Consultando i record sportivi della ex Germania Est, il nome di Ines Geipel (allora Ines Schmidt) non compare da nessuna parte. Eppure, nel 1984 fu lei, insieme alle altre staffettiste della SC Motor Jena, a fermare il cronometro a 42,20 secondi sulla 4×100, stabilendo un incredibile record del mondo di società. Oggi accanto a quel risultato si leggono soltanto tre nomi (Bärbel Wöckel, Ingrid Auerswald e Marlies Göhr) e un asterisco. Quell’asterisco è Ines Geipel. Oggi affermata scrittrice, nonché docente presso la Scuola di Arte Drammatica Ernst Busch di Berlino, Geipel è stata un’atleta di punta della DDR: «Ho iniziato a correre per sopravvivere, per dimenticare e per scappare dal dolore» ha raccontato. Nel 1977 la giovane Ines trovò nello sport una via d’uscita dalla famiglia opprimente in cui era cresciuta, con un padre che lavorava come agente della Stasi, la polizia segreta della Germania Est. Ma la fuga fu soltanto illusoria. Già nel 1974 il regime aveva approvato il Piano di Stato 14.25, che prevedeva la somministrazione forzata di steroidi anabolizzanti, ormoni e anfetamine agli atleti al fine di gonfiarne le prestazioni, incurante dei disastrosi effetti di queste sostanze, eufemisticamente definite “mezzi di supporto”. L’obiettivo ultimo era dimostrare la superiorità del socialismo e per conseguirlo ogni mezzo era considerato lecito. Così iniziò la parabola di una piccola nazione che diventò quasi invincibile in tutte le discipline sportive. Si diceva che gli atleti della DDR fossero «diplomatici in tuta», anche se Geipel preferisce definirli «un esercito di soldati civili». Secondo le stime più recenti le vittime del doping di Stato della DDR furono 15.000, di cui circa 10.000 donne. Tra di loro anche Ines Geipel. Per questo nel 2005, dopo il processo di Berlino e il riconoscimento formale come “vittima del doping di Stato”, la ex velocista pretese che il suo nome accanto al record venisse rimpiazzato da un asterisco. Il muro del doping, secondo appuntamento con l’inchiesta portata avanti da il Millimetro.
Il muro del doping – Una storia senza precedenti
«Si preferiva dopare le donne perché su di loro l’effetto virilizzante degli ormoni maschili è nettamente più forte» racconta Geipel, che oggi a Berlino dirige l’Associazione per le vittime del doping da lei stessa fondata nel 2013. Ci parla di migliaia di atlete, in gran parte minorenni, che nella DDR vennero virilizzate chimicamente e sacrificate alla nazione a loro insaputa, rese invincibili sul campo e annientate nella vita. Le atlete della DDR conquistarono circa il 40% di tutti i titoli europei e mondiali vinti dal piccolo Stato e stabilirono record destinati a durare, di cui alcuni risultano ancora oggi imbattuti, per esempio quello di Marita Koch sui 400 metri piani (47,60 secondi; 1985) e quello di Gabriele Reinsch nel lancio del disco (76,80 metri; 1988). I loro strabilianti risultati non significavano soltanto prestigio politico per il Paese, ma valevano anche come prova lampante dell’emancipazione della donna nella Germania Est. Per tutto questo le atlete hanno pagato un prezzo altissimo. Una su tutte la pesista Heidi Krieger che a fine carriera, dopo anni di depressione e crisi, fu costretta a cambiare sesso per aver assunto lo steroide anabolizzante Oral Turinabol in quantità doppie rispetto a quelle di Ben Johnson a Seul 1988. Oggi si chiama Andreas Krieger. Sebbene la DDR sia oggi storia, non lo sono le esistenze devastate di queste atlete. Nel 2000 Geipel si costituì parte civile contro i responsabili del doping di Stato della DDR al processo di Berlino, a seguito del quale il medico Manfred Höppner e il ministro dello sport Manfred Ewald furono condannati in quanto ideatori del sistema. Per Geipel e altre venti donne quello fu l’inizio dello svelamento: «Solo allora iniziammo a comprendere quello che ci avevano fatto e fu uno shock. Gli anni ’80 furono il periodo più spietato per lo sport e la violenza andava ben oltre il doping» così Geipel. Lei stessa fu “eliminata strategicamente” quando il regime ritenne che costituisse un pericolo per lo Stato, ovvero quando si innamorò di un atleta messicano e tentò senza successo di fuggire a Ovest. La Stasi intervenne, Geipel fu sottoposta a una presunta appendicectomia con cui le vennero inferte gravi lesioni all’addome; sopravvisse per miracolo, dovette lasciare lo sport e rassegnarsi all’idea di non avere figli. Solo tempo dopo seppe cosa le era accaduto. Nel 1989 riuscì a fuggire dalla Germania orientale attraverso il confine tra Ungheria e Austria.
Il muro del doping – Il futuro è adesso
Con il team dell’Associazione, Geipel fornisce oggi assistenza a circa 2.000 ex atleti colpiti: «A distanza di 40 anni le vittime escono ancora allo scoperto. Spesso i corpi dopati necessitano di molto tempo per crollare, abituati come sono alla logica della prestazione. In più il timore e la vergogna scoraggiano molte vittime dal ricercare aiuto, specialmente quando si tratta di atleti che non si sono emancipati dal contesto in cui vivevano allora, caratterizzato ancora oggi da un’omertà diffusa che riguarda la stampa locale, i medici e i cittadini stessi» spiega la direttrice. Su 2.000 ex atleti assistiti, ben 1.500 sono donne. Dalle loro testimonianze emerge un complesso quadro di violenza strutturale: «Era un sistema patriarcale: in politica dominavano gli uomini, in ambito sportivo le allenatrici erano rare e molte donne medico si ritirarono strada facendo per ragioni etiche. L’ambiente divenne sempre più maschile e quello delle atlete invincibili si consolidò come un mito perverso. Lo sport era retto da dinamiche di pressione, sadismo e abuso. Migliaia di ragazze, in molti casi bambine sotto i 10 anni, vennero ingannate e depredate del loro sesso. Le atlete si fidavano di allenatori e medici che spacciavano pillole variopinte per vitamine e integratori. Oggi vengono al consultorio e scoppiano in lacrime. Soffrono di problemi psichici come depressione, psicosi e bulimia. La loro ossatura è distrutta per il sovraccarico degli allenamenti. In molti casi hanno subito un’interruzione dello sviluppo, il che significa ovaie atrofizzate e sterilità. Se rimangono incinte, sono soggette ad aborti spontanei. Quando partoriscono c’è la possibilità che i figli siano disabili. Per via degli ormoni alcune presentano irsutismo, altre invece perdono completamente peli e capelli. C’è chi non ha sviluppato il seno. In queste condizioni la vita diventa per le vittime un inverosimile atto di forza». Finora l’Associazione diretta da Geipel è riuscita a ottenere due leggi che riconoscono un’indennità alle vittime del doping di Stato della DDR.
La prima legge riguardava 200 atleti, la seconda 1.000. Il prossimo obiettivo è ottenere una pensione politica anche per i bambini colpiti nella seconda generazione, ad oggi già 300: «L’indennità significa molto perché è una forma di riconoscimento di cui le vittime hanno estremamente bisogno» commenta Geipel. All’Associazione gli ex atleti ricevono molteplice assistenza (psichiatrica, giuridica, burocratica ecc.). Presto verranno attivati dei gruppi di autoaiuto e si potrà contare su una rete di medici specializzati. Geipel è inoltre impegnata nella ricerca di un finanziamento stabile: «La politica fa soltanto lo stretto necessario. Lo sport non ne vuole sapere: molti dei tecnici attivi durante la DDR sono stati integrati nel nuovo sistema. Negli uffici pubblici c’è chi ancora disconosce il doping di Stato». Oggi Ines Geipel va a correre ogni volta che può: «Questa passione non se n’è mai andata» dice sorridendo, «ma non provo più gioia né entusiasmo per le manifestazioni sportive internazionali. Nei corpi degli atleti e nelle loro prestazioni intravedo la lunga catena di interessi che regola la chimicizzazione dello sport. Tutti ne sono responsabili, dal medico all’allenatore passando per la politica e i fan, invece è quasi sempre l’atleta il capro espiatorio, anche quando il doping è il risultato di una cospirazione. Temo che oggi in Russia molti atleti ignorino di cosa sono vittime. Per una medaglia d’oro della DDR sono stati “bruciati” 80 bambini. La lista dei morti conta circa 500 persone, più di quanti ne abbia causati il Muro di Berlino. Lo sport esisterà sempre, ma dobbiamo porre fine a questo massacro».