Ricordiamo Daniele Del Giudice, autore di capolavori assoluti e scomparso a Roma il 2 settembre 2021. Una mente straordinaria, capace di scrivere testi fondamentali.
Quando due anni fa giunse la notizia della sua scomparsa, Daniele Del Giudice aveva già staccato l’ombra da terra da parecchio tempo. Non per sua volontà, ma a causa di una malattia che lo mise in condizione di non poter più raccontare, scrivere, ricordare, rievocare, inventare, registrare. Registrare, sì: e non uso a caso questo termine. Perché è leggendo il suo Taccuino di Ginevra, ristampato in appendice alla nuova edizione di Atlante occidentale, che si comprende come egli fosse un autore che non lasciava nulla che sfuggisse alla memoria.
E questo non per il piacere di catalogare, ma per abbandonarsi totalmente nel racconto. La morte dell’autore de Lo stadio di Wimbledon era temuta da parecchio. Nonostante tutto, è stato un grande dolore, un’assenza della quale fare a meno è sempre più difficile. Perché Del Giudice, a dispetto della sua riservatezza, è uno scrittore irrinunciabile che, una volta conosciuto, non si può fare a meno di ricordare, leggere e rileggere. Il perché proverò a spiegarlo più in là.
Lo scoiattolo della penna
Vorrei, adesso, soffermarmi su un equivoco nel quale in tanti sono incappati. E cioè che Del Giudice appartenesse alla linea degli scrittori cosiddetti “freddi”, quelli ai quali si riconosceva uno stile limpido, elegante, essenziale, molto preciso ma che non si abbandonavano a sentimentalismi. E quindi dalle sue pagine tutto ciò che è passione, che è palpito di vita è tenuto ben distante, come se non appartenesse a un certo modo di fare letteratura. Basterebbe rileggere, con attenzione, Nel museo di Reims per accorgersi di quanto sbagliata sia questa visione. Tuttavia la ristampa in volume per Einaudi, curata da Enzo Rammairone, dei saggi di Del Giudice su alcuni degli scrittori da lui amati e sulla pratica del racconto (Del narrare), aiuterà a comprendere come sia proprio la vita al centro della sua scrittura. Certo, non si tratta di una vita descritta e raccontata come si era soliti fare nell’Ottocento o secondo i canoni di un certo dannunzianesimo. Del Giudice, e lo si comprende scorrendo le sue analisi critiche, predilige per sé il ruolo di autore-testimone: lo stesso che riconosce a Primo Levi. Non per distanziarsi, non per assumere un atteggiamento di razionale freddezza rispetto a personaggi e situazioni, ma proprio per intrattenere con questo materiale narrativo un rapporto ancora più stretto.
Come Calvino fu definito lo scoiattolo della penna, allo stesso modo si può dire che Del Giudice è il pilota aereo della letteratura. Perché vola sopra ciò che racconta. Ariosi sono i suoi periodi. Ariose le sue parole. In un testo di Del narrare, dove stranamente si abbandona a confessioni legate al suo lavoro, Del Giudice si definisce uno scrittore di sintassi più che di lessico, perché “la nostra sintassi è unica per capacità di snodo e di complessità, di accelerazione e di rallentamento, ha una modulabilità straordinaria. La sintassi italiana permette di cambiare velocissimamente registro basandosi solo sulla coniugazione verbale o sulla concordanza di genere tra sostantivi e aggettivi”. In un passo de Lo stadio di Wimbledon, il protagonista a un certo punto afferma che nella scrittura parole e frasi debbano stare in piedi da sole. È un punto d’arrivo al quale si giunge non tanto con la sottrazione – nel senso che non basta solo questa –, ma catturando un ritmo. Del Giudice, per talento naturale affinato col mestiere, dà alla pagina quella precisione, quell’esattezza che non cedono il passo all’approssimazione, riuscendo a non diventare mai freddo come in tanti, sbagliando, lo hanno considerato.
Non pignolo, ma preciso
Ma come possono uscire da uno scrittore razionalistico frasi così? “La precisione. Non la pignoleria, che è un restringimento del campo visivo, né la perfezione che ne è l’allargamento illimitato, ma la precisione… Precisione, adesso che si è alzato e beve un caffè in piedi nella veranda guardando il giorno già formato ma in attesa del sole, sarebbe… dire con esattezza questo tipo di aria, questo tipo di luce: consistenza, densità, rilievo sulla pelle del viso. Si tratterebbe di scegliere tra gli aggettivi quello che indica il giusto grado di umidità e di umore, di temperatura e di temperamento, di lucore e di lucidità; in breve, quello che salda la percezione e il sentimento in una sola radice, comune o almeno in relazione, come l’aria di una persona a quella che respira”.
Relazione, oltre a precisione, è un’altra parola indicativa in Del Giudice. Perché da scrittore di sintassi e non di lessico, le descrizioni di personaggi, luoghi e situazioni non possono trovare spazio. Ma è dal rapporto che un personaggio intrattiene con un altro, il suo atteggiamento rispetto a una circostanza o un ambiente: da qui viene fuori il lato psicologico della sua letteratura. Tutto è alla luce del sole. Chiaro. Bisogna saperlo percepire. Ma come? Noi lettori siamo un po’ come il protagonista de Nel museo di Reims: quasi totalmente ciechi di fronte all’opera d’arte; eppure, nonostante la percepiamo sfocata, non rinunciamo a osservarla in tutti i dettagli che ci vengono riferiti, o da uno scrittore o magari – come nel racconto – da un’accompagnatrice incontrata casualmente e alla cui voce, si voglia o meno, bisogna per forza di cose prestar fede.
Dicevo, all’inizio, che avrei detto perché Del Giudice è, a mio avviso, uno scrittore irrinunciabile. Proprio per quello che ho appena provato a descrivere: perché insegna a saper stare in relazione, col mondo e con gli altri. Esempio non da poco, visti i tempi di solitudine che gli uomini del nuovo millennio si trovano a vivere. E non a caso, Atlante occidentale è una delle più belle storie (è anche infinitamente molto altro) di amicizia mai raccontate prima, la cui conclusione, a dispetto della linea fredda nella quale in molti hanno tentato di costringerlo, è di una meraviglia che solo Daniele Del Giudice sa creare:
“E adesso?”
“Adesso dovrebbe cominciare una storia nuova”.
“E questa?”
“Questa è finita”.
“Finita finita?”
“Finita finita”.
“La scriverà qualcuno?”
“Non so, penso di no. L’importante non era scriverla, l’importante era provarne un sentimento”.