Si chiamano Omar e Sara, sono due giovani ragazzi palestinesi e, in questi giorni di guerra, hanno molte più cose in comune. La rabbia, il dolore e la paura sono alcune di queste. Il 7 ottobre 2023 sarà un’altra delle già tante date che marcano l’annosa questione israelo-palestinese, un conflitto cronico mai risolto, nel quale il diritto internazionale e il diritto umanitario sono stati più e più volte violati. L’attacco compiuto da Hamas in Israele, la cieca e brutale risposta del governo di Netanyahu sulla popolazione palestinese che vive nella striscia di Gaza, una guerra che uccide e ferisce i civili. A fronte di continue analisi politiche e militari, di notizie scritte e diffuse da media di Paesi terzi, di una comunità internazionale che fa di questo conflitto un dado sul quale puntare la scommessa più alta, dare voce a chi realmente ha vissuto e vive tuttora in un costante senso di pericolo per la propria vita è forse il modo più intellettualmente onesto per provare a capire quello che sta accadendo. Saranno Omar e Sara a raccontarsi, a descrivere le loro emozioni, a diffondere quei dettagli fondamentali che fanno la differenza tra chi sta dentro e chi sta fuori Gaza.
Le voci di Gaza che raccontano la guerra – La storia di Omar
“Mi chiamo Omar, ho 33 anni e sono nato, cresciuto e vivo ancora a Gaza City. Mio nonno è uno dei tanti rifugiati che, nel 1948, sono stati costretti dall’esercito israeliano a lasciare le loro case. Era della città di Al Mahzaqa. Fu l’inizio della ‘Nakba’, e la mia famiglia rimase a vivere a Gaza”. Nel 2011 Omar si è laureato alla facoltà di Commercio all’Università di Gaza, sarebbe dovuto diventare un contabile ma la sua passione per la fotografia ha scelto per lui. “Ho imparato a fotografare da solo, senza alcun aiuto e ho iniziato a lavorare come professionista dodici anni fa. Sono riuscito a vincere premi e a pubblicare le mie foto su giornali locali e internazionali”. Racconta Omar, che oggi è sposato e ha due figli, uno di quattro anni e il secondo di soli tre mesi. Parlare con lui in giorni di guerra non è facile, l’elettricità va e viene, i bombardamenti proseguono a raffica, le corse nei rifugi, i beni essenziali che scarseggiano. Tutto questo rende le distanze ancora più grandi. Alla fine Omar riesce a trovare il tempo e il modo per raccontare la sua vita a Gaza, per far conoscere da dentro la realtà delle cose, del prima e del dopo 7 ottobre.
Le voci di Gaza che raccontano la guerra – Come si vive a Gaza City
“La mia vita e quella di tutti i cittadini di Gaza è dura da 16 anni, da quando siamo sotto l’assedio israeliano che non consente a nessuno di entrare o uscire dalla Striscia senza un loro permesso ufficiale. Ho conosciuto persone che, in questi anni, hanno perso la vita perché non sono potute uscire per cercare le medicine e per potersi curare. Non c’è lavoro, non c’è futuro per la gente qui, l’assedio ha colpito tutti gli aspetti della vita, le restrizioni sul cibo, sull’acqua, sulle medicine e sul carburante c’erano già da prima. Avevamo a disposizione l’elettricità solo 4 o al massimo 6 ore al giorno. A Gaza stavamo già soffrendo, finora ho vissuto sei guerre qui e tutte sono state difficili, ma questa guerra è la più tragica, la peggiore e la più immorale”. Lo scorso 13 ottobre le autorità israeliane hanno dato ordine di evacuazione a tutti i cittadini di Gaza City spingendoli a recarsi verso sud, così da avere campo libero per un’azione militare di terra. A distanza di quasi una settimana, però, l’invasione di terra non è ancora avvenuta e neppure il sud della Striscia risulta essere un luogo sicuro. I bombardamenti israeliani sono arrivati anche lì, i palazzi distrutti ci sono anche lì, i morti e i feriti ci sono anche lì. “Insieme alla mia famiglia ci siamo trasferiti a casa dei miei suoceri ma siamo sempre a Gaza, noi non andremo a sud. Nessuna ordinanza ha più valore oramai, nessun luogo è sicuro qui”.
Le voci di Gaza che raccontano la guerra – L’allarme delle Nazioni Unite: nessun posto è sicuro a Gaza
Dall’inizio del conflitto esploso lo scorso 7 ottobre fino al 19 ottobre, secondo il Ministero della Sanità di Gaza, sono morte 3.785 persone, tra cui 1.524 bambini, almeno 1.000 donne e 11 giornalisti. Le Nazioni Unite denunciano che la metà dei palestinesi a Gaza non ha più una casa. Il numero degli sfollati interni è di un milione, di cui più di 300mila si trovano nelle scuole adibite a rifugio dal UNRWA – Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi. L’inasprimento del conflitto e conseguente fuga delle persone verso sud sta causando un sovraffollamento degli spazi nei rifugi, come denunciano le Nazioni Unite. Le scorte di cibo sono limitate, così come i prodotti per l’igiene e l’acqua potabile. La crisi idrica continua a causa dell’impossibilità di far arrivare il carburante necessario per far funzionare le pompe dell’acqua e gli impianti di desalinizzazione. La situazione è ulteriormente aggravata dalla scarsissima disponibilità di acqua sul mercato. I rischi per la salute, in assenza di acqua potabile e le precarie condizioni igienico-sanitarie sono in aumento, comprese le malattie trasmesse dall’acqua inquinata, spesso unica fonte di idratazione, di sopravvivenza. Solo otto (su 22) centri sanitari dell’UNRWA in tre aree diverse (Rafah, Khan Younis e Middle Areas) sono stati in grado di curare le persone con una prima assistenza sanitaria, molti dei pazienti, però, sono in condizioni gravi e hanno urgente bisogno di cure specifiche o di interventi operatori.
Le voci di Gaza che raccontano la guerra – La paura, un sentimento costante
“Provo paura, ho tanta paura. Ho paura per i miei figli, per mia moglie, per mio padre e mia madre, per i miei fratelli, per i miei amici, per i miei cari. Ho paura della perdita. Ho paura di morire sotto le macerie e che nessuno possa seppellirmi come si deve. Ho paura di perdere la mia casa in cui ho visto nascere la mia famiglia e costruito molti dei miei sogni. Io e mia moglie l’abbiamo arredata insieme, è la casa dei nostri figli, tutti i ricordi più belli sono custoditi lì”. Queste sono le parole di Omar alla domanda su quale sia il sentimento che prevale in lui. Poi prosegue nel raccontarsi, vuole descrivere quello che vede, che lo circonda; un contesto umanitario agghiacciante. “Intere famiglie sono state spazzate via a Gaza, Israele sta commettendo crimini di guerra ogni ora, tutto viene preso di mira: civili, bambini, case, giornalisti, personale medico e ambulanze, ospedali, scuole, moschee, chiese. Ci hanno privato dell’acqua, del cibo, delle medicine. Stiamo morendo in diretta, sotto gli occhi di tutti”.
Le voci di Gaza che raccontano la guerra – La storia di Sara
Sara ha 29 anni, è palestinese “di Gaza” come tiene a precisare lei. Nata a Berlino nel 1994, ha fatto ritorno a Gaza due anni dopo; “dopo la firma degli accordi di Oslo, io e la mia famiglia pensavamo fosse arrivato il momento di tornare a casa nostra”, racconta. Era il 13 settembre 1993 quando si tenne a Washington, presso la Casa Bianca, la cerimonia ufficiale di ratifica dell’intesa che, dopo mesi di intensi negoziati segreti, era stata raggiunta a Oslo, in Norvegia, il 20 agosto dello stesso anno. Quell’accordo, che prevedeva la nascita del concetto di ‘due Stati, due Popoli’, è rimasto, di fatto, un elenco di parole stese su carta. Il conflitto israelo-palestinese non si spense neppure in quell’occasione. Le ostilità, le violenze, l’allargamento dello Stato di Israele a danno della popolazione palestinese, tutto questo è proseguito negli anni avvenire, il numero delle vittime e dei feriti nei territori occupati palestinesi e in Israele è cresciuto per ambo le parti.
Le voci di Gaza che raccontano la guerra – È crisi umanitaria
Secondo l’ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (OCHA), da dicembre del 2008 – data nella quale Israele lanciò un’offensiva su Gaza in risposta al lancio di alcuni razzi sul suo territorio da parte di miliziani – a febbraio 2023, i morti sono stati 6.226 tra i palestinesi e 289 tra gli israeliani, i feriti hanno raggiunto la cifra di 144.963 per la popolazione palestinese e 6.118 per quella israeliana. A Gaza da giorni manca l’acqua, manca il cibo, mancano le medicine, manca l’elettricità. Il governo israeliano ha imposto il blocco di ogni bene primario a una popolazione già sfinita. Il 64% dei palestinesi è disoccupato, il 40% ha un’età inferiore ai 14 anni, l’età media è di 18 anni. “Ho vissuto a Gaza fino al quasi completamento dei miei studi universitari”, racconta Sara, “poi nel 2018 mi sono trasferita in Italia, per concludere l’ultima parte del mio percorso di studi all’Università di Siena, mi sono laureata in Scienze Politiche e Internazionali”. Sara vive a Milano con il marito, un matrimonio celebrato lo scorso agosto, quella è stata l’ultima volta che ha visto la sua famiglia. Oggi sua madre, suo padre, le sue tre sorelle, i sui tre fratelli e i quattro nipoti si trovano tutti a Gaza, sotto i bombardamenti quotidiani che dal 7 ottobre stanno radendo al suolo quel lembo di terra di soli 360 chilometri quadrati, e nel quale vivono circa 2 milioni e 100mila abitanti. “Provo a chiamarli ogni giorno, più volte al giorno. La paura di non ricevere risposta, di non sentire le loro voci è una costante che non mi lascia mai. Non riesco neppure a uscire di casa, nonostante io mi trovi a Milano e loro lì, nel nostro quartiere di Tal Al-hawa Al-Sinaa Street. Esco solo per manifestare per la mia gente, per raccontare e far aprire gli occhi su quello che succede lì”. La famiglia di Sara vive da quasi due settimane in un unico appartamento. Si sono accampati nel salone di casa, al primo piano; “Hanno deciso di restare, di non fuggire verso sud come chiesto dalle autorità israeliane. Mio padre mi ha detto: ‘Se dobbiamo morire, moriremo insieme nella nostra casa’”.
Le voci di Gaza che raccontano la guerra – Il valico di Rafah verso l’Egitto
In questi anni, Sara è tornata diverse volte nella sua casa a Gaza. Racconta quanto sia complesso raggiungere la sua terra dall’Europa, un viaggio che richiede almeno due giorni di tempo. “Prendevo sempre un volo per l’Egitto, poi da lì un pullman che poteva contenere al massimo quindici persone e impiegava circa 24 ore per arrivare al confine con Gaza, entrando dal valico di Rafah”. Proprio dal valico di Rafah, più volte attraversato da Sara e che dall’inizio del conflitto in atto è rimasto chiuso, sono finalmente passati i primi camion contenenti aiuti umanitari, l’OMS – Organizzazione Mondiale della Sanità – parla di 20 camion arrivati per la popolazione palestinese di Gaza. Questo, perlomeno, è stato annunciato dal Presidente americano Biden dopo un colloquio con il suo omologo egiziano Abdel Fattah al-Sisi, lo stesso che più volte, in questi giorni, ha ribadito la non volontà e impossibilità dell’Egitto ad accogliere i palestinesi in fuga. “Stamattina ho sentito mio papà, mi ha detto che continuano a non dormire. I bombardamenti iniziano alle sette di sera e proseguono fino alle sette del mattino. Stanno razionando l’acqua per fare qualsiasi cosa: lavarsi, cucinare, bere. Vanno a prenderla nelle moschee o se la passano tra vicini. Questa è Gaza, una grande comunità dove tutti aiutano tutti, questo è ciò che ha sempre spaventato il governo di Israele. La nostra forza è questo. Resistere”.
Le voci di Gaza che raccontano la guerra – Le violenze in aumento in Cisgiordania
In questo contesto di guerra, è doveroso osservare anche ciò che sta accadendo fuori Gaza, all’interno dei territori occupati in Cisgiordania. I morti si contano anche lì, così come l’aumento delle proteste agli attacchi israeliani su Gaza e le violenze a danno della popolazione civile palestinese residente nella West Bank. “La vita dei palestinesi in Cisgiordania è scandita da anni dai controlli nei checkpoint israeliani, sono costantemente sotto controllo, anche sui social. Ovunque”, dice Sara. Al 20 di ottobre, i palestinesi uccisi dalle truppe israeliane o dai coloni sono almeno 75, come riporta il Ministero della Sanità di Gaza. Il rischio di un’escalation sul fronte della Cisgiordania e, dunque, di un allargamento del conflitto, appare sempre più come una possibile ipotesi. La violenza rappresenta una sfida sia per Israele che per l’Autorità Palestinese (AP), l’unico organo di governo palestinese riconosciuto a livello internazionale, che ha sede a Ramallah, Cisgiordania. L’agenzia di stampa Reuters, sempre in data 20 ottobre, riporta una dichiarazione del portavoce militare israeliano Jonathan Conricus nella quale si accusa Hamas di voler “inglobare Israele in una guerra su due o tre fronti”, compreso il confine libanese e la Cisgiordania. “La minaccia è elevata”, ha dichiarato. “Mi sento come un genitore che ha paura che possa accadere qualcosa al figlio che si trova fuori casa”, racconta Sara, “questo è ciò che provo ogni giorno pensando alla mia famiglia, ho perso già i contatti con tanti dei miei amici e amiche, non ho idea di come stiano, non so neppure se sono ancora vivi. A Gaza c’è bisogno di libertà, siamo una terra libera ma occupata. Un paradosso che non ha fine. La comunità internazionale si sta accorgendo di noi solo dal 7 ottobre? In che direzione stavano guardando nei 75 anni precedenti?”. Anche Omar si rivolge alla comunità internazionale, vuole lanciare un appello a tutti i Paesi che ne fanno parte: “Guardate verso di noi, prendete una decisione che ponga fine a questo massacro di civili. Vogliamo solo vivere nella nostra terra in sicurezza, come il resto dei Paesi del mondo. Voglio che i miei figli crescano normalmente, come il resto dei bambini del mondo. Voglio dire alle autorità statali del mondo: fate le vostre ricerche. La popolazione civile di Gaza sta andando incontro alla sua fine per mano di Israele. Amiamo la vita, abbiamo sogni e speranze, amiamo i nostri figli e cerchiamo un futuro dignitoso per loro”. Sara decide di concludere il suo racconto con un’immagine della sua città, quella che più ha impressa nella mente: a Gaza si vede il mare.
(foto di Omar El Qatta)