L’illusione di un Natale normale

Cosa significa non avere più una casa? Non poter più dormire sul proprio letto, cenare in cucina dopo una lunga giornata di lavoro o fare l’albero di Natale con la famiglia usando le decorazioni che si hanno da quando si è bambini? Cosa vuol dire perdere tutto da un giorno all’altro? Ce lo siamo mai chiesti? Molti no. Quando hai una casa il problema non te lo poni e soprattutto non puoi capirlo appieno.  Per questo la maggior parte di noi non può comprendere quello che vivono gli abitanti del Centro Italia nel loro settimo Natale senza casa. Perché sì, non hanno più una casa. Gliel’ha portata via il sisma del 2016. Una serie di scosse di terremoto, prima ad agosto, poi ad ottobre, hanno raso al suolo molti territori di Lazio, Marche, Umbria e Abruzzo. Oltre 300 morti. Migliaia gli sfollati. Tutti sanno che è stata una tragedia, ma in pochi percepiscono l’entità del dramma che in questi anni hanno vissuto queste persone.

L'illusione di un Natale normale

Il Natale dei terremotati – Un silenzio irreale

È Natale. A Piedilama, una delle 13 frazioni di Arquata del Tronto, c’è il sole. Illumina il profilo di paese ancora segnato dal terremoto. Più che inverno sembra un caldo autunno. Un cielo terso e le nuvole che scivolano lente sul Monte Vettore. Qui sembra essersi fermato tutto a quel 24 agosto. Macerie che raccontano ancora di quell’estate interrotta. Le rovine di quel che resta di una chiesa, a perenne memoria di un disastro che ha lasciato un segno indelebile. Tangibile quello che ha devastato le strutture. Meno quello che ha distrutto gli animi delle persone. Le Soluzioni abitative di emergenza (Sae), dove vive chi ha deciso di non traferirsi, sono a pochi passi dalle macerie. Davanti ad alcune casette qualche pianta coltivata, un dondolo o delle sedie: segnali del fatto che le persone hanno cercato di render loro quegli spazi. Perché, in fondo, nessuno sa con esattezza quando potrà tornare a casa. Non una macchina che passa, non una persona che passeggia lungo la strada principale. Non c’è nessuno. Un silenzio quasi irreale, rotto, ogni tanto, dal fruscio delle foglie o dal cinguettio di qualche uccello. Un panorama fuori dal tempo se si pensa che mentre nelle città è “corsa ai regali” qui non si muove una mosca. Tutto è fermo. “Non è solo oggi, d’inverno qui è sempre così. Non passa nessuno. I turisti vengono principalmente d’estate. Ma con l’arrivo del freddo no. Qui, complice anche il cambiamento climatico, la neve spesso non c’è e quindi chi vuole andare sulla neve va altrove” spiega Michele Franchi, sindaco di Arquata del Tronto.  

Il Natale dei terremotati – Vittoria: “Lavorare in queste condizioni è impossibile”

Con Michele entro in un bar. È l’unico del paese, se di paese si può parlare dato che non esiste più. Piedilama ora è solo un agglomerato di Sae. Alcune casette hanno qualche lucina natalizia appesa alla finestra. Sono l’unico segno della festa, in un paese che, in fondo, ha poco da festeggiare. Il bar di Vittoria è un piccolo container di 60 metri quadrati. Qui le decorazioni natalizie ci sono: un albero e il presepe, che lei stessa mostra con orgoglio a un cliente che entra. Quando le chiedo “cosa significa l’ennesimo Natale senza casa” sospira e, in silenzio, ci prepara i caffè. Li serve sul bancone e sospira di nuovo. Un sospiro che trasmette sofferenza. Lei e il marito Sergio hanno due figli: Sofia, che ha 10 anni, e Adriano che ne ha 7. “Quando c’è stato il terremoto Adriano aveva poco più di un anno. Non è stato affatto facile affrontare una tragedia simile con un bambino così piccolo, anche perché con il sisma ho perso cognata e nipoti”. Nonostante le difficoltà Sergio e Vittoria hanno deciso di non lasciare la loro terra.  “Io sono cresciuta a Montegallo – dice Vittoria – e vorrei che i miei figli vivessero come me, in mezzo alla natura, in maniera sana.

L'illusione di un Natale normale

Qui per loro è perfetto. Siamo poco più di 20 abitanti, come una grande famiglia. I rapporti sono autentici e genuini”. Vittoria ribadisce di vivere bene a Piedilama, ma le difficoltà non mancano: “A volte – spiega – è difficile fare le cose più banali come comprare il pane o andare all’ufficio postale che è aperto solo tre giorni a settimana”. Il problema più grande però non sono i servizi, ma “l’aumento insostenibile delle bollette” dice mostrandomi le ultime che le sono arrivate. “3mila euro di luce per due mesi, in un locale così piccolo. È più del doppio di quanto pagavo prima. Lavorare in queste condizioni è impossibile! Sei costretto a fare delle scelte: o paghi le bollette o fai la spesa”. Quando le chiedo come vede il suo futuro scuote la testa, non sa bene cosa dire. “Non vorrei andare via da qui, ma inizio ad avere difficoltà a mantenere la famiglia. Con questi prezzi, tra bollette alle stelle e prezzi delle materie prime aumentate accumuli debiti e basta”. Ore e ore sottratte ai figli per tenere il bar aperto nella speranza di poter mettere qualche risparmio da parte. Ma al momento non è così. E aumentano i sospiri. Aumentano i silenzi quando si pronuncia la parola futuro.

Il Natale dei terremotati – Michele: “Il bonus 110% ci ha penalizzati”

Salgo in macchina con Michele e da Piedilama ci spostiamo a Pretare, un’altra piccola frazione di Arquata. Un’altra parte di Italia che non esiste più. “Il 90% delle macerie è stato rimosso” spiega Michele. Ora restano solo immensi spazi vuoti. Un vuoto che fa paura se si pensa che prima li c’erano case, negozi, il ristorante, la piazzetta dove ci si incontrava per fare due chiacchiere, il parchetto dove giocavano i bambini. C’era vita. “D’estate – racconta Michele – prima del terremoto a Pretare c’erano mediamente 1500 persone”. Ora più nessuno. “La stragrande maggioranza delle persone è andata fuori e questo è diventato un posto fantasma. Alle 17, quando arriva la notte, ti viene da piangere”. Ma Michele non piange. E combatte. È addirittura ottimista quando fa il bilancio sulla situazione in cui versa il suo Comune. “Circa 70 case ora sono agibili e 10 famiglie hanno già lasciato le Sae per tornare a casa. Probabilmente, la prossima estate, potranno farlo quasi tutte” spiega. A Pretare infatti, si vedono le prime impalcature.  Le difficoltà però non mancano. “Solo nel Comune di Arquata ci sono più di 100 cantieri aperti, ma in molti manca la mano d’opera. Sono tante le imprese che, per via del bonus 110%, hanno accettato altri lavori e si sono spostate altrove. Tutto ciò ha rallentato la ricostruzione. Questa misura introdotta dal governo – sottolinea il sindaco – ci ha penalizzati”. Ma nonostante le criticità e i ritardi Michele cerca di fare di tutto per far vivere ai suoi cittadini un Natale normale. Un “Natale di ripartenza” come lo definisce lui stesso. Perché lui, come tutta la sua comunità, ha saputo guardare oltre le macerie, continuando a scommettere su un futuro di rinascita.

L'illusione di un Natale normale

“Abbiamo organizzato una festa per anziani e ragazzi e anche quest’anno, l’8 dicembre, abbiamo acceso l’albero in quella che era la piazza di Arquata. Volevamo dare un segnale di speranza, vogliamo tornare a fare quello che facevamo prima. Vogliamo tornare alla normalità”. Ma per farlo, ribadisce, hanno bisogno di sostegno: “Chiediamo di non spegnere riflettori. Non possiamo essere abbandonati. Prima il terremoto, poi la pandemia e ora l’aumento delle bollette. Abbiamo bisogno che si continui a parlare di noi, ma soprattutto che si faccia qualcosa di concreto per una vera ripartenza. Adesso, dopo tempo, la macchina ha ripreso a funzionare. E non possiamo permetterci che si blocchi”. Fondamentale, secondo Michele, incentivare il turismo perché “solo riattivando le strutture recettive possiamo ridare vita al territorio”. Il timore che si vive è non solo quello di essere dimenticati con il passare del tempo, ma di essere derubricati, perché in un Paese fragile come l’Italia c’è sempre il rischio che una nuova emergenza cancelli quella precedente. Se a questo rischio aggiungiamo un impianto eccessivamente burocratico del processo di ricostruzione, che rende difficoltoso il suo avanzamento, si capisce che l’obiettivo di dare alla cosiddetta “civiltà dell’Appennino” un futuro, che sia diverso dal presente e anche da un passato recente contrassegnato da fenomeni di declino economico e demografico, resta molto lontano.

Il Natale dei terremotati – Gino e la sopravvivenza

Anche Pretare, come Piedilama, è deserta. I pochi rimasti sono nella zona Sae, di fronte alla quale c’è un altro container, un po’ più grande di quello di Vittoria. È il ristorante di Gino. Il terremoto ha reso inagibile quello che aveva. E così si è dovuto adattare. Lui e Barbara, la moglie, 4 anni fa hanno riaperto l’attività a Pretare. Ci salutiamo e gli chiedo se starà aperto a Natale. “Non lo so cosa faremo. L’8 dicembre qui era deserto, e questo mi fa pensare che anche il 25 sarà così. Il turismo non c’è. La gente ormai va altrove”. Silenzio. Anche lui non sa cosa aggiungere. Senza dire altro apparecchia il tavolo e prende l’ordine. Il locale è vuoto. Nessuna prenotazione, nessun altro a sedere, oltre a me. Finito il pranzo Gino si siede al mio tavolo. È visibilmente stanco. Del resto, è dura anche per lui e per la moglie Barbara, che lavora in cucina. Gli domando chi glielo fa fare. “Sono un masochista” mi dice ridendo. Un riso amaro di chi vuole ancora combattere. “Economicamente avere un’attività qui non conviene. Lo faccio per sopravvivenza”.

L'illusione di un Natale normale

“Il terremoto, tutti i problemi di salute che ho avuto… Tragedie che però ti danno la carica giusta per combattere. Sono proprio le avversità a renderti forte, a farti capire che bisogna adattarsi. Chi abita in città ha una vita molto più agiata e monotona rispetto a noi gente di montagna. Noi siamo capaci di vivere nel sacrificio, di possedere meno cose e quindi di adattarci alle situazioni peggiori, come il terremoto. Io – prosegue – mi diverto quando devo affrontare nuove sfide. Avere sempre qualcosa da fare dà soddisfazione”. Ad aiutare anche il senso di appartenenza, l’attaccamento al territorio che a Gino sicuro non manca. “Ho vissuto anche a Roma, ma non ci tornerei. Sono 40 anni che vivo qui. La vita in montagna è diversa: ci si conosce tutti. Si vive una vita difficile ma migliore. Quando sei in città e fai l’impiegato hai una quotidianità prestabilita: casa, lavoro, supermercato… ed è sempre così. Sei adagiato a questa routine, non hai stimoli ad affrontare situazioni nuove. In montagna non è così, è tutto più allettante”. Gli chiedo, anche se mi sembra chiaro, se mai volesse tornare in città. Ribadisce di no. “Io ho scelto questa vita. La Sae dove viviamo è sufficiente per le nostre esigenze. La struttura del ristorante non era il massimo, era tutta lamiera, ma poi l’ho sistemata e decorata io”. Infatti non sembra di stare in un container. Sembra un ristorante come gli altri: le tende alle finestre, i quadri alle pareti…L’unica differenza è la clientela. “Oggi sono tutti nei centri commerciali per comprare i regali, qui non viene nessuno” ripete Gino salutandomi con una stretta di mano.

Il Natale dei terremotati – Nella Sae di Vittoria e Sergio

Anche la Sae di Vittoria e Sergio è accogliente. Del resto, tutte le casette sono dignitose. Fuori un po’ di prato e una piccola veranda, dentro un ambiente giorno con angolo cottura, uno o due bagni e da una a tre camere da letto, a seconda dei componenti della famiglia. Entrarci però dà l’impressione di stare in una dimensione provvisoria. Non c’è mai quel tipico accumulo di oggetti che testimoniano una vita intera. C’è il poco che ogni persona ha potuto salvare dalle macerie della sua vita precedente.  “Ho comprato diversi mobili per renderla più vivibile” mi dice Sergio. La loro è una Sae di 80 metri quadri. “Fortunatamente ci è andata bene, alcune famiglie composte da quattro persone come noi vivono in casette molto più piccole. Però certo, non hai comunque tutte le comodità di una casa vera”. E piomba nuovamente il silenzio. Da fuori nessun rumore. “Il silenzio lo apprezzi, ma se soffri ti solitudine qui è la fine. Questo è il periodo più morto perché senza neve e senza estate i turisti non hanno motivo di venire fin qui. All’inizio criticavo i residenti che se ne sono andati, invece ora penso che avevano ragione..”. Arriva Sofia. Sergio interrompe il discorso e insieme alla figlia sistemano l’albero di Natale, nella speranza che sia l’ultimo Natale così.

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