Il Muro del Doping, parte IV

Siamo all’ultimo appuntamento di un’inchiesta che ha riaperto alcune tra le pagine più drammatiche dello sport mondiale. In realtà parliamo di vicende che hanno poco a che fare con lo sport, drogate e stravolte dagli eventi. Detto questo, il doping in Germania ha macchiato per sempre l’onorabilità di una Nazione intera, coinvolgendo atleti di ogni disciplina e lasciando il segno per generazioni che ancora oggi ne pagano le conseguenze. Vincere senza merito, ma con l’uso di sostanze gravemente nocive alla salute, potremmo in breve riassumerla così. La Germania dell’Est, appunto; il crollo del Muro di Berlino, non quello del doping, ancora attivo e minaccioso. Il nostro viaggio si conclude in giro per il mondo, in zone esplorate con poca attenzione, ma sempre vigili all’evoluzione di anabolizzanti o simili. Il doping di Stato è tua mamma che ti vuole più forte degli altri. Vuoi bene a tua mamma? Sì. E allora manda giù le pillole azzurre. Cresci, gareggia, vinci. Onora il tuo Paese. Fatti largo tra i nemici con la tua arma nucleare: lo sport. C’è chi conquista lo spazio e chi sale sul podio. È un altro modo per dominare il mondo. La Ddr, ex Germania Est, quella di Angela Merkel, era piccola: appena 16 milioni di abitanti. Eppure, in 5 apparizioni alle Olimpiadi estive (dal ‘68 all’88, escluso l’84) e in sei invernali ha messo le mani su 519 medaglie, di cui 153 d’oro. Densità mai raggiunta da Usa e da Urss, due superpotenze ridicolizzate. Grandi loro? Macché, meglio noi. Lo sport dalla Ddr veniva usato come politica estera. C’erano i piani quinquennali: in pista e in piscina. I corpi, soprattutto quelli femminili, andavano trasformati in contenitori di gloria. Heidi Krieger allora era una ragazza che lanciava il peso molto lontano. A 16 anni i medici le diedero due pillole da prendere. «Due stagioni dopo pesavo 100 chili. Ho scoperto dopo che nell’86 mi somministravano 3000 milligrammi di Oral Turinabol, uno steroide». Mille milligrammi in più di quanti ne avrebbe presi Ben Johnson nel 1988 a Seoul. Una minorenne drogata da adulto. Heidi non c’è più, è diventata Andreas. «Nel ’97 ho cambiato sesso, via seni e tutto. Ero stanca di vedere sempre indicarmi la toilette dei maschi».

Il Muro del Doping, parte IV
Andreas Krieger

Le nostre inchieste – Il doping nel mondo

Il regime aveva costruito un’organizzazione ferrea: ricerca, magia bianca e nera, delazione, ricatti, pratica di spionaggio alla quale anche gli atleti dovevano aderire. Prima c’era stata la Finlandia del fondo e dello sci nordico: Lasse Viren era chiacchierato per l’uso dell’emotrasfusione, allora non vietata. Ma più che doping di Stato sembrava una nuova strada indicata dalla ricerca scientifica. Buon sangue non mente. Il confine tra sperimentazione e illegalità era però sottile. Ma il fascino discreto del record aveva contagiato tutti. A inizio anni ‘80 anche l’Italia ne fu sedotta. Il Coni affidò al professor Francesco Conconi e al suo laboratorio di Ferrara una delega medico-scientifica per seguire gli atleti. I più promettenti sarebbero stati studiati e programmati da Conconi. Alberto Cova a Los Angeles ‘84 vinse i 10 mila metri. L’autoematrasfusione (vietata l’anno dopo) aveva funzionato alla grande. Fallì invece per nuoto e boxe. Ma intanto l’immagine del paese era cambiata. Little Italy a chi? Solo che il professor Conconi non si fermò, continuò a sperimentare, la scienza era sempre più Grande Fratello, nell’illusione che ormai il record andasse costruito in laboratorio. Senza più freni e responsabilità.

Le nostre inchieste – I primi cento metri più drogati della storia

Ai Giochi di Seoul nel 1988 il canadese Ben Johnson arrivò sul traguardo dei 100 metri con il braccio alzato e un tempo favoloso: 9″79. Lo tradì l’esame antidoping che rivelò la presenza di un massiccio steroide anabolizzante. L’oro fu assegnato a Carl Lewis, che però ai trials era risultato positivo all’efedrina (ma fu coperto), l’inglese Linford Christie, dopato anche lui, fu riammesso, e anche il quarto, l’americano Dennis Mitchell, tanto pulito non era. A dimostrazione che a Seoul si corsero i primi cento metri interamente drogati della storia. Ma c’era chi lo sapeva già. Wade Exum, ex direttore del controllo antidoping del comitato olimpico americano, pubblicò nel 2003 un dossier di 30 mila pagine dichiarando che dall’88 al 2000 la positività di molti atleti Usa era stata insabbiata. E che a Seoul 12 atleti a stelle e strisce, già risultati positivi nel corso dell’anno, erano stati coperti. Questa la lettera che ricevette il velocista De Loach: «Caro Joe, questa è la notifica formale che ti debbo inviare da protocollo. Ma come sai, non c’è sanzione per la tua inavvertenza. Buona fortuna». Inavvertenza? A metà anni 90 arrivò la Cina delle donne, anzi dell’«Armata di Ma».

Il Muro del Doping, parte IV
Ben Johnson, Seoul 1988

La nuova Cina cercava visibilità, aveva muscoli non più affamati da far vedere al mondo. La lunga marcia era finita, doveva salire sul podio. Arrivarono gli ori e i record delle cinesi nel fondo. L’allenatore Ma Juren rifocillava le ragazze, diceva lui, con sangue di tartaruga. Alla vigilia di Sydney 2000 il miracolo finì. Sei delle sue atlete risultarono positive. Tartarughe avariate? Poi arrivò la Spagna vincente: calcio, tennis, ciclismo, atletica. Un’esplosione di talenti e di generazione magica. Il segreto? Il nome era quello: dottor Fuentes. Ci volle «l’operacion Puerto», con la Guardia Civil che fa irruzione nella case di notte, per scoprire che il miracolo era farmacologico. E ora Casa Russia con il direttore del laboratorio di Mosca che distrugge 1417 provette per non farle scoprire dalla Wada, con la polizia segreta che a Sochi minaccia i dottori dell’anti-doping. Tutto pur di essere i numero uno del mondo. E con questa realtà: nei 289 test raccolti ai campionati Under 23 di atletica 2007, 2009, 2011, i valori degli atleti russi erano tre volte superiori al normale. Vogliamo iniziare a chiamarlo genocidio di Stato?

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