La strategia militare di Tzahal difficilmente riuscirà a chiudere la partita di Gaza. Hamas politico intanto prova a ritagliarsi uno spazio per il futuro della Striscia
Mentre si moltiplicano gli appelli del mondo occidentale al gabinetto di guerra israeliano per scongiurare l’ampliamento dell’invasione di Rafah da parte delle Forze di Difesa Israeliane (IDF), i vertici del governo di Tel Aviv insistono sulla natura “circoscritta” delle operazioni nella città meridionale della Striscia. Lo ha ribadito anche ieri il Ministro della Difesa Yoav Gallant al Segretario di Stato americano Antony Blinken: “Quella a Rafah sarà un’azione mirata a cancellare Hamas dalla faccia della terra, come autorità militare e di governo”.
Di più. “Israele non verrà dissuasa dal portare a termine i suoi obiettivi di guerra”. Detta in altri termini: è inutile che continuate a insistere, con o senza le vostre armi, faremo quello che dobbiamo, “non abbiamo altra scelta”. Eppure, stando alle ultime indiscrezioni di due alti funzionari americani riportate dalla CNN, secondo l’amministrazione Biden, Israele avrebbe ammassato abbastanza truppe ai margini di Rafah per procedere con un’incursione su vasta scala nei prossimi giorni, benché il gabinetto di guerra di Tel Aviv non avrebbe ancora preso una decisione definitiva su una mossa del genere.
A una settimana dall’inizio dell’attesa operazione, avviata il 6 maggio scorso, in ogni caso, la situazione ad interim è questa: il valico di frontiera di Rafah con l’Egitto è in mano israeliana, carri armati e forze di terra hanno raggiunto la Salah Al-Din Highway, una delle più importanti arterie stradali della Striscia, tagliando in due la città, la zona est è quasi completamente evacuata e secondo le Nazioni Unite finora l’evacuazione di massa dalla città avrebbe interessato circa 360mila palestinesi.
Perché Hamas riesce a resistere a Gaza
Le cose però si fanno più complicate in relazione all’obiettivo principale della campagna: la distruzione militare di Hamas. È innegabile che in questi oltre 7 mesi di conflitto armato, con la mobilitazione di unità d’élite, veicoli corazzati e unità di fanteria con responsabilità di bonifica, le operazioni israeliane abbiano ridotto significativamente l’influenza di Hamas, causando gravi danni alle sue risorse militari e alle infrastrutture operative.
Eppure, secondo un report del Wall Street Journal, che cita funzionari americani e israeliani, a fine gennaio 2024, l’80% dell’intricata rete di tunnel presenti sotto la Striscia sarebbe ancora intatta, mentre solo fra il 20 e il 40% di essi sarebbero stati distrutti o attualmente inattivi, soprattutto nel Nord.
È evidente che la capacità di resistenza palestinese non sembra più in grado di lanciare offensive significative. Altra storia vale per il resto della Striscia. Già, perché in alcune zone precedentemente occupate e teoricamente già bonificate, Hamas è risorto e si è già riorganizzato, al punto che nelle scorse ore le unità israeliane si sono dovute impegnare tanto nel nord quanto nel centro della Striscia per precise offensive contro ulteriori sacche di resistenza. Quanto al volume della presenza di combattenti di Hamas a Rafah, non ci sono informazioni accurate.
Pochi giorni fa, secondo il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, funzionari israeliani avrebbero escluso la presenza dei quattro battaglioni di Hamas che il primo ministro Benjamin Netanyahu aveva riportato. Nello specifico, secondo tre funzionari anonimi, “non ci sono più quattro battaglioni di Hamas a Rafah, poiché gran parte della forza combattente ha lasciato la città e i suoi sobborghi e si è trasferita a Khan Yunis, e forse anche nei campi del centro. Circa due battaglioni rimangono a ovest della città, apparentemente nell’area di Tel Al-Sultan”.
Insomma, sfruttando la metropolitana sotterranei dei tunnel, parte dei miliziani avrebbero già lasciato Rafah, puntato a nord dove la presenza israeliana è più ridotta e starebbe provando a ricostituirsi. Il piano di Yahya Sinwar, capo dell’organizzazione palestinese nella Striscia, appare chiaro: Hamas rimarrà sottoterra per un periodo più lungo di quanto l’esercito israeliano possa rimanere in superficie.
La strategia militare israeliana che non funziona
Del resto – tralasciando per un attimo la diffusa questione sull’impossibilità di eliminare un’ideologia radicata in parte degli animi dei palestinesi di Gaza e che l’uccisione di circa 37mila fratelli e sorelle avrà certamente fatto attecchire in nuove giovani leve –, se ragioniamo dal punto di vista strettamente militare, gli obiettivi tattici delle campagna israeliana forse non sono stati sufficientemente proporzionati alla grandezza dell’obiettivo strategico, appunto, l’annichilimento di Hamas: impiegare un numero ridotto di forze gran parte delle quali è stata già ritirata (oltre alla potenza area fatta di droni, elicotteri e jet, a Gaza restano solo due brigate da combattimento rispetto alla precedente forza massiccia di 28 brigate impiegata al culmine delle operazioni) eliminare al minimo le perdite, non esporre i propri uomini a rischi inutili o eccessivi.
Tutti princìpi operativi che, secondo gli esperti, avrebbero plasmato ogni fase delle passate campagne israeliane a Gaza, a partire dall’Operazione Piombo Fuso nel 2008-2009. Secondo Nadav Weiman, direttore senior dell’ONG anti-occupazione dei veterani israeliani Breaking the Silence ed ex soldato nelle forze speciali dell’IDF in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, sentito da Il Millimetro, uno dei princìpi fondamentali è noto come “rischio zero per le nostre Forze” e pone la massima priorità sulla sicurezza dei combattenti israeliani.
Un approccio che conseguentemente sposta il rischio dalle forze militari israeliane ai civili di Gaza, anche se non coinvolti direttamente nel conflitto. Un secondo principio, invece, è la “Dottrina Dahiya”, così denominata dal quartiere di Beirut devastato durante la guerra del Libano del 2006. Un approccio che si propone di creare un deterrente infliggendo danni sproporzionati alle infrastrutture militari e civili, al fine di minare il supporto della popolazione civile all’organizzazione non statale e armata nemica.
Arrivati a questo punto, però, è dubbio quanti altri progressi militari Israele sia in grado di fare contro Hamas. Secondo Tel Aviv, le operazioni a Rafah saranno questione di settimane. Ma come infliggere un colpo militare decisivo, tale da poter annientare il movimento in tempi rapidi e al contempo permettere il disimpegno dalla Striscia? E come può l’abbandono da Gaza assicurare che non si ricommetta l’errore del 2005, quando il ritiro unilaterale da Gaza ha permesso ad Hamas di consolidare il suo controllo militare sul territorio, spianando la strada all’attacco del 7 ottobre?
Gli ultimi giochi di potere sul futuro di Gaza
D’altro canto, per molti versi, i due imperativi di Israele, quello di ottenere il rilascio degli ostaggi e quello di smantellare Hamas nella Striscia, sono in fisiologica contraddizione perché il primo richiede necessariamente un cessate il fuoco. Ragione per cui il negoziato fra Israele e Hamas mediato da Qatar, Egitto e Stati Uniti non è stato ancora del tutto abbandonato benché proceda molto a rilento. Ma già dall’esistenza stessa del negoziato emerge un’ulteriore e più seria contraddizione della strategia militare israeliana troppo spesso sottovalutata: Hamas è ancora un attore interlocutore per Israele.
Ed è sbagliato ragionare pensando che il futuro di un movimento islamico-sunnita fondamentalista e jihadista palestinese, fondato nella Striscia di Gaza nel 1987, all’inizio della prima Intifada, affine ai fratelli musulmani in Egitto e con una presenza politica fra Qatar, Turchia e Libano, si decida solo a Gaza. Certamente, gli ostaggi israeliani e la pesante critica internazionale all’iniziativa offensiva di Israele di questi mesi sono l’unica leva per impedire la sconfitta dell’ala militare nella Striscia. Ma Hamas spera ancora di salvare ciò che può del suo potenziale di combattimento e della sua autorità politica, come le più recenti e frequenti visite in Turchia del capo politico Ismail Haniyeh dimostrano.
In altri termini, mentre l’ala militare punta a sopravvivere in tutti i modi nella Striscia, l’ala politica tenta di assicurarsi un posto in un successivo processo di amministrazione e ricostruzione pluriennale di Gaza. Sarà forse anche per evitare questo coinvolgimento, nel perdurante spirito di mantenere le fazioni palestinesi (Hamas e Fatah) l’una contro l’altra che – è notizia delle ultime ore – secondo il sito Axios, diversamente da quanto sostenuto finora, Israele avrebbe chiesto che sia l’Autorità nazionale Palestinese (ANP) di Abu Mazen a gestire il valico di Rafah di Gaza con l’Egitto. La prima volta che Israele coinvolge l’ANP nei fatti relativi alla guerra a Gaza.