Forse, come miglior film del 2022, sarebbe stato più giusto premiare Esterno notte. Perché il film di Bellocchio, nella sua dolente radiografia di un’epoca dilaniata da folli ideologismi (non a caso durante in una delle prime sequenze del film la m.d.p. inquadra i manifesti di Anima persa di Dino Risi, film che fa della follia il suo asse portante) è un colpo al cuore. Quanto e più di Buongiorno, notte. Dove gli anni di piombo, la stagnante cappa del terrorismo e il rapimento di Aldo Moro venivano trasfigurati in una dimensione “altra”, onirica, estremamente soggettiva (l’ultima sequenza vede proprio l’onorevole DC lasciare il covo dei brigatisti e incamminarsi sorridente in un’alba livida). Qui, invece, nel nuovo esterno immaginato dal regista de I pugni in tasca, quei tempi vengono osservati da più prospettive: dai freddi covi dei brigatisti la visione si allarga a macchia d’olio, attraversa i palazzi del potere, le università, la sede pontificia, gli interni borghesi in cui il dolore e la paura della perdita ammantano ambienti e spazi, e tingono di nero ogni cosa ed ogni cuore. Sì, sarebbe stato più giusto per un film che andrebbe fatto vedere nelle scuole, che andrebbe insegnato agli studenti per far comprendere loro un passato di cui ancora oggi ci stiamo leccando le ferite. Ma non sarebbe stata una scelta coraggiosa. Non avrebbe avuto quel coraggio che possiede un film come Siccità, l’opera con cui Paolo Virzì pone la pietra tombale su una poetica autoriale che, film dopo film, ha lentamente trasformato gli elementi agrodolci di una “nuova commedia” all’italiana, adattata ai nostri giorni e ai nostri tempi, facendoli precipitare nei toni oscuri e millenaristici di un paese sempre più brutto, sporco e cattivo.
Zenit e Nadir 2022: Siccità vince su tutti
Pensiamoci bene. C’è una sorta di filo rosso che unisce l’esordio del regista livornese, La bella vita, a Il capitale umano (lasciando perdere la trasferta stelle e strisce di Ella & John – The Leisure Seeker e il passo falso di Notti magiche). Un filo che diventa inesorabilmente nodo scorsoio e attanaglia i protagonisti dei suoi film in una morsa sempre più tragica e disperata, li incattivisce, li “marmorizza”. Li rende, infine, complici di un sistema-Italia che non concede sogni, ma solo vane speranze. I desideri vagheggiati e perennemente disillusi delle famiglie disfunzionali di Ferie d’agosto, l’innocenza infranta della piccola protagonista di Caterina va in città, i call center alienanti di Tutta la vita davanti, le dolorose relazioni sentimentali di Tutti i santi i giorni. E, infine, la lotta di classe delittuosa e dilaniante a cui fa capo, appunto, Il capitale umano. Siccità è un’opera distopica che ha, quindi, coraggio. È una dolente ballata travestita da parabola o, meglio, un racconto morale squarciato da toni millenaristici. E, come ogni distopia che si rispetti, prende in prestito visioni già immaginate e codificate, aggiornandole con elementi nuovi: in questo caso la perdita di uno dei beni più preziosi del genere umano, ma di cui a volte colpevolmente ci dimentichiamo, l’acqua. Vedendo Siccità non possono non tornare alla mente echi, rimandi, scenari codificati. Ad esempio il plumbeo clima che ammanta la città-formicaio del Nirvana di Salvatores. O, ancora, la Roma imbarbarita di Suburra di Sollima. Film diversi, si dirà. Lontani galassie perché posti in generi ben definiti (la fantascienza e il neo noir). E questa affermazione non fa una grinza. Ma si tratta di film che, mutatis mutandis, hanno la stessa valenza politico/poetica del nuovo Virzì, la stessa voglia di osare e porsi al di fuori degli asfittici quadretti borghesi di un Veronesi (Il Colibrì) o di un Muccino (A casa tutti bene). Di ergersi di molte spanne dalla piattezza di un cinema italiano sempre più rinchiuso in se stesso, sempre meno attratto dalla voglia di sporcarsi le mani, di cimentarsi con soggetti rischiosi, di – perché no? – giocare con il genere e fare, finalmente, cinema di genere. La Roma in cui è ambientato Siccità è un far west polveroso dove non piove da molto, troppo tempo. Talmente tanto che il Tevere si è prosciugato. Talmente tanto che le blatte hanno preso possesso delle strade, hanno invaso le case, hanno reso dimora ogni pertugio. Talmente tanto che i cittadini sono costretti a razionare l’acqua, devono fare i turni per lavarsi, evitare qualsiasi tipo di spreco idrico.
Zenit e Nadir 2022: Siccità, sono i personaggi a fare la differenza
Va da sé che in un simile contesto anche i rapporti interpersonali diventino slabbrati, i sentimenti lascino il posto alla solitudine, la psicosi divampi, la violenza diventi legge, il rancore prenda il sopravvento. Sono anime alla deriva quelle che animano Siccità, piccole quanto insignificanti monadi sballottate dalla crudele assurdità degli eventi. C’è chi ha perso tutto e vive di stenti (Max Tortora), chi ha trovato nelle patrie galere il ventre materno dove scontare le colpe commesse (Silvio Orlando), chi riversa tutto il proprio narcisistico fallimento nei social (Tommaso Ragno), chi ha un impeto di orgoglio e cerca di urlare al mondo di non essere la nullità che da tutti viene invece considerata (Emanuela Fanelli), chi vive di ricordi e riesce a parlare solo con i fantasmi del proprio passato (Valerio Mastandrea), chi cova disperazione e non sa controllare la bestia che è in lui (Gabriel Montesi). Si tratta di una carrellata di personaggi finemente tratteggiati, cesellati con cura, dalle psicologie potenti e lacerate, dalle sfumature e dalle zone d’ombra in cui il chiaroscuro prevale e diventa cifra stilistica. Figure che hanno portato molta critica a definire Siccità il Nashville di Virzì. Ma se dovessimo trovare un termine di paragone con la filmografia altmaniana, dovremmo apparentare il film del regista livornese al plumbeo America oggi, capolavoro insuperato in cui le mille tessere di un puzzle umano si sfioravano, si intercettavano, si toccavano per sbaglio provocando “effetti butterfly”, sulle e nelle vite degli altri personaggi. Come, appunto, qui avviene. Come tutte le opere coraggiose, anche Siccità ha qualche difetto, dei passaggi che girano a vuoto. Si veda, ad esempio, la scena meno riuscita e più straniante, ovvero quella del passaggio a dorso di mulo di una famiglia “simil Nazareth”, dagli evidenti rimandi sacri, che fa precipitare la pellicola in una dimensione religiosa troppo forzata. O, ancora, l’uscita di scena di alcune figure (su tutte il laido regista di teatro interpretato da Massimo Popolizio) che avrebbero potuto dare molto di più all’economia dell’opera. Oppure alcuni snodi di sceneggiatura che sarebbe stato più intrigante approfondire (la relazione a distanza fra Vinicio Marchioni e Elena Lietti) e che, invece, non portano che ad un vicolo cieco. Ma si tratti di nei, per l’appunto, che non inficiano la riuscita di un affresco vivido, dal montaggio frastagliato, fotografato meravigliosamente nei colori ocra e giallognoli, capaci di desertificare gli scorci di una Capitale lontana anni luce dalla grande bellezza sorrentiniana, qui ripresa per lo più nelle sue periferie (Rebibbia) o nei suoi meandri meno turistici (il quartiere San Lorenzo). Cinema di grande impatto e di grande visionarietà. Cinema da vedere in sala e non sulle piattaforme. Cinema in cui immergersi. Per sognare. Anche se in questo caso il sogno in cui ci proietta Virzì ha i colori dell’incubo.
Zenit e Nadir 2022: Dario Argento il peggiore in assoluto
Passiamo al peggiore dell’anno. Molti i titoli che avrebbero potuto fregiarsi di simile onorificenza. Poteva sicuramente vincere Karate Man di Claudio Fragasso, film che sembra uscito dritto dal cinema di serie B dagli anni Novanta. Non a caso l’autore di un simile scempio (una sorta di cripto remake più becero e urlato de Il ragazzo dal kimono d’oro) ha “commesso” veri e propri delitti verso la settima arte come Operazione vacanze, Teste rasate o Troll 2 tanto per citarne qualcuno. Ci è andato vicino Roberto Baeli con Viaggio a sorpresa interpretato da un Lino Banfi incartapecorito e un bolsissimo Ron Moss, penoso pastrocchio fra burrate e pizzica, insulsa commedia girata come un interminabile spot in favore della costa pugliese. Per un pelo non se lo è aggiudicato Me contro Te – La vendetta del Signor S., in quanto squalificato dopo attenta verifica, visto che l’ennesima, orripilante avventura degli youtuber Luigi Calagna e Sofia Scalia non è stato considerato cinema, ma solo una vergognosa operazione commerciale per spillare soldi ai poveri genitori costretti a vedere in sala le gesta di questi due decerebrati (ma forse sono dei geni e io non ci ho capito veramente niente della vita). Alla fine, e lo diciamo con la morte nel cuore, si aggiudica la palma di film più brutto della stagione Occhiali neri di Dario Argento con la seguente motivazione: “errare è umano, perseverare diabolico”.
Zenit e Nadir 2022: Occhiali neri, anzi, appannati
Ma andiamo per passi. Argento mancava dagli schermi da un decennio tondo tondo, quindi l’attesa di fan e addetti ai lavori, di cultori del genere e critici oltranzisti aumentava giorno dopo giorno. Era, infatti, dal 2012, anno di uscita di Dracula 3D, insensato delirio ultratrash, che si attendeva al varco la nuova opera del papà di Profondo rosso. Un autore che, dispiace dirlo da chi lo ha amato e venerato per almeno un ventennio, non ne aveva più imbroccata una manco per sbaglio dagli anni’90 in poi. Cosa dire dell’esangue Trauma (1993)? Come non sentirsi traditi davanti a Il fantasma dell’opera (1998)? Come non inorridire davanti a Il cartaio (2004)? Come non imbestialirsi dopo La terza madre (2007)? Come non piangere di rabbia vedendo Giallo (2009)? Insomma, nel giro di un ventennio, Argento è riuscito a dilapidare tutto l’oro accumulato precedentemente, ha imbrattato la sua tela di pennellate untuose, ha stuprato la sua carriera. E, anche stavolta, mentre tutti attendevano Godot, nuovamente Godot non si è presentato. E Occhiali neri, ritorno al thriller dopo la parentesi vampiresca precedente, non solo ha disilluso le attese ma ha dimostrato, definitivamente, quanto l’argento si sia tramutato in stagno. Veniamo al film. A Roma un serial killer sembra avercela proprio con chi fa il mestiere più antico del mondo. In poco tempo sono già tre le lucciole mandate a passeggiare nell’Ade. Ilenia Pastorelli, escort dall’inconfondibile accento “torpigna”, giustamente preoccupata da quanto sta accadendo, non ci pensa due volte a scappare dalle grinfie di un cliente un po’ troppo su di giri. Fuggendo in macchina a tutta velocità fa un botto mica da ridere: nel crash ci lasciano le penne una famiglia cinese (ma ne esce miracolosamente illeso il piccolo di casa, Chin) mentre Ilenia perde la vista. Cieca, senza più coordinate, con il lavoro che zoppica (il sesso non ammette menomazioni, è la regola del mercato, baby) e con il piccolo cinesino ormai orfano che le si attacca alle gonne, la nostra eroina se la deve vedere con il killer seriale che ovviamente la prende di mira. Riuscirà a salvarsi e a salvare il povero pikachu dagli occhi a mandorla?
Zenit e Nadir 2022: Occhiali neri, alla ricerca del Maestro che fu
Bene, questo il succo della storia. Anzi, male. Perché in questo gialletto all’acqua di rose, dalla durata striminzita (90 minuti scarsi) e dallo spavento non pervenuto, è veramente impossibile trovare non dico squarci, ma pallidi bagliori dell’Argento che fu. Certo, quelli che ancora si ostinano a considerare il capostipite del giallo all’italiana potranno obiettare che l’incipit è ben fatto, che la sequenza dell’eclissi solare è suggestiva, che il primo omicidio ha sprazzi di corporale sadismo che ricordano i bei tempi. Ok, sono d’accordo. Ma i restanti 80 minuti? Un calvario, signori miei. Un atroce calvario. Partiamo dalla sceneggiatura. Lo sappiamo che non è mai stata una dei punti di forza del cinema argentiano ma tant’è. Innanzitutto, perché il killer uccide? Quale è il suo movente scatenante? Perché accoppa prostitute? La mamma faceva il “mestiere” e lui ne è rimasto traumatizzato? È impotente? Vuole il mondo popolato solo da trans? Non è dato saperlo. Capiamo solo che l’uomo (gestore di un canile dismesso dalle parti di Formello) se la prende con la Pastorelli perché lei si rifiuta di portarselo a letto dicendogli che puzza (di cane, ovviamente). E lui, permaloso il giusto, si incazza e la vuole vedere morta. Beh, una motivazione plausibilissima per ammazzare, non trovate? Uno snodo narrativo che fa acqua da tutte le parti, che lascia basiti (F4) per la sua totale inverosimiglianza, che fa veramente venire voglia di uscire per strada e accoppare il primo che passa. Eppure allo script c’è Franco Ferrini, mica Salvini (lo so non c’entra niente, ma faceva rima). Passiamo ai dialoghi. Anche qui, qualcuno potrà asserire che non sono mai stati il piatto forte della casa. Ma allora perché non prestare maggiore attenzione? Perché non provare a renderli, non dico credibili, ma almeno sensati? Prendiamo la scena in cui la Pastorelli scappa insieme a Chin dal maniaco. In un simile frangente voi direste al bambino: “Scappa, ma prima prendi il giacchetto?”. Non sarebbe stato meglio farli tacere? Non sarebbe stato più ovvio farli interagire con un gioco di sguardi o dei cenni di intesa?
Zenit e Nadir 2022: Occhiali neri, protagonisti rivedibili
E cosa dire degli attori? Va bene che sono lontani i tempi in cui Argento poteva contare su David Hemmings, Alida Valli o Jennifer Connelly ma perché affidare il ruolo da protagonista a quella Ilenia Pastorelli che dai tempi di Lo chiamavano Jeeg Robot non ha fatto un solo passo in avanti in ambito recitativo? Perché far reggere sulle sue spalle un ruolo difficile, quello della non vedente braccata dal maniaco e in balia del male (una parte che vanta, tra l’altro, illustrissimi predecessori – vedi Audrey Hepburn ne Gli occhi della notte, Mia Farrow in Terrore cieco o Uma Thurman in Jennifer 8), a un’attrice dalle limitate capacità attoriali? Senza dimenticare, come dicevamo inizialmente, la pessima dizione della Pastorelli, tutta protesa verso il dialetto romano, tanto che anche un semplice “Ciao, Chin” si trasforma, in maniera esilarante, in “Ciao ci’…”, neanche fossimo ad un concerto di Renato Zero. E, se alla Pastorelli, Argento pensa bene di affiancare come guest star la figlia Asia, altro campione in negativo di non recitazione, la frittata non è fatta, ma strafatta. Last but not least il finale, così brutto che non ci si crede. Il redde rationem fra Ilenia, Asia e Chin (pardon, Ci’) e il killer avviene nella campagne intorno a Formello. Un inseguimento sfiancante per la pazienza dello spettatore che occupa quasi una mezz’ora fra corse a perdifiato, nascondini assortiti e attraversamento di corsi d’acqua infestati da serpenti… e tutti sappiamo che a Formello è una distesa di serpenti a perdita d’occhio. Ce ne sono così tanti che hanno dovuto spostare anche gli allenamenti della Lazio. Alla fine il cattivone viene sbranato da uno dei suoi cani, in una citazione che ricalca l’omicidio di Flavio Bucci in Suspiria e che ha tanto entusiasmato i fan. Ah, dimenticavo, ci lascia le penne anche Asia, ma tutto è così tirato via e alla bell’è meglio che neanche ci facciamo caso. Titoli di coda con la Pastorelli che accompagna il piccoletto all’aeroporto per rispedirlo in Cina dalla zia. È vestita come Veronica Lario in Tenebre, e anche qui i fan battono le mani contenti per la citazione. Ma non bastano un paio di strizzate d’occhio a salvare il film. Che, ahinoi, è veramente indifendibile, inclassificabile, intollerabile. E, senza ombra di dubbio, la più grande “cagata pazzesca” dell’anno cinematografico appena trascorso.