Le nostre interviste, Lino Zani

Conoscere il passato per prevedere (e prevenire) il futuro. È questo l’ambizioso obiettivo del progetto Ada270, nato dal genio del Professor Valter Maggi, Lino Zani, Luca Albertelli e Gregorio Mannucci. Lo scopo è perforare (la tecnica è quella del “carotaggio”) il ghiacciaio alpino dell’Adamello – situato in alta Val Camonica, tra Lombardia e Trentino-Alto Adige – per estrarre materiali utili alla conoscenza dell’atmosfera e del clima prevalenti nel luogo in passato, così da poter valutare mutamenti e poter disinnescare eventuali futuri fenomeni erosivi. Il progetto si è di recente ampliato, prevedendo l’installazione della fibra ottica per consentire una rilevazione dei movimenti della massa, quindi un monitoraggio più accurato. Negli ultimi anni, complice il riscaldamento globale, i ghiacciai di tutto il mondo si sono resi protagonisti di continui e preoccupanti fenomeni di fusione. Quelli dell’Adamello, in particolare, stanno attraversando una fase di ritiro dovuta alle alte temperature, registrate anche in alta quota, e alle scarse precipitazioni nevose nei mesi freddi. Basti pensare che alla fine del 1800, la sua superficie superava i 3000 ettari, mentre nel 2007 si attestava sui 1630. In mancanza di neve, queste grosse masse sono diventate più fragili, soggette a crepe e fessure che ne facilitano il distacco. La tragedia avvenuta sulla Marmolada il 3 luglio scorso ne è un esempio. Per l’essere umano, la fusione di questi “giganti bianchi” rischia di provocare conseguenze fatali, trattandosi di una fondamentale riserva di acqua dolce: aumento del quantitativo di acqua in circolazione, episodi di siccità, inedite correnti oceaniche, innalzamento del livello dei mari, tempeste. Eventi ormai non più sporadici. Ecco, quindi, che studiare i ghiacciai assume i contorni di una missione quasi salvifica. Il Millimetro ha intervistato Lino Zani, responsabile organizzativo di Ada 270.

Le nostre interviste, Lino Zani

In che modo è stato condotto questo progetto?

«Quello dell’Adamello è un ghiacciaio temperato, a bassa quota, cioè arriva massimo a 3500 metri. È pieno d’acqua perché a quelle quote si fa fatica ad andare di molto sotto lo zero. Abbiamo scoperto che c’erano ancora 270 metri di ghiaccio nel 2016 e tre anni fa abbiamo deciso di carotarlo. Era già stato fatto un primo tentativo nel 2017, ma erano riusciti a scendere solo di 45 metri perché non avevamo a disposizione una sonda particolare che non si limitasse a ruotare e scavare il ghiaccio, ma che lo fondesse. Nel giro di un anno siamo riusciti a recuperare i fondi per acquistare lo strumento, che doveva essere creato ad hoc perché ce n’era solo uno in America, ma ci sarebbe costato troppo noleggiarlo e portarlo qui. Poi abbiamo saputo che uno svizzero lo stavo costruendo, quindi l’abbiamo aiutato nella realizzazione. Alla fine, ce l’ha fatto noleggiare per pochissimi soldi e siamo riusciti a recuperare 230 metri di ghiaccio. È stato un successo enorme, un lavoro di squadra pazzesco. Siamo arrivati a creare un campo per una decina di persone a 3200 metri dove saremmo dovuti stare per tre settimane. In undici giorni siamo riusciti a togliere tutto il ghiaccio».

Si tratta, poi, del carotaggio più in profondità mai fatto in Europa…

«Sì, perché non ci sono ghiacciai così profondi, soprattutto a quelle quote. Solitamente, i carotaggi in Europa vengono effettuati sopra i 4000 metri, per esempio sul Monte Rosa e sul Monte Bianco (maggiormente sul primo) perché danno la possibilità di portare in cima una carotatrice tradizionale agendo su ghiacciai che al massimo arrivano a 50-60 metri. Invece, il nostro aveva una profondità diversa e siamo riusciti a togliere tutto il ghiaccio. Abbiamo mancato il fondo per soli cinque metri. Non è stato facile perché il buco si chiudeva velocemente: eravamo in aprile e le temperature al calar del sole toccavano anche i -28 gradi, dovevamo lavorare giorno e notte, facevamo turni di 3 ore, poi ci si riposava e via».

Qual è l’obiettivo di “Ada 270”?

«Il primo è studiare queste carote, che ci diranno quello che è successo negli ultimi mille anni su questo ghiacciaio. La cosa grave è che abbiamo perso già gli ultimi trent’anni di storia, della nostra storia, perché il ghiaccio si è fuso. Se pensa che quest’anno sono andati via 6 metri di ghiaccio di spessore… È una cosa impressionante. Se proseguiamo così, alla fine del secolo questi ghiacciai non ci saranno più. E parliamo, in questo caso, di uno di quelli più grandi d’Europa. Pensiamo alla riserva d’acqua che andrà a sparire… Sarà un disastro. Bisognerebbe intervenire, ma mi sembra che ormai siamo arrivati a un punto di non ritorno. Al massimo (e sarebbe già tanto) potremmo riuscire a rallentare la corsa, ma dopo quello che abbiamo combinato non credo riusciremo a tornare indietro. Ormai c’è un’accelerazione pazzesca sul clima e sulle sull’innalzamento delle temperature. Basti pensare che io mi trovo in questo momento a 1000-1200 metri di altezza e, mentre parlo con lei, sono in maglietta all’aria aperta. Quando ero un ragazzo, in questo periodo non dico ci fosse la neve ma stavamo comunque intorno allo zero».

E poi succedono tragedie come quella della Marmolada…

«Eventi simili saranno all’ordine del giorno: la montagna, tutta la montagna, sta crollando. Il ghiaccio è un collante, un riparo, tiene salde le rocce; fondendosi, queste cedono. Dal ghiacciaio della Marmolada è venuto giù proprio un pezzo di ghiacciaio, d’altronde dietro si era formato addirittura un lago: quando quel blocco si è staccato ha creato un disastro enorme».

Le nostre interviste, Lino Zani

Tornando ad Ada270: una volta tolto il ghiaccio, cosa avete fatto?

«A quel punto, siamo riusciti a inserire nei 230 metri di buco quattro fili di fibra ottica, che ci stanno dando risultati molto interessanti sullo spostamento del ghiacciaio nella verticale. Non era mai successo prima, in nessuna parte del mondo, di avere queste misure. Abbiamo scoperto che in tre o quattro punti il ghiacciaio, scendendo, si muove molto più velocemente rispetto alla superficie e in altri punti molto più lentamente. Poi ci dà informazioni sulle temperature nei vari strati, oltre che sugli spostamenti, un altro grande successo. Il problema della fibra ottica è che se il ghiacciaio si muove di continuo (come fa), forse tra un anno o un anno e mezzo la fibra si romperà per sempre e non avremo più dati. Fino a quel momento, però, avremo sicuramente bei risultati».

Cosa sarà di questi dati?

«Gli scienziati hanno cominciato a studiare gli ultimi strati, quelli più profondi, e già lì si comincia a capire, per esempio, che tipo di minerali sono stati buttati nell’aria mille anni fa. Questo perché il ghiacciaio incamera tutte le polveri che vanno nel cielo. Hanno già trovato mercurio e altri metalli pesanti all’interno, il che significa che già tanto tempo fa si usavano gas tossici. Entro fine anno faremo una conferenza stampa per pubblicare i risultati».

Mi ha colpito sentirle dire che, a suo avviso, sarà impossibile invertire la tendenza del climate change

«Ne sono convinto. Il vero problema è stata l’industrializzazione massiva del pianeta senza pensare alle conseguenze. Abbiamo creato il surriscaldamento globale, le polveri sottili, il buco dell’ozono… Pian piano siamo arrivati al punto di autodistruggerci. Poi la natura si ribella e tutto quello che abbiamo fatto ci si sta ritorcendo contro. I nostri nipoti vivranno in un mondo completamente diverso, colpito dalla siccità. E sarà proprio questo il problema: da una parte ci sarà (come c’è già) un innalzamento molto forte dei mari, dall’altra mancherà l’acqua dolce in zone che sono destinate a diventare desertiche».

Le nuove generazioni non possono fare nulla?

«Sulla carta qualcosa potrebbero, ma bisognerebbe cominciare a educare i giovani a comportamenti sostenibili. È bello se vanno in piazza a protestare contro il cambiamento climatico, ma se poi a casa loro fanno di tutto e di più… Faccio un esempio: negli alberghi spesso ti invitano a non sprecare l’acqua, a non sporcare e a non consumare inutilmente gli asciugamani. Quando sono in vacanza, i ragazzi (ma non solo) se ne infischiano. Per questo dico che bisognerebbe educarli. Ma a farlo dovrebbero essere, in primis, i genitori, che oggigiorno sono tutti presi dal lavoro. È come se fossero venuti a mancare, come figura. Ricordo che quando ero ragazzo i miei erano presenti, mi sorvegliavano e sgridavano, se necessario, così da farmi capire dove sbagliavo. Adesso non è così. I giovani sono stati abituati a non rispettare, ad avere tutto, quindi continuano a volerlo. Io stesso ho una figlia e non sono così presente con lei, è cambiato il rapporto tra genitori e figli».

Essendo appassionato di montagna, la vive nel quotidiano. Qual è l’immagine più lampante del cambiamento climatico?

«I ghiacciai, senza dubbio. Ho vissuto su un ghiacciaio per 45 anni, da quando sono nato fino a vent’anni fa. I miei lavoravano come rifugisti a 3000 metri di altezza. Ecco, lì osservi proprio il cambiamento. Ogni anno che passa vedi che il ghiaccio diminuisce, che la montagna cambia morfologia. Ci sono vie che fino a poco tempo fa risultavano facili e che adesso sono diventate difficili proprio per il ritiro del ghiacciaio. Ci sono rocce affiorate difficili da arrampicare, da scalare. E questo è un fenomeno che si è intensificato negli ultimi anni: uno arriva, si trova lì davanti pensando di riuscire a salire sulla cima, invece poi non ce la fa perché quel “gigante bianco” è sparito. Il ghiacciaio, da questo punto di vista, è un indicatore incredibile».

Quindi è cambiato anche il modo di andare in montagna…

«Sì. Per l’alpinista il rischio c’è sempre: uno che va a fare certe scalate mette in conto il pericolo, la montagna è imprevedibile. Ma in questi ultimi anni è diventata ancor più pericolosa perché lo zero termico, in piena estate, si trova sotto ai 4000 metri. Alcune vie nei mesi caldi non si possono più praticare. Basti pensare al Cervino e al Monte Bianco, che sono stati chiusi per la stagione estiva. Ormai bisogna andare ad arrampicare e a scalare in primavera. Che dire poi della Marmolada? È stata una tragedia enorme. Fosse venuta giù di notte, come è successo in altre occasioni, ne avrebbero a malapena parlato; purtroppo, però, è caduta alle 14, travolgendo molta gente, allora sì che ne hanno parlato. Di morti, in montagna, ce ne sono parecchi tutti gli anni, anche alpinisti bravissimi: basta che venga giù un sasso e via. Quello che noi guide alpine consigliamo è di informarsi, prima di avventurarsi. Ed è un suggerimento che stiamo dando sempre di più nell’ultimo periodo, segno che qualcosa è cambiato».

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