Aborto: non più reato, ma non ancora diritto

Legge 22 maggio 1978, n. 194. “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”. È tutto racchiuso lì, in poco più di 20 articoli che dagli anni ’70 sono terreno di scontro. Un dibattito che, nonostante i passi avanti che la legge ha consentito di fare depenalizzando l’aborto, ancora divide. Un dibattito che con l’insediamento del nuovo governo è tornato al centro della scena politica. Giuridicamente ed eticamente si discute di interruzione volontaria della gravidanza, nota anche come Ivg, regolata appunto dalla legge 194 del 22 maggio 1978. Prima del 1978, dunque, l’interruzione volontaria di gravidanza, in qualsiasi sua forma, era considerata dal codice penale italiano un reato. Ma 44 anni dopo, il pieno accesso all’interruzione volontaria di gravidanza resta ancora da garantire. In nessuna pronuncia della Corte costituzionale si trova l’espressione <diritto di aborto>. Stesso discorso vale per la legge 194. In Italia, dunque, l’interruzione volontaria di gravidanza non è un diritto. È una concessione che viene elargita di volta in volta, di caso in caso. La legge 194 è chiara: l’obiettivo è la tutela della vita “fino dal suo inizio”. Questo significa che spesso le donne che vogliano abortire si imbattono con persone contrarie, che le respingono. Vuol dire essere sottoposte a una pressione psicologica non sempre sostenibile. Vuol dire dover migrare da una regione all’altra. Cosa sta succedendo in Italia?

Le scelte del nuovo governo. Il ddl Gasparri

Durante la recente campagna elettorale, la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, ora premier, ha sempre assicurato di non voler abolire la legge 194, ma di avere intenzione di “applicarla pienamente”, dando alle donne “il diritto di non abortire”. Eppure, è significativo che alla prima seduta del nuovo Senato della Repubblica, Maurizio Gasparri di Forza Italia abbia presentato un disegno di legge “sui diritti del concepito” per riconoscere a livello giuridico il feto, ancora prima che sia nato, considerandolo a tutti gli effetti una persona. Un disegno di legge che ha subito scatenato polemiche e aperto un nuovo fronte di discussione su un argomento delicato come quello dell’aborto. Formalmente non c’è alcun tentativo di modificare la legge 194, ma il disegno di legge proposto il 13 ottobre al Senato trova il modo per rendere di fatto illegittima l’interruzione di gravidanza. Gasparri assicura che l’obiettivo della sua proposta non è l’abolizione della legge 194, quanto più “la sua applicazione”. Quello che il ddl propone di modificare è l’articolo 1 del codice civile che stabilisce come “la capacità giuridica si acquisisce dal momento della nascita. I diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita”. Il senatore di Forza Italia invece vorrebbe che la capacità giuridica venisse riconosciuta sin dal concepimento. Logica conseguenza che, se così fosse, l’interruzione di gravidanza esporrebbe le donne all’ipotesi di reato di omicidio perché uno degli effetti diretti di questo ddl, se venisse approvato, sarebbe di fatto quello di equiparare il feto a una persona, e l’interruzione volontaria di gravidanza dunque a un omicidio volontario. La proposta ora dovrà essere assegnata a una Commissione. Nel frattempo non mancano le polemiche anche per le iniziative prese dalle singole regioni.

Aborto: non più reato, ma non ancora diritto

Cosa succede in alcune nelle regioni. Dal caso Umbria all’Abruzzo

Nel 2020 in Umbria è stata abrogata una delibera che permetteva di praticare l’aborto farmacologico in day hospital, introducendo l’obbligo al ricovero per tre giorni per assumere la pillola RU486. Tutto questo mentre la Società italiana di ginecologia e ostetricia prescrive il ricorso all’aborto farmacologico per evitare di intasare gli ospedali e le sale operatorie durante la pandemia: dopo diverse proteste, ad agosto il Ministero della salute ha aggiornato le linee guida nazionali, affermando che l’Ivg con i farmaci può essere effettuata in strutture ambulatoriali e consultori pubblici, oltre che in ospedale in ricovero ordinario o in day hospital. Nello stesso anno il Piemonte ha diramato una circolare che vietava di accedere alla pillola abortiva RU486 nei consultori, andando contro alle linee guida del ministero. A fine gennaio 2021 la regione Marche, ha deciso di opporsi all’aborto farmacologico e alle nuove linee di indirizzo ministeriali. Scelta simile l’ha fatta poco dopo l’Abruzzo inviando una circolare alle Aziende sanitarie locali “affinché l’interruzione farmacologica di gravidanza sia effettuata preferibilmente in ambito ospedaliero e non presso i consultori familiari”.

Cosa stabilisce esattamente la legge 194

Discussioni e scelte politiche che però non aiutano a capire come sia veramente gestita l’interruzione volontaria di gravidanza del nostro Paese. Cosa può fare e non può fare una donna che decide di abortire?  Grazie alla legge 194 oggi può richiedere l’interruzione volontaria di gravidanza ma a determinate condizioni ed entro certi tempi. Ovvero entro i primi 90 giorni di gestazione e per motivi di salute, economici, sociali o familiari. Questo perché la legge parte dall’affermazione che l’aborto non è, né deve essere, un metodo per la pianificazione o il controllo delle nascite. Oltre tale limite gli aborti sono consentiti solo nei casi in cui il personale medico rilevi gravi anomalie genetiche e/o malformazioni del feto, o gravi patologie materne a causa delle quali la gravidanza potrebbe mettere in pericolo la vita della donna.  In entrambi i casi, lo stato patologico deve essere accertato e documentato da un medico del servizio ostetrico e ginecologico che pratica l’intervento. La richiesta di Ivg, come prevede l’art 12 della legge, è fatta dalla donna. Nel caso delle minorenni, è necessario l’assenso da parte di chi esercita la potestà o la tutela. Tuttavia, se entro i primi 90 giorni chi esercita la potestà o la tutela è difficilmente consultabile o si rifiuta di dare l’assenso, è possibile ricorrere al giudice tutelare. La legge tutela ancora le donne garantendo loro l’anonimato e prevede anche il diritto del medico all’obiezione di coscienza tranne nel caso in cui la donna si trovi in pericolo di vita.

Aborto: non più reato, ma non ancora diritto

Il metodo chirurgico e quello farmacologico

Esistono due modalità sostanzialmente diverse per l’esecuzione di una interruzione volontaria di gravidanza: quella chirurgica, eseguita in anestesia generale o locale in le strutture pubbliche del Servizio sanitario nazionale e le strutture private convenzionate e autorizzate dalle Regioni, e quella farmacologica, consentita dal 2009 grazie all’immissione in commercio del mifepristone, meglio conosciuto col nome di RU486. L’aborto farmacologico è dunque una procedura medica, distinta in più fasi, che si basa sull’assunzione di almeno due principi attivi diversi, il mifepristone e una prostaglandina, a distanza di 48 ore l’uno dall’altro. Con la circolare di aggiornamento delle linee di indirizzo pubblicate dal Ministero della Salute il 12 agosto 2020, sono cambiate le modalità di esecuzione dell’aborto farmacologico che adesso può essere effettuato fino a 63 giorni pari a 9 settimane compiute di età gestazionale (prima erano 7), in day hospital (prima era prevista un’ospedalizzazione di tre giorni) e anche presso strutture ambulatoriali pubbliche adeguatamente attrezzate, funzionalmente collegate all’ospedale e autorizzate dalle Regioni, nonché consultori. Per superare le limitazioni all’uso dell’associazione mifepristone e misoprostolo fino al 63° giorno di amenorrea anche in sede extra-ospedaliera, l’AIFA ha rilasciato una nuova determina – pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 29 settembre 2022 – che inserisce nell’elenco dei medicinali erogabili a totale carico del Servizio sanitario nazionale la combinazione di mifepristone e di misoprostolo.

Tutti i dati del ministero della Salute

In base alla relazione presentata dal Ministero della Salute al Parlamento, in Italia nel 2020 ci sono state 66.413 interruzioni volontarie di gravidanza, il 9,3% in meno rispetto al 2019. Un dato in continua diminuzione dal 1983, anno in cui si è osservato il più alto numero di Ivg in Italia: 234.801 casi. Tra le ragioni del calo costante degli ultimi anni, la relazione ministeriale ipotizza anche in parte “l’aumento delle vendite dei contraccettivi di emergenza a seguito delle tre determine Aifa che hanno eliminato l’obbligo di prescrizione medica per l’Ulipristal acetato, noto come “pillola dei 5 giorni dopo” e per il Levonorgestrel, noto come “pillola del giorno dopo”. Il sistema di sorveglianza epidemiologica delle Ivg, coordinato dall’Istituto superiore di sanità in collaborazione con l’ISTAT e le Regioni e Province Autonome, permette di monitorare l’andamento dell’abortività volontaria in Italia descrivendo anche il ricorso all’aborto farmacologico.

Aborto: non più reato, ma non ancora diritto

Dal 2009 è stato rilevato un progressivo incremento del ricorso al metodo farmacologico, passata dallo 0,7% al 31,9% del totale delle interruzioni di gravidanza notificate nel 2020. In Europa, dove l’aborto farmacologico è stato legalizzato molti anni prima che in Italia, le donne lo preferiscono a quello chirurgico. In Francia e Inghilterra le interruzioni di gravidanza farmacologiche sono oltre il 70% del totale e nei Paesi del Nord Europa superano il 90%. Dal 2014, tutte le Regioni italiane offrono l’aborto farmacologico con forte variabilità, sia per quanto riguarda il numero di interventi che per il numero di strutture. Nel 2020 sono stati osservati valori percentuali più elevati in Liguria (54,8%), Basilicata (52,5%), Piemonte (51,6%), Emilia-Romagna (50,8%), PA di Trento (45,8%), Toscana (44,8%), Calabria (41,2%) e Lazio (40,7%). Nello stesso anno, solo le Regioni Toscana e Lazio avevano avviato l’offerta dell’Ivg farmacologica in sedi non ospedaliere.

La questione obiettori

Le interruzioni di gravidanza sono dunque in calo costante. Ma resta il problema dell’altissima percentuale dei medici obiettori di coscienza. Così per le donne questa scelta sofferta significa spesso cambiare regione. In Italia la riduzione dell’aborto chirurgico a favore di quello farmacologico infatti potrebbe contenere anche le criticità legate al fenomeno dell’obiezione di coscienza.  I dati del 2020, benché in lieve diminuzione, confermano un’alta percentuale di obiettori, con ampie variazioni regionali: 64,6% dei ginecologi, 44,6% degli anestesisti e 36,2% del personale non medico. Secondo la relazione contenente i dati definitivi del 2020, il 63,8% delle strutture con reparto di ostetricia e/o ginecologia (357/560) in Italia ha effettuato un aborto. Risultano disponibili 2,9 punti Ivg ogni 100.000 donne in età fertile.

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