«Ho avuto la fortuna di vedere posti bellissimi, con pochi segni di passaggio umano. E ho sempre cercato di lasciarli come li ho trovati, preservarli per chi verrà dopo». A parlare è il varesino Matteo Della Bordella, classe 1984, uno dei più amati alpinisti e arrampicatori italiani al mondo, reduce dall’apertura di una nuova via sulla Marmolada, che presto finirà anche in televisione. Un esploratore d’altri tempi, che opera “by fair means” (“solo con mezzi leali”), rinunciando a tecnologie che faciliterebbero le sue imprese ma che lo priverebbero di un contatto genuino con la montagna, di un «confronto ad armi pari», “leale” appunto. Quella montagna che all’età di dodici anni non amava molto ma che poi, salita dopo salita al fianco di papà Fabio, è finita per diventare indispensabile. Da quel momento, vie aperte in Groenlandia, Messico, Wendenstöcke, Svizzera, Terra di Baffin e Pakistan, sempre in punta di piedi, rispettando quei giganti e facendosi, a sua volta, rispettare. L’impegno per la salvaguardia ambientale è parte integrante del modo di scalare di Della Bordella, che sempre più spesso, nelle sue avventure in giro per il mondo, vede con i suoi occhi gli effetti devastanti del cambiamento climatico. Tanto da decidere di fare qualcosa.
So che sei appena tornato dalla Marmolada. Come è andata?
«Siamo stati su due giorni, abbiamo iniziato ad aprire una nuova via, sulla quale successivamente faranno un film per Sky. Ci hanno già fatto un bel po’ di riprese, poi il grosso avverrà l’anno prossimo perché adesso lì finisce la stagione, visto che si scala bene d’estate. Comunque, è stato molto bello».
Come hai vissuto la tragedia del 3 luglio scorso?
«Quando è successo ero in Perù e in spedizione non avevamo contatti con l’Italia, se non tramite messaggi. Ci hanno avvisato dell’accaduto e abbiamo subito capito che era una cosa grossa perché altrimenti non ci avrebbero neanche avvertito, vista la situazione in cui eravamo. Ho capito bene cos’era successo quando sono tornato i primi d’agosto, e purtroppo devo dire che nonostante si sia trattato di una tragedia, non mi ha granché stupito: ormai sono sempre più frequenti gli eventi di questo tipo e certe montagne che prima scalavi in estate quando faceva caldo adesso vanno un po’ riconsiderate perché sono diventate molto più pericolose. È un gran dolore perché hanno perso la vita un sacco di persone, ma avendo già assistito a crolli in altre parti del mondo non posso dirmi stupito. Purtroppo, il dato di fatto è che se ne verificheranno altri ovunque, la speranza è che non coinvolgano vittime. Ormai questo processo si è innescato e per i prossimi dieci anni o giù di lì si vedranno effetti catastrofici. Andando avanti e cambiando alcuni comportamenti, si spera che si possa invertire un po’ la tendenza, ma parliamo in ogni caso di tempi molto lunghi».
Cos’è “Climb&Clean”? Da dove nasce?
«Il progetto è nato ormai quasi due anni fa, nell’aprile 2021, dall’iniziativa di Massimo Faletti, guida alpina di Trento nonché mio amico. Negli anni precedenti, era già stato impegnato in iniziative analoghe, poi mi ha lanciato la proposta di fare qualcosa di un po’ più strutturato, di dare un aiuto concreto alla natura e all’ambiente, con particolare riguardo al tema dei rifiuti e della pulizia dei luoghi dove si va ad arrampicare. A me è subito piaciuta perché dopo tanti anni passati a scalare, durante i quali ho avuto la possibilità di vedere posti meravigliosi e incontaminati, mi piaceva l’idea di provare a restituire qualcosa, sia in modo concreto (quindi sporcandomi le mani) sia a livello di messaggio da dare alle persone, nella speranza che ognuno faccia qualcosa: sono piccole gocce nell’oceano, ma tutti insieme magari riusciamo a innescare un cambiamento. Appena partiti con il progetto, ci siamo dedicati alle falesie, quindi non alle alte montagne o alle vette difficili da raggiungere: sappiamo che anche lì c’è spazzatura, ma in questo modo avremmo potuto coinvolgere più gente, visto che si tratta di posti più accessibili, volevamo proprio unire le persone attorno a un obiettivo comune. L’iniziativa prevedeva di partire dal Nord Italia e man mano scendere verso Sud, individuando nel nostro viaggio alcune località che necessitavano di un intervento di pulizia, questo perché, come accennavo, ci piaceva il fatto di unire l’Italia sotto questa problematica e far vedere che riguarda tutti noi in qualunque luogo ci troviamo. Il primo anno siamo stati impegnati due settimane, siamo partiti da Trento e siamo arrivati in Sicilia, mentre il secondo siamo stati impegnati sempre due settimane e siamo partiti da Varese perché io sono nato e cresciuto lì, mi piaceva cominciare da casa nostra; siamo arrivati anche in Campania. Riproporremo il progetto nella primavera del 2023».
In quanti vi hanno seguito in questa iniziativa?
«Tantissime persone, sia nella prima che nella seconda edizione. Nel 2021 abbiamo fatto più fatica perché eravamo ancora nel pieno dell’emergenza sanitaria, però succedeva che molti ci taggavano sui social dopo aver pulito determinate zone. Quest’anno, invece, c’è stata per forza di cose molta più partecipazione: a Varese, per esempio, mi ha fatto molto piacere vedere che anche tanti miei amici o gente che non vedevo da tempo, con cui avevo iniziato a scalare, venivano per prender parte al progetto. Stesso discorso quando siamo andati a Pietrasecca e a Trentinara. Si è creata una bellissima comunità intorno a Climb&Clean, addirittura molti sono andati avanti con i lavori anche nei mesi successivi. Posso dire quindi che il riscontro è stato pazzesco, a partire proprio delle comunità locali».
Prevedete un’evoluzione di Climb&Clean?
«Vorremmo trasformarlo nel lungo periodo in un movimento, anche se non è facile. L’obiettivo è quello di trasmettere la possibilità di un cambiamento nelle abitudini, la diffusione di certe pratiche. Preciso che sono e siamo consapevoli che un cambio di passo simile non si innesca dall’oggi al domani, ci vuole tempo, però l’idea di rendere il progetto un movimento mira a una sensibilizzazione generale verso queste tematiche, cosicché tra qualche anno una persona che magari neanche scala ma ha sentito parlare dell’iniziativa possa andare in un posto, notare la spazzatura e semplicemente raccoglierla in modo spontaneo, senza bisogno di organizzare un Climb&Clean».
Qual è l’età media di chi aderisce all’iniziativa?
«La maggior parte tra i trenta e i cinquant’anni. A Varese avevamo coinvolto una palestra, quindi c’erano anche dei giovani, però in generale credo sia un po’ difficile fare aderire un diciottenne, anche se non sono mancate le eccezioni».
Tornato dalla Groenlandia, mi avevi raccontato dello stupore nel vedere che al posto di un ghiacciaio ci fosse solo mare. Più di recente, qual è l’immagine legata al cambiamento climatico che più hai impressa negli occhi?
«Di eventi come il ritiro dei ghiacciai se ne vedono tantissimi. Non sono così sorpreso da quello che è successo sulla Marmolada perché purtroppo ho avuto modo di vedere cose anche peggiori, dove il cambiamento climatico, oltre a lasciare un segno indelebile, ha un impatto anche sulle persone. L’inverno scorso, per esempio, sono stato in Patagonia e anche lì le temperature anomale facevano sì che ci fossero crolli e scariche sempre più frequenti del tutto inedite, un po’ come quelle che sono avvenute quest’estate sul Monte Bianco, dove è crollato un bivacco intero: lì è andata bene perché non c’era nessuno, in Patagonia invece, mentre scalavo il Cerro Torre, l’altra cordata che era con noi è stata travolta da una scarica di ghiaccio e pietre che ha causato il distacco di un fungo di ghiaccio. In quell’occasione, il grande alpinista Corrado “Korra” Pesce ha perso la vita. Sicuramente una parte di responsabilità ce l’ha il cambiamento climatico, e trattandosi purtroppo di fenomeni sempre più frequenti aumenteranno le probabilità che le persone ci vadano di mezzo».
In Perù invece?
«Lì il problema maggiore non è stato il caldo (anzi, di notte si arrivava a -20°), bensì l’inverno poco nervoso. Non essendoci neve, su una parte superiore della parete che dovevamo scalare c’era una zona di rocce instabili: se sono tenute insieme dalla neve restano bloccate e abbastanza salde, mentre se questa manca, sei più portato a cadere. Avendo visto queste scariche, abbiamo capito il pericolo cui saremmo andati incontro e abbiamo rinunciato alla parete principale per poi scalarne un’altra, che non era esposta ai crolli. Tutto questo per dire che non è necessariamente il caldo il responsabile di eventi simili, talvolta anche la scarsità o l’abbondanza di precipitazioni. Basti pensare alle alluvioni di adesso in Pakistan».
La politica italiana si interessa davvero al cambiamento climatico?
«Noto che si guarda poco al lungo periodo. Un politico, chiaramente, può anche ragionare sull’ecologismo, ma deve anche badare ai soldi, all’economia, a far quadrare il bilancio. Il che andrebbe bene, se non fosse che a volte serve anche avere un occhio più lungimirante: pensare a lungo termine, con un orizzonte di dieci o vent’anni, per prevenire la crisi climatica è un investimento perché evita disastri non solo naturali, ma anche economici. Invece, la sensazione è che si tenda sempre a essere poco avveduti, miopi, a guardare ai successivi quattro o cinque anni, rimandando un problema che poi finisce per ingigantirsi».
Che cosa pensi di movimenti come “Fridays for Future”?
«Credo abbiano la possibilità di fare qualcosa, hanno tanti spunti interessanti che condivido. Quello che dovrebbero fare è cercare di distaccarsi il più possibile dalla politica: l’idea dovrebbe essere quella di far passare dei messaggi importanti senza una bandiera, un colore. Non condivido, per esempio, la scelta di certe pagine green di dare una veste politica a temi che dovrebbero essere apartitici e trasversali. Un’altra tendenza che non mi piace è quella all’estremismo: questi gruppi devono avere il contatto con la realtà, non possono avere la pretesa di cambiare tutto dall’oggi al domani. Se vuoi innescare un cambiamento, devi cercare di esaltare un’iniziativa che trovi giusta, non evidenziare quello che non va. Quella persona fa cinque cose giuste e cinque sbagliate? Bene, facciamo anche noi quelle cinque cose giuste. Bisognerebbe evitare l’integralismo eccessivo, anche perché finisce solo per sortire l’effetto opposto».