La cosa peggiore che si possa dire di un film è che sia sostanzialmente inutile, che non stimoli riflessioni, che non porti divertimento e nemmeno riesca a provocare. Babylon è tutto ciò e probabilmente addirittura un passo oltre, perché evidentemente sostenuto e attraversato da ambizioni enormi, dalle quali, però, rimane inevitabilmente sepolto. Il suo autore è Damien Chazelle, ed è un’aggravante non da poco, perché parliamo di uno che il cinema lo sa fare. Il senso della misura, forse, non è mai stato tra le sue caratteristiche più evidenti, ma certo si tratta di un regista che ha al suo attivo un bell’esordio indie come Guy and Madeline on a Park Bench (2009), un film furbetto nel suo essere “da Sundance”, ma certamente ben congegnato, come Whiplash (2014), il grande e meritato successo di La La Land (2016) e un film robusto e solido come First Man (2018). Questa volta, aspirazioni di grandezza e gigantismo vanno a briglia sciolta, senza controllo, cosa che di per sé non sarebbe un male, se si pensa a quanti e quali film il cinema americano ha prodotto proprio sull’onda di una smania di grandezza quasi prometeica; il punto dolente è che queste ambizioni fuori scala si aggrappano a un’idea di fondo che è vecchia come il cinema, cioè raccontarne proprio le sfrenate manie di grandezza nell’epoca della nascita degli studios, descrivere ancora una volta la mitica Hollywood Babilonia, quella Sodoma e Gomorra senza freni e senza morale che era lo show business negli anni ’20 e degli anni ’30, ipocritamente nascosta dal codice Hays, bagnando il tutto con quel pizzico di malinconia che solo il passaggio dal muto al sonoro può garantire. Tutto già visto, spesso e molto meglio, qui però messo in una prospettiva priva di traiettorie originali, in cui è difficile stupirsi, meravigliarsi o sentirsi in qualche modo provocati, molto facile invece sentirsi annoiati e – cosa forse più grave – con la sensazione che quel cinema, quello della prima Hollywood classica, Chazelle non lo conosca o perlomeno non gli interessi davvero. Anche scritto dal regista, “Babylon” ha pure una trama, sebbene si strutturi più come una tarantolata successione di scenografie e coreografie colossali, e segue tre personaggi.
Due sono sognatori che sperano in modo diverso di scalare il successo, Manuel “Manny” Torres (Diego Calva) – che desidera ardentemente essere nel mondo del cinema a qualsiasi titolo, dallo spalare merda alle sfavillanti feste – e Nellie LaRoy (Robbie), che vuole diventare una star. Poi c’è Jack Conrad (Brad Pitt), che una star lo è già, idolo MGM con tanto di baffi accattivanti e passione per gli alcolici, attore che l’uscita del Cantante di Jazz (1927) pone inevitabilmente sul viale del tramonto. Il terzetto rappresenta tre lati dell’industria: una star potente, una starlet in rampa di lancio e un dirigente emergente. L’arco cronologico va dal passaggio al sonoro, appunto, fino a una coda nel 1952, e più precisamente va da un elefante che caga in modo esplosivo direttamente sullo schermo, coprendoci letteralmente di escrementi e liquami vari, fino – passando attraverso vari generi di fluidi corporei – all’uscita in sala di Singin’ in the Rain, che proprio quel passaggio, in modo sublime racconta. Intorno ai tre principali, c’è una serie di personaggi minori, come l’editorialista di gossip Elinor St John, interpretata da Jean Smart, o il regista tedesco Otto von Strassberger, caratterizzato da Spike Jonze, o il mafioso James McKay interpretato da Tobey Maguire, figure le cui performance vanno decisamente nella direzione dalla caricatura. Per tre lunghe ore siamo travolti da questo martellante stillicidio di eccessi, in un film che non ha mai cambi di ritmo, mai chiaroscuri, che è sempre tutto troppo e che anche la colonna sonora onnipresente di Justin Hurwitz, la sontuosa scenografia di Florencia Martin e la fotografia di Linus Sandgren contribuiscono a spingere oltre il limite della sopportazione.
Un gigante con le ossa di un nano
Nonostante la frenesia, nonostante la mobilità della macchina da presa, i numerosi e vorticosi piani sequenza, il film è stranamente statico. Le prime due ore, in particolare, funzionali a restituire il clima di eccesso che Chazelle vorrebbe raccontare, per via dell’assenza di qualsiasi modulazione, risultano alla fine snervanti e quasi punitive. Inoltre, soprattutto nella rappresentazione degli eccessi, dall’alcol e della droga, rimane inevitabilmente qualcosa di ingenuo, greve e quasi adolescenziale. Nessun personaggio risulta mai davvero interessante, il racconto di queste feste sfrenate non si fa mai discorso e raramente si intuisce dove voglia andare a parare. La cosa più grave, però, è che mai, nemmeno per un secondo, Babylon riesce a cogliere la magia del cinema delle origini, del cinema muto nel momento apicale della sua storia. Sebbene i tre personaggi principali del film parlino del cinema con un fervore quasi religioso, il contraltare dell’eccesso, e cioè l’incanto romantico dell’industria agli albori, rimane un frustrante “vorrei ma non posso”. Il passaggio al suono sincronizzato, che è stato inizialmente catastrofico per l’industria, è abbozzato in modo superficiale, anche perché Chazelle non è molto interessato all’accuratezza storica. La sua “controstoria” di Hollywood, che si concentra solo sugli eccessi dell’epoca, e si crogiola nel ribadire una banalità, cioè che dietro all’incanto e alla magia c’erano sfruttamento e depravazione. Era davvero necessario un simile dispendio di risorse per ribadire una tale ovvietà?
Un’occasione mancata
Ci sono momenti in Babylon in cui risulta evidente che cosa sarebbe potuto succedere se Chazelle avesse prestato più attenzione ai film dell’epoca, al loro piacere e alla loro bellezza, e non solo alle loro orrende vicende nascoste. Per capire che cosa possa produrre un approccio “revisionista” di spessore, basterebbe guardare la serie Netflix di Ryan Murphy, Hollywood, che riscrive provocatoriamente il passato, come una sorta di ucronia in cui tutti coloro che l’industria, nel suo ipocrita e sottile razzismo, ha escluso. Invece, anche quando compaiono figure storiche di Hollywood, come Irving Thalberg (Max Minghella), il leggendario produttore M.G.M. che ha massacrato Greed, il capolavoro di Erich von Stroheim del 1924, ciò che manca è l’unica cosa che ha definito l’era del muto al suo massimo e di cui Chazelle rimane incredibilmente ignaro: la sua arte. C’è una considerazione positiva, tuttavia, e cioè che, ci sono ancora grandi studi di Hollywood, come la Paramount, in grado di spendere cifre così imponenti per produrre opere che non siano parti di franchise di fantascienza o supereroi. Questo è un elemento confortante. Nonostante tutte le criticità che il mondo del cinema sta affrontando, la Paramount quest’anno ha investito su uno dei grandi successi del botteghino, Top Gun: Maverick, e ora su Babylon, che è un flop e un progetto decisamente sbagliato, ma che dimostra quantomeno che, forse, la fine non è così vicina.