Kim Rossi Stuart è senz’altro un attore prestigioso, di caratura internazionale, raffinato e profondamente originale – per stile e carriera – nel panorama artistico italiano e non solo. Regista, sceneggiatore, scrittore oltre che interprete di ruoli che sono rimasti nella memoria degli spettatori per l’intensità e la ricchezza di particolari con i quali li ha interpretati, ha lavorato in cinema e in teatro con registi dall’aura leggendaria: Michelangelo Antonioni, Wim Wenders, Luca Ronconi Antonio Calenda, Gianni Amelio, Roberto Benigni, Mauro Bolognini, Anthony Scott – per citarne alcuni. Nel 2005, esordisce alla regia con Anche libero va bene. Alla fine del 2022 esce il suo ultimo film, Brado: storia bellissima, intensa e difficile, intrisa di un’umanità dura, profonda, mai banale né prevedibile, di un difficile rapporto fra un padre e un figlio alla ricerca di un nuovo equilibrio e di una nuova dimensione affettiva. Quando lavora a nuovi progetti, ma anche per sua consuetudine, Kim Rossi Stuart è lontano da riflettori e microfoni. E tuttavia quando gli ho proposto di farci una chiacchierata insieme per il Millimetro su di lui, la sua carriera e tanto altro, con la sua consueta eleganza e gentilezza ha subito detto di sì. E così ci siamo incontrati e abbiamo iniziato a parlare, con libertà e spontaneità.
Tu hai iniziato questo lavoro davvero per caso. Ti ricordi come è stato il tuo primo provino? Cosa ti aspettavi?
“Ma non mi aspettavo niente. Ero talmente piccolo e non sapevo nulla di questo mondo. Come un bambino qualsiasi sono stato portato in una saletta e con grande disagio ho provato a recitare”.
Che ti hanno fatto recitare?
“Mi diedero proprio una scena del copione. Quindi su parte. Me la studiai un po’ con mio padre e provai. Ma non è che mi venne bene”.
Beh comunque tuo padre recitava…
“Sì, ma aveva già smesso da tempo, quindi non ci pensavo nemmeno a questo mondo. Ed è anche abbastanza misterioso che facendo l’autostop mi becca questo aiuto regista, oggi diventato un famoso produttore, Pietro Valsecchi, che mi fa: “Vuoi fare un provino?”
E tu hai detto subito sì.
“Andai a casa e ne parlai coi miei. E quindi abbiamo deciso di farlo e basta. Mio padre, ovviamente, avrà letto in questo evento qualcosa di misterioso. Chissà che avrà pensato? Comunque, da lì in poi questo mestiere mi ha dato tanta autonomia e mi ha permesso di farmi una vita”.
Quanti anni avevi quando hai fatto il tuo primo provino?
“Avevo 12 anni”.
E quando sei partito per gli Stati Uniti?
“Appena finito Il generale di Magni. Quindi a quindici anni”.
Prestissimo.
“Sì, presi il valigione e andai. Con una incoscienza assoluta, caratteristica tipica della mia famiglia. Avevo messo da parte 8 milioni di lire grazie al Generale. E mi ricordo che andai a via Veneto dalla Swiss Air: “Vorrei un biglietto open per New York”. Tornando a casa lo dissi ai miei che mi risposero: “Ma quando parti”? “Fra qualche giorno”. “E torni”? “Non lo so”. Con duemila dollari in tasca presi e andai”.
E che volevi fare?
“Volevo andare all’Actors Studio. La mia insegnante di recitazione di allora, Beatrice Bracco, mi aveva dato il contatto telefonico di una sua amica che era membro dell’Actors Studio… Come si chiamava?… Ah sì: Francesca De Sapio. Non so ancora insegna lì, ma mi pare che dopo un po’ venne a Roma. Comunque arrivai lì, sbarcai con un valigione tipo emigrante e avevo un altro numero di telefono che mi diede mia zia, che faceva la guida turistica per Roma. Lei conobbe una coppia di New York. Io li chiamai non parlando nemmeno inglese: “Please, excuse me, I’m Kim from Rome”. Una follia totale. Questi mi ospitarono per due settimane poi mi mandarono via, chiaramente. A quel punto mi affittai un basement. E all’Actors Studio ci andai un paio di volte. Conobbi Al Pacino e altri attori di quel periodo. Alla fine feci tutt’altro. Mi mantenni lavorando come manovale, pensa un po’”.
Andasti come uditore.
“Eh sì”.
E qual è l’insegnamento che ti è rimasto più impresso?
“Mi ricordo un’improvvisazione guidata da Shally Winter, ma niente di che. Cose che già conoscevo perché in Italia frequentavo dei corsi di recitazione strasberghiani”.
Tu sei a favore dell’immedesimazione psicologica del personaggio?
“Diciamo che amo molto la possibilità che questo mestiere ti dà di scavare nella psicologia e nell’animo umano. Non mi piace la recitazione estraniata, con l’attore razionale che resta distante dal personaggio. Non credo che vengano cose buone da questo stile qui, se non per certe parti o per alcuni lavori. Poi, come in cucina, un pizzico di tutto non guasta mai. Ci vuole equilibrio”.
Come ti prepari per una parte?
“Nei tre film che ho diretto, la decisione di recitare il ruolo del protagonista è sempre arrivata dopo ma non per volontà mia, più per questioni produttive. E quindi in questo caso al personaggio ci sono arrivato dopo aver masticato a lungo la sceneggiatura. Per i ruoli che non vengono fuori da un tuo travaglio creativo, il discorso si fa più complesso. La ricerca è un po’ più faticosa, perché devi trovare delle chiavi di accesso per sentire delle cose che abbiano una loro profondità e una loro urgenza”.
È più facile trovare somiglianze o divergenze col personaggio da interpretare?
“Dipende. Ho affrontato personaggi che sulla carta, appena letti, mi sono detto: “Oh mamma santa! Qui mi devo inventare qualcosa perché con questo io non centro assolutamente niente”. Mi è successo con Vallanzasca, mi ricordo. Poi invece ti capitano registi come Amelio che ti dicono: “Non ti preparare niente, regalami solo la tua testa, il tuo cuore, la tua pancia e vai in scena”.
E come ti sei trovato a lavorare con questo metodo qua?
“Bene! Capirai: vacanza vera!”
Sì?
“E beh sì! Per Vallanzasca mi sono dovuto preparare per mesi, assimilare tutto un modo di stare al mondo, un ritmo interiore, una certa maniera di pensare e parlare. Con Amelio non ho dovuto preparare niente, anche se poi si è rivelato faticoso stare sul set per motivi diversi. Le chiavi di casa si è rivelato un film difficile per via di altre complicatezze”.
Quindi hai usato tanti metodi di recitazione nel corso della tua carriera.
“Io credo che il primo requisito per un attore sia quello di adattarsi al metodo che il regista vuole. Quindi devi essere materia plasmabile. Mi ricordo che quando feci il Filottete di Gide al Piccolo Teatro di Milano, con Santuccio che faceva Filottete e Pagliaro alla regia, io continuavo a fare lo stanislavskiano e non arrivava niente. Perché lì il contesto era molto più declamatorio”.
E quando hai fatto Il visitatore con Calenda alla regia e Turi Ferro nei panni di Freud?
“Beh ero più grande, avevo più esperienza. Avevo già fatto Re Lear, forse. Comunque ero un po’ più strutturato, ma ancora non avevo tutti gli strumenti per impadronirmi della materia, del palcoscenico, e per affrontare un combattimento quotidiano con Turi“.
È stato difficile?
“Lacerante, ma per tutti e due. Perché Turi era anziano. E questo combattimento che lui aveva per dna era roba da esaurimento nervoso”.
Nella pièce anche i personaggi sono molto combattivi e tentano di averla vinta l’uno sull’altro fino all’ultimo.
“Sì, difatti penso che alla fine sia andata bene così. Lo spettacolo riuscì. Ebbe delle piazze dove andò alla grande. Ma tu lo hai visto?”
Su Youtube perché nel 1996 ero piccolo.
“Quindi tu hai visto la ripresa televisiva. In quel caso io più di Turi ero avvezzo al mezzo e perciò me la giocai bene”.
Che rapporto hai col palcoscenico?
“Purtroppo quasi non me lo ricordo più perché sono passati vent’anni dall’ultimo spettacolo che ho fatto. Ho memorie un po’ sbiadite. Si trattava comunque di un rapporto emotivamente molto intenso. Sarà pure un cliché il discorso della sala teatrale raffigurata come un ventre materno. Però c’è del vero, eccome! È un qualcosa che ha a che vedere con la gestazione. Mi manca. Ma non mi manca la performance attoriale della quale sinceramente comincio a essere un po’ stanco”.
Dal punto di vista teatrale?
“No, no. Dico proprio in generale”.
Ti ha stancato recitare?
“Adesso mi appassiona di più la regia, mi piace scrivere. Mi piace proprio di più dedicarmi, da regista, alla recitazione degli altri”.
A proposito: ho visto il backstage di Brado, il tuo ultimo film: ho trovato stupendo il modo con cui hai lavorato insieme al ragazzo che interpreta tuo figlio.
“È venuto bene il backstage. E ti dico che sarebbe potuto venire meglio. Poi, come sempre, in Italia è tutto così raffazzonato. La regista sarebbe dovuta venire anche alla preparazione del film e invece è stata qualche volta sul set e basta. Ha tirato fuori delle cose, belle, ma c’era molto di più. Se avesse ripreso tutto quello che è successo, sarebbe venuto un film sul film: la preparazione, il covid, il ragazzo che ha un incidente e si rompe la clavicola. È successo proprio di tutto!”
E ti sei mai scoraggiato?
“No, tutt’altro!”
È vero che bisogna mettersi a nudo per recitare?
“Per me sì. È proprio una cosa richiesta all’attore, sennò non ti arriva niente. Poi Carmelo Bene si metteva a nudo? Sono casi particolari. A me dava l’impressione che lui fosse tutto il contrario di mettersi a nudo, ma lo faceva in modo così radicale che anche quello, alla fine, era un mettersi a nudo. Forse nascondeva le sue parti più fragili? Però metteva a nudo la sua follia, e c’era qualcosa di genuino e vero pur in quell’ottica così cinica, rassegnata. Alla fine, a modo suo, si metteva a nudo”.
È difficile mettersi a nudo?
“Non per me. È la cosa più bella, la più utile, la più costruttiva e positiva che si possa fare”.
I personaggi cambiano l’attore come persona?
“Secondo me sì. Ci vuole esperienza a non lasciarsi addosso le cose negative dei personaggi. Di quelle ne fai esperienza ma poi le lasci. Le cose più belle, luminose e costruttive le trattieni e le coltivi. Però è delicato, perché gli attori sono esseri anche fragili, molto sensibili. È difficile non farsi travolgere dai personaggi”.
Qual è un personaggio che non faresti mai?
“Mah!… Non lo so proprio. Più che un personaggio, ti dico che io non voglio assolutamente partecipare a film o spettacoli che si compiacciono del male. Va benissimo mettere in scena Caligola o Macbeth, ma non per alimentare i fantasmi di questi personaggi, ma per riconoscerli e prenderne le distanze in maniera catartica”.
Un personaggio come Joker, quello interpretato da Phoenix, lo avresti fatto?
“Ecco, quando ho visto quel film ne sono rimasto ammirato perché è bellissimo. Ma è pericoloso perché sollecita nell’essere umano gli istinti più negativi. Qui non c’è Batman. L’eroe è proprio Joker“.
A differenza di altri tuoi colleghi, hai sempre scelto con cura i ruoli e non ti sei mai inflazionato.
“Sì, però è tanto tempo che faccio l’attore. Basta fare solo questo! Alternare un po’ non mi dispiace”.
C’è una cosa che non rifaresti?
“No, perché penso che tutto quello che ho fatto ha avuto un senso. Non ho altre opzioni nel mio modo di vivere”.
Ti rivedi spesso?
“Mai. Non mi voglio rivedere”.
Sei severo con te stesso?
“Abbastanza, anche se cerco di non esserlo”.
Pure nella scrittura?
Lo sono come approccio in generale. Ci sono giorni in cui scrivi con più fatica, altri con spontaneità. Dipende.
Tu hai scritto un libro bellissimo, Le guarigioni…
“Ecco, a proposito di severità, l’altro giorno l’ho riaperto e leggendo ho visto delle cose che oggi riscriverei in un altro modo”.
Come mai lo stai rileggendo?
“Perché volevo capire se uno dei racconti posso trasporlo per il cinema”.
Scrivere un racconto è diverso dallo scrivere un soggetto?
“Totalmente. Perché quando scrivi per il cinema, o per il teatro, se non vuoi perdere tempo devi subito sforzarti di mettere su carta cose che siano realizzabili. Nella narrativa invece puoi scrivere in grande libertà. E ho provato una libidine da paura quando ho scritto questi racconti, perché non avevo proprio vincoli di alcun tipo”.
A cosa stai lavorando adesso?
“Non posso parlarne, ma sarà comunque una cosa da attore. Contemporaneamente sto cercando di chiudere un soggetto per un prossimo film”.
Sei per le storie estreme o meno estreme?
“Tendenzialmente sono per gli estremi. Perché lì trovi l’archetipo, il paradosso, l’allegoria”.
Come sogni di vederti fra dieci anni?
“Ma guarda non lo so, non ne ho idea! Perché mi vuoi far fare queste incursioni nel futuro? Non voglio vedermi!”
Un tuo sogno nel cassetto che ancora non hai realizzato?
“Tanti, ma nemmeno mi vengono in mente. Penso sia giusto che alcuni restino solo sogni. Per esempio mi piacerebbe molto avere una barca, da pazzi”.
Il mare ti piace?
“Tantissimo! Mi piace anche la montagna, ma il mare in modo particolare. Mi fa pensare alla libertà, all’autonomia, all’indipendenza, alla lontananza dai casini degli uomini che ne fanno troppi, davvero troppi”.
Cosa ti infastidisce degli uomini d’oggi?
“Questa continua tendenza dal voler affermare sé stessi. Che palle!”
Che ti piace leggere?
“Mi piacerebbe leggere di più, ma con tre figli ho pochissimo tempo. Dipende dai momenti. Adesso più che saggistica, preferisco racconti e narrativa. Per esempio ora sul comodino ho Furore di Steinbeck, che è uno dei miei scrittori preferiti”.
C’è una domanda che non hanno mai avuto il coraggio di farti?
“In genere i giornalisti quando pensano di fare una domanda scomoda la fanno senza problemi. Per loro è un divertimento. Però non lo so se qualcuno si è trattenuto dal farmela una domanda veramente scomoda. Tu hai da farmene una?”
Io no. Non è nel mio stile.
“Alla grande allora!”