelle sale Ferie d’agosto. Il cuore impavido di Mel Gibson, in una Scozia tutta barbarie e strepiti, ha appena stregato l’Academy. Romano Prodi, dal canto suo, sorriso sornione e pancetta da buongustaio reggio-emiliano, innalza al cielo un iconico ramoscello d’ulivo, vincendo le elezioni. Siamo in un’altra era, in un altro mondo. Così lontano eppure così vicino. Siamo in un decennio che, fin da subito, disvela le sue carte. E si tratta di carte che non hanno nulla della rassicurante bonarietà delle “piacentine” o delle “napoletane”, ma l’ambiguo e obliquo ghigno dei tarocchi.

Cinema anni Novanta

L’8 gennaio del 1991 al grido di “Roma ladrona” il profondo nord inizia a sventolare bandiere verdastre; nel febbraio del 1992 le “mani pulite” di Tangentopoli svelano scandali e provocano un terremoto che crepa i palazzi del potere; fra il maggio e il luglio dello stesso anno un boato assordante e tragico (simile al “botto più grande de tutti li botti” sognato dallo zingaro marinelliano di Lo chiamavano Jeeg Robot) sconquassa dalle fondamenta prima la Sicilia e poi l’intero Stivale; all’alba del 1994 nasce il partito di – mi consentaSilvio Berlusconi e le nostre strade, come ci ricorda Dikotomico Cineblog – vennero invase da “un inquietante presagio di ebetificazione di massa, ovvero quello strambo manifesto 6×3 con su scritto a caratteri cubitali Fozza, Itaia sopra il viso gulliveriano di un poppante, la bocca aperta in un’espressione di gioia o di terrore”; e poco dopo Bettino Craxi, garofano e soldi dei contribuenti in tasca, si esilia ad Hammamet dove troverà la morte nei primi giorni della nuova decade. Insomma, un bel casotto, di quelli che ti guardi indietro e ti viene la tremarella. Di quelli che c’è veramente poco da ridere. E difatti anche il cinema dell’italica risata, soprattutto in quel lontano 1996 in cui uscirono le agostane ferie targate Virzì, dimostrò di non ridere affatto.

L'ultima spiaggia secondo Paolo Virzì

O, meglio, di non riuscire a far ridere il pubblico. Poche pellicole, per lo più di mediocre (se non mediocrissima) fattura e sguardo o rivolto al passato o al sub ombelico. Massimo Boldi e Christian De Sica se ne vanno, fra rutti e scoregge, A spasso nel tempo; il ragionier Fantozzi Ugo dimostra di essere maschera appannata e triste nel cimiteriale Fantozzi – Il ritorno; Mariano Laurenti tenta di rinverdire il filone boccaccesco con Chiavi in mano, atroce remake dell’altrettanto atroce matrice Quel gran pezzo dell’Ubalda, tutta nuda e tutta calda; Leonardo Pieraccioni sbanca i botteghini con Il ciclone, dando avvio ad una poetica (?) autoriale (??) che, fin da subito, svela tutta la sua pauperistica verve; Dino Risi, stanco e prossimo alla fine, dirige l’insulso Giovani e belli; Lina Wertmüller amplia la sua filmografia di titoli interminabili con l’invedibile Metalmeccanico e parrucchiera in un turbine di sesso e politica; Renato Pozzetto si mette dietro la macchina regalandoci il pessimo Papà dice messa; e Carlo Verdone tenta la carta della commedia sofisticata con Sono pazzo di Iris Blond, trovando un’iniziale incomprensione del pubblico. Un elenco che dimostra quanto il cinema comico e la commedia made in Italy batta la fiacca, non sappia inquadrare lo stato delle cose, non riesca mai a fotografare la realtà del nostro paese, senza filtrarla con la lente della satira feroce, dello squarcio sardonico, della sottile ironia.

I primi successi di Paolo Virzì

Una voce però c’è. È quella di un giovane regista livornese, fattosi notare soprattutto dalla critica due anni prima con La bella vita, apologo sincero, tenero e malinconico della vita di provincia, sui sogni infranti sugli scogli del reale, su esistenze schiacciate dal peso di una vita che avrebbero voluto diversa. È, in fin dei conti, la lezione della gloriosa commedia all’italiana degli anni passati. È una questione di sguardi, di aderenza alla quotidianità di tutti i giorni, di sensibilità e amore verso i personaggi che si raccontano, di sceneggiatura che scava nelle loro psicologie, nelle loro frasi sussurrate o gridate, nelle loro azioni vigliacche o eroiche. È la voglia di raccontare l’Italia di quei tempi, l’impellente desiderio di riempire la tela bianca del narrato e dipingerla con i toni accesi e sfumati, opachi e luminescenti, vividi e pallidi del nostro paese e di chi lo abita giorno dopo giorno, con slancio ottimista e sommessa disperazione.

Virzì con La bella vita dimostra fin da subito di essere forse l’unico, vero, inimitabile erede della commedia all’italiana, quella dei Monicelli e degli Scola, dei Germi e dei Risi. E lo ribadisce a chiare note con Ferie d’agosto in cui, fra una risata e una lacrima, una battuta e un desiderio gettato alla luna, prende corpo un’umanità alla deriva, sballottata da quelle onde del mare in cui si è tuffata per le vacanze, e nelle quali finisce per annaspare, vedendo allontanarsi sempre più quel miraggio di felicità che brilla laggiù, su rive sempre più lontane da raggiungere. Non è un caso che Virzì scelga di ambientare forse la sua opera più compiuta (insieme a quel piccolo gioiello di cattiveria distillata che è Caterina va in città, su cui torneremo) sulle rive del mare. Quella sorta di microcosmo dove nessuno sembra avere colpa di niente, dove la vita sembra interrompersi – miraggio evanescente – dal monotono tran-tran della vita di ogni giorno, dove le musiche di un karaoke di piazza si confondono con il sussurro delle onde.

L'ultima spiaggia secondo Paolo Virzì

Infatti è proprio nel paesaggio balneare, nei suoi confini spazio-geografici contrappuntati da gelati e crema solare, juke box e infradito, che la commedia tricolore ha ambientato le sue gemme iridescenti: da L’ombrellone a Il sorpasso, da La voglia matta passando per il segmento La camera del collettaneo Le coppie, via via fino ad arrivare al delizioso Tutti al mare di Matteo Cerami, sorta di cripto-remake del Casotto di Sergio Citti. E non è un caso che il film, ambientato in quella settimana che di solito precede il rientro alla vita “reale”, a cavallo di Ferragosto, abbia appunto il sapore amaro di un qualcosa che sta per finire, faccia trasparire tutta la consapevolezza di un sentore di perdita, di definitivo tramonto.

Ferie d’agosto

Qui siamo a Ventotene, alle estreme propaggini del Lazio. In questo avamposto schiacciato fra terra e mare, Virzì e il fido sceneggiatore Francesco Bruni mettono in scena l’incontro/scontro fra due gruppi famigliari agli antipodi, entrambi intrappolati nelle secche di un declino umano e morale disperato. Da una parte la famiglia Mazzalupi, capitanata da un Ennio Fantastichini di truce cafoneria, simbolo di un’Italia destrorsa e neocatodica. La classica conclave di quella semi periferia tipicamente romana che ostenta cellulari grandi come angurie, che si arrampica sul tetto ad aggiustare l’antenna altrimenti Italia 1 non si vede, che accetta i vu’ cumprà perché in fondo “so’ boni, porelli”, che si sente realizzata quando va al ristorante a “magna’ er pesce e spenne poco”. Dall’altra quella sinistroide e disfunzionale che gravita intorno alla casa di Sandro Molino (Silvio Orlando), giornalista de L’Unità, sorta di tribù radical chic che cena a lume di candela, legge solo i classici dell’Adelphi, declama le poesie di Montale (“Riviere, bastano pochi stocchi d’erbaspada penduli da un ciglione sul delirio del mare; o due camelie pallide nei giardini deserti, e un eucalipto biondo che si tuffi tra sfrusci e pazzi voli nella luce; ed ecco che in un attimo invisibili fili a me si asserpano, farfalla in una ragna di fremiti d’olivi, di sguardi di girasoli”), schitarra le canzoni del comandante Che Guevara e crede che gli ideali del comunismo siano naufragati solo per colpe altrui.

L'ultima spiaggia secondo Paolo Virzì

Insomma, due modi di intendere e vivere il presente, due galassie lontane anni luce, due famiglie accomunate in niente, se non nella spasmodica ricerca di una felicità sempre negata. O, se volete, nel disperante quanto affannoso desiderio di oblio che cancelli la pervasiva infelicità che traspare nella parole, nei gesti, nelle frasi dette o taciute di ognuno dei protagonisti. Dall’isteria nevrotica di Laura Morante alla commovente rassegnazione di Paola Tiziana Cruciani, dalla disillusa malinconia di Piero Natoli al trattenuto erotismo di Sabrina Ferilli. Una carrellata di attori, tutti perfettamente in parte, che si muovono sul sottile crinale fra rimpianto e nostalgia, taciuta incomunicabilità e rancore sedimentato, aneliti inseguiti e desideri mai veramente sopiti. Un coacervo di sentimenti che cova sotto le ceneri e di tensioni esistenziali soggiogate all’inesorabilità dell’occasione perduta che tutti accomuna e che si manifesta in maniera lampante nella struggente sequenza nella notte delle stelle cadenti, quella di San Lorenzo, quando ognuna di queste monadi alza lo sguardo al cielo, esprimendo il suo desiderio, di cui il più semplice e allo stesso tempo irrealizzabile è quello della bellissima Sabrina Ferilli, incastrata in una vita che la sta, letteralmente, soffocando: “Vorrei poter tornare indietro, vorrei avere diciotto anni e ancora tutta la vita davanti…

L'ultima spiaggia secondo Paolo Virzì

La struttura narrativa di Ferie d’agosto è, tutto sommato, semplice. Assolutamente lineare nella sua narrazione, nei suoi tempi comici, nella descrizione psicologica della figure che la popolano. Una struttura per certi versi simile alla pochade (come osserva acutamente Raffaele Meale) ma che, dallo schema della pochade si libera attraverso un’osservazione del reale che diventa riflessione sul tempo. Tempo in cui i pochi giorni raccontati aprono finestre su vite intere, sul loro sviluppo affettivo ed emotivo, e diventano istantanee su un Paese diviso a metà, da poco entrato nella cosiddetta Seconda Repubblica e già stanco, sfibrato, in qualche misura sconfitto. Ferie d’agosto (che vinse il David di Donatello come miglior film) è, alla fine dei conti, il racconto di una lunga serie di fallimenti, sia sentimentali che esistenziali. Fallimenti in cui si specchia, osservando i propri lineamenti deformati dall’inclemenza del tempo che fugge, una generazione sempre più perduta e sola. Lo scontro ideologico, la diversa concezione e i diversi ideali, lo schema bipartitico dei due gruppi che si guardano da lontano, mal si sopportano e al più si disprezzano (uno schema che Virzì replicherà in Caterina va in città dove, attraverso gli occhi della candida protagonista, si disvelerà l’Urbe con le sue tipizzate distinzioni fra zecche e fasci, fra intellighenzia arrogante e destrorso populismo) è per il regista una semplice cartina di tornasole per dimostrare come ogni personaggio, alla fine dei conti, è specchio dell’altro, sia nell’infinita solitudine, sia nell’incapacità di empatia. Ogni differenza, sia politica che morale, si sta assottigliando, le differenze stanno sbiadendo, così come le sfumature, sommerse da un egoismo galoppante che troverà definitiva consacrazione nell’opera più buia del regista, ovvero Il capitale umano. Dove, come osserva Tonino De Pace nella recensione apparsa su “Sentieri Selvaggi”, squali e i piccoli sciacalli ancora una volta si fronteggiano, ma sono diventati tutti cattivi, i buoni sono spariti, forse affondati nell’azzurro mare di quell’agosto.

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