L’Iran alla finestra, cosa può accadere?

La Repubblica Islamica sciita non vuole innescare la scintilla di un conflitto più grande di lei. Guardare e alimentare da lontano il fuoco di Gaza per ora ha già dato i suoi frutti.

Al di là delle provocazioni retoriche e delle dichiarazioni di sostegno alla “gloriosa” incursione di Hamas in Israele del 7 ottobre scorso, la Repubblica Islamica dell’Iran ha preso le distanze da qualsiasi responsabilità diretta o paternità dell’iniziativa terroristica che ha dato il via al nuovo conflitto in Medio Oriente. Nel suo primo discorso dopo l’attacco, la Guida Suprema Ayatollah Ali Khamenei ha dichiarato: “Noi sosteniamo la Palestina e le sue lotte, ma coloro che ritengono che l’opera dei palestinesi sia il risultato di non palestinesi stanno facendo un calcolo sbagliato. Questo attacco è opera dei palestinesi stessi, e noi salutiamo e onoriamo i suoi pianificatori”. Pochi giorni fa gli ha fatto eco Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, la principale longa manus armata degli interessi iraniani nella regione, nel suo primo e attesissimo discorso dall’inizio della guerra. Secondo il leader del Partito di Dio libanese, il massacro di Hamas dentro i confini israeliani a ridosso della Striscia di Gaza è stata un’azione “al 100% palestinese, interamente decisa ed eseguita dai palestinesi, per la causa e il popolo palestinese” e di cui, a quanto dice, gli alleati regionali non erano affatto al corrente

Ali Khamenei ha invitato le nazioni musulmane a fermare le esportazioni di cibo e petrolio in Israele a causa dei suoi attacchi aerei e dell’offensiva militare nella Striscia di Gaza
In questa foto pubblicata dal sito web ufficiale dell’ufficio della Guida suprema iraniana, la Guida suprema Ayatollah Ali Khamenei partecipa a un incontro con un gruppo di studenti a Teheran, Iran (LaPresse) – IlMillimetro.it

Su quest’ultima affermazione si può nutrire più di qualche legittimo dubbio, non foss’altro perché ancora non si capisce come un’organizzazione militare confinata dentro una Striscia lunga 40 e larga 10 chilometri da cui nulla entra e nulla esce senza il via libera israeliano sia stata in grado di produrre un numero così grande di missili (si stima circa 1500) come quello sganciato la mattina dell’ultimo giorno di Succot, senza che né l’intelligence israeliana né quella americana siano state capace di accorgersene. Considerando l’estrema difficoltà di inviare una tale quantità di razzi via terra a Gaza senza essere scoperti, c’è chi ritiene che le munizioni siano state consegnate via nave attraverso il Mediterraneo. C’è chi invece ritiene più verosimile che Hamas le abbia fabbricate direttamente nei suoi interminabili tunnel sotto Gaza City. Da dove provengono tutti quei razzi e perché non sono stati individuati è una domanda chiave per capire i maggiori o minori interessi in gioco degli attori regionali nel conflitto in corso. Un quesito che però, a un mese dallo scoppio delle ostilità, resta ancora senza risposta e che impedisce di cogliere a pieno se l’Iran abbia contribuito materialmente all’organizzazione della strage. 

Di più. Poco dopo l’attacco di Hamas, alcuni membri di spicco del gruppo islamista palestinese avrebbero affermato in forma anonima che funzionari della sicurezza iraniana avevano ordinato e aiutato nella pianificazione. Eppure, il combinato disposto fra la debole risposta dell’Iran e dei suoi proxy alla rappresaglia israeliana e le dichiarazioni dei leader di Iran ed Hezbollah sembrano propendere per una scelta strategica differente. Teheran ha deciso per ora di mantenere una posizione defilata, testimoniando un allineamento con la volontà statunitense di non rendere il conflitto strategico, pur ammettendo l’esistenza di un rischio costante di essere trascinato in una escalation più ampia di cui teme gli esiti. 

L’Iran alla finestra, cosa può accadere? – L’ambiguità che per ora vince

Volente o nolente, che l’Iran sia il mandante spirituale dell’attacco del 7 ottobre scorso e che ne stia risultando quale primo beneficiario degli effetti geopolitici regionali non c’è alcun dubbio. Le ripercussioni dell’operazione “alluvione Al-Aqsa” di Hamas sono molteplici. Primo: ha messo in crisi la credibilità strategica di un paese considerato potente alleato americano e principale pilastro degli interessi occidentali in Medio Oriente. Secondo: ha sgretolato il suo senso di sicurezza e superiorità rispetto ai pericoli circostanti, facendo piombare la sua società in un sentimento di vulnerabilità e complesso d’assedio costante. Terzo: ha annullato la possibilità di una normalizzazione saudita-israeliana, almeno nel breve termine. Quarto: ha dimostrato una certa coesione dei vari attori non statali sostenuti dall’Iran nella sfida allo status quo regionale.

Israele ha lanciato pesanti attacchi aerei di ritorsione sull’enclave, uccidendo centinaia di palestinesi
Palestinesi cercano feriti tra le macerie di un edificio residenziale distrutto a seguito di un attacco aereo israeliano (LaPresse) – IlMillimetro.it

Eppure, di fronte al pericolo di allargamento del conflitto, la Repubblica Islamista ha optato per una ambiguità strategica che fa leva sulla contraddizione fra retorica e fatti. Diplomaticamente l’Iran sostiene la “resistenza” di Hamas, accusa gli Stati Uniti di essere “complici” e “responsabili” del martirio del popolo palestinese vittima dei bombardamenti israeliani e minaccia di scendere in campo in caso di ulteriore intensificazione dell’offensiva. Una storia già vista. Solo tre mesi fa, il comandante della Forza Aerospaziale del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie Islamiche aveva dichiarato che i missili iraniani sono sufficienti a travolgere Israele e secondo il comandante della Guardia Rivoluzionaria, Hezbollah, con i suoi oltre 150 mila missili, sarebbe pronto ad “aprire la porta dell’inferno a Israele”. 

Pragmaticamente, però, Teheran ha ordinato alle punte del terrorismo islamista sciita della regione – da Hezbollah in Libano alle milizie sciite in Iraq agli Houthi in Yemen – di impegnarsi in provocazioni contro ebrei e americani, ma senza esagerare. In altri termini ha affidato ai suoi proxy il compito di lanciare attacchi alle basi statunitensi nella regione e al nord di Israele che siano sufficientemente limitati da non scatenare dure reazioni militari. Qualche esempio. Dall’otto ottobre, i miliziani di Hezbollah tengono impegnata parte dell’artiglieria e dell’aviazione israeliana con giornalieri scambi di razzi e missili lungo la striscia di territorio storicamente contesa (Linea Blu) fra il Sud del Libano e il Nord di Israele, spesso appaltando le azioni offensive direttamente alle brigate Al-Qassam di Hamas presenti in loco. I ribelli Houthi dello Yemen hanno sganciato missili balistici da crociera e droni nel Mar Rosso, tutti intercettati finora dal sistema di difesa israeliana Arrow supportato dal Patriot americano. In Iraq e Siria, le forze statunitensi di stanza nella base aerea di Ain al-Asad, nella base aerea di al-Harir, nell’aeroporto internazionale di Baghdad e nella base di al-Tanf sono state prese di mira da attacchi di droni e missili delle milizie sciite.

L’Iran alla finestra, cosa può accadere? – Attendere e condizionare le mosse del nemico 

Nel frattempo, Teheran sta facendo pressione sugli Stati Uniti affinché Washington convinca Gerusalemme ad accettare un cessate il fuoco. Opzione inverosimile considerando le posizioni inconciliabili di Hamas e Israele. Il primo sostiene di essere disponibile a rilasciare gli oltre 200 ostaggi israeliani solo dopo la cessazione dei bombardamenti di Tsahal (Forze di Difesa Israeliane). Israele risponde chiedendo il contrario: poseremo i missili solo se ci ridate i nostri ostaggi. Ma c’è qualcosa di ben più profondo. Nessuno dei due attori riconosce il diritto a esistere dell’altro, condizione imprescindibile per poter parlare di dignità negoziale. Se l’obiettivo politico del governo israeliano è il completo annientamento del movimento armato islamista sunnita a Gaza, Hamas ha messo nero su bianco nel suo statuto l’inesistenza di Israele e il fine ultimo di annichilire la “entità sionista”. Le due parti sono insomma contrarie al dialogo e un cessate il fuoco sarebbe chiaramente il risultato di un compromesso.

Israele ha colpito obiettivi in ​​tutta Gaza da quando un sanguinoso attacco transfrontaliero da parte dei militanti di Hamas ha ucciso oltre 1.300 persone e catturato molti israeliani il 7 ottobre
Il fumo si alza a seguito di un attacco aereo israeliano nella Striscia di Gaza (LaPresse) – IlMillimetro.it

È anche per questa ragione che col passare dei giorni gli Stati Uniti hanno smesso di parlare di “cessate il fuoco” e iniziato a introdurre l’idea di una “pausa umanitaria”. Che si finisca a ragionare di terminologie per non irritare l’alleato ebreo è indicativo di uno stallo diplomatico che gli USA non sembrano essere in grado di superare. L’America non riesce cioè a convincere Israele, paese che secondo alcuni avrebbe perso buona parte della lucidità necessaria per tenere a freno la sete di vendetta e ragionare su una risposta bellica in grado di porre le condizioni per un fine politico di breve termine soddisfacente o quantomeno degno di non risultare controproducente nel medio termine. 

In tutto ciò il gioco fra Iran e Stati Uniti sembra svolgersi attorno al principio della deterrenza. Percependo che la situazione a Gaza potrebbe degenerare in qualsiasi momento, gli Stati Uniti hanno inviato nella regione una serie di mezzi, tra cui duemila marines, due portaerei, diverse navi da guerra e un sottomarino nucleare. L’idea alla base è quella di dissuadere l’Iran dall’utilizzare i suoi alleati armati nella regione per sferrare attacchi su più larga scala capaci di aprire contemporaneamente altri fronti contro Israele.

In ogni guerra, parlare di linee rosse è terreno scivoloso. Come osservato platealmente nel conflitto russo-ucraino, queste si modificano e rimodulano all’occorrenza in base al cambiamento delle condizioni sul campo. E anche se al momento Teheran insiste con lo spauracchio di un intervento diretto se Israele non cessa i bombardamenti su Gaza, non è affatto certo che qualora lo Stato ebraico persista nella sua campagna militare senza sosta a Gaza, l’Iran manterrà le sue promesse. La prospettiva di uno scontro diretto contro Gerusalemme, quindi di un inevitabile confronto regionale con Washington potrebbe valere un dietrofront militare e un’altra giravolta retorica. Il principio di non contraddizione, del resto, difficilmente governa le vicende umane.

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