L’altro Sergio, diviso tra America e Roma

Capita che la storia si prenda gioco dei suoi migliori personaggi dotandoli di rivali o compagni con maggiore visibilità o fortuna. Accade nel calcio al “capitan futuro” Daniele De Rossi, campione del mondo e bandiera romanista sempre un passo dietro a Francesco Totti; a Rafa Nadal nel tennis, straordinario campione nell’epoca del tennista più elegante e amato di sempre: Roger Federer; a Scottie Pippen in NBA, insostituibile nelle rotazioni dei Chicago Bulls più vincenti di sempre ma con un decimo dello stipendio di Michael Jordan; a Charles Leclerc nella Formula 1, ambizioso e tenace ma piccolissimo di fronte all’unicità di Max Verstappen. Lo sport sotto molti aspetti ricorda l’intrattenimento nel dovere di emozionare e correre più veloce del pubblico così da anticiparne i gusti. Nel cinema, tra registi, raramente si gioca di squadra e sovente nascono affascinanti rivalità. Quando si parla di western italiano – in grado di rivoluzionare i gusti e i tecnicismi di un paese dove quel genere è nato, gli Stati Uniti – si cita sempre e ormai in totale scioltezza il nome di Sergio Leone. Regista de la trilogia del dollaro e del tempo, dirige Clint Eastwood e Charles Bronson, Robert De Niro ed Henry Fonda. Prende letteralmente per i piedi un mondo intero e lo rivolta nel suono, nella visione e nella narrativa. Definisce un nuovo manuale di scrittura e realizzazione artistica e per questo si prende ancora oggi (esce il 20 ottobre un documentario a lui dedicato) le prime pagine delle copertine. Sarebbe ingiusto relegare un altro Sergio al retro, eppure nella beffarda roulette russa della memoria accade puntualmente che Corbucci – nato a Roma come Leone ma tre anni prima, nel ’26 – finisca proprio laggiù, nei titoli di coda di un film troppo gustoso per esser dimenticato.

L’America a Roma

In “C’era una volta a Hollywood”, ultimo film di Quentin Tarantino, il protagonista Rick Dalton (Leonardo Di Caprio) riceve una chiamata: “Devi girare un film a Roma con Sergio Corbucci”. L’attore pensa in un primo momento a Leone e poi, a fatica, si convince ad accettare il ruolo. La casistica è emblematica: sono gli attori americani ad augurarsi una chiamata da Cinecittà, nonostante gli scetticismi su quegli omoni romani che mai, dal loro punto di vista, avrebbero potuto raccontare davvero un mondo tanto diverso dal loro. Negli anni Sessanta Roma è la capitale del settore cinematografico, ogni anno escono dozzine di film e migliaia di cittadini fanno la fila per avere un solo minuto da comparsa in una delle varie produzioni previste. I set, talmente maestosi e impegnativi, vengono riutilizzati più volte per altre opere (vedi “Totò, Peppino e la dolce vita”, girato proprio da Corbucci l’anno successivo a “La dolce vita” di Federico Fellini) e i vari professionisti della recitazione vengono spremuti all’osso. Dal neorealismo alla commedia il passo verso il western è breve: dopo i primi esperimenti nei tardi Cinquanta è con il gruppo Leone-Corbucci-Tessari-Giraldi che il genere prende davvero vita. Amici, colleghi e amanti di quel genere, prima di girarlo lo studiano da critici e lo scrivono da autori. Diventano aiuto registi nei peplum (vedi “Gli ultimi giorni di Pompei” del ’59, dove Leone è assistente di regia e Corbucci autore) e poi applicano il loro salto di qualità al western americano privandolo del surreale e dotandolo di un sibillino sottofondo politico. Corbucci è antifascista e non ne fa tesoro, le sue maschere rispondono violentemente alle ingiustizie di istituzioni non riconosciute. I suoi lavori più apprezzati sono “Django” (1966), “Navajo Joe” (1966) e “Gli specialisti” (1969) e hanno tutti un clamoroso comun denominatore: la violenza.

L'altro Sergio, diviso tra America e Roma

I suoi spaghetti western mirano alla trasposizione più cruda possibile della vendetta a ogni costo. Crudeltà e sangue prima, con quel pizzico immancabile di ironia a spegnere il tutto. Il pubblico – soprattutto giovane – inizialmente s’indigna e poi torna in sala con l’obiettivo di rivivere quell’esperienza. Non solo botte da saloon ma orecchie mozzate e spari senza pietà fanno parte del grande immaginario disegnato da Corbucci, dove il vero protagonista è il cattivo. I suoi villain padroneggiano la scena e stuzzicano l’empatia degli spettatori. Il contrasto con l’antagonista regge l’intero film in molte occasioni. In un’intervista dice, con un’impercettibile nota di orgoglio: “Ho ucciso più io di Nerone e Caligola”. Sul set scherza: “Quante persone ammazziamo oggi?”. Il clima è favorevole, la sperimentazione non trova ostacoli: è il momento de “Il grande silenzio” con un nuovo protagonista internazionale già apprezzato ne “Il sorpasso” di Dino Risi, Jean-Louis Trintignant. Nel suo sesto western l’eroe non parla e, soprattutto, alla fine dei giochi perde ucciso dal suo rivale. Uno strappo enorme rispetto agli altri film dell’epoca dove il bene vince sempre.

Una grande carriera

I personaggi secondari hanno dubbia moralità e misteriosi obiettivi, per valutarne la morale devi sospirare sino al finale. È solo lì che, senza i loro assi nella manica, capisci se sono eroi o meno. Il Clint Eastwood di Corbucci è Franco Nero, penetrante nello sguardo e unico nel suo fascino. “I film fatti con lui sono tutti politici – dichiara in un’intervista per “Django & Django”, documentario Netflix) – e parlano di rivoluzione giovanile”. Il suo Ennio Morricone (che pure ha collaborato con l’altro Sergio più volte) è Luis Bacalov, memorabile nella colonna sonora di “Django”. Le sue opere non sono affatto identiche: non c’è humor ne “Il grande silenzio” ma ne se ne trova nella trilogia messicana. Solo nel duello finale de “Il mercenario” (1968) Sergio prende platealmente spunto dallo stile dell’amico e collega Leone, riproducendo la stessa scenografia del triello visto ne “Il buono, il brutto, il cattivo” (con tanto di Morricone alla colonna sonora). Segnale non solo di grande rispetto ma di un affetto che travalica la rivalità. La bellezza del loro rapporto è tutta in questo omaggio: la produzione romana è talmente efficace e vincente che ognuno ha un suo spazio enorme e sufficiente a soddisfare le proprie mire e i desideri del pubblico. Uno scenario inimmaginabile oggi dove ogni produzione accumula una serie di pressioni incalcolabili.

L'altro Sergio, diviso tra America e Roma

A differenza dell’amico omaggiato, Corbucci trova il coraggio di superare il West puntando ad altri generi. “Che c’entriamo noi con la rivoluzione” (1972) è il primo segnale: Paolo Villaggio e Vittorio Gassman si ritrovano protagonisti di una commedia western dallo sfondo comico. Un azzardo dai tratti geniali, cornice unica nella cinematografia nostrana. Gli anni Settanta sono, come il decennio precedente, un tripudio di produttività: i suoi cast prevedono professionisti del calibro di Ugo Tognazzi, Ornella Muti, Bud Spencer e Terence Hill, Adriano Celentano, Peppino De Filippo, Nino Manfredi, Marcello Mastroianni, Alberto Sordi, Giancarlo Giannini e Mariangela Melato. Produce narrativa con spaventosa costanza saltando da un genere all’altro e intuendo, soprattutto, una ancor maggiore voglia di cinema da parte del pubblico. Si abbandona al commerciale per privarsi senza particolari imbarazzi della visuale d’autore che ossessiona tanti colleghi. Un confronto: sono sette i film girati da Leone in carriera, cifra che Corbucci raggiunge in soli due anni di produzioni tra il ’66 e il ’67. Un modo diverso di intendere il cinema o, secondo alcuni, la vita. La qualità però non ne risente, parola di Tarantino: “Se in America c’è un numero uno del western il secondo è uno qualunque. In Italia un secondo c’è ma è lo straca**o di Sergio Corbucci. Un lusso, mica un combattimento tra cani”. Sempre il regista di “Kill Bill” e “Django Unchained”, che del western italiano è probabilmente il primo fan al mondo, chiosa in un’intervista al già citato documentario Netflix: “Dopo ‘Bastardi senza gloria’ avrei voluto scrivere un libro su Corbucci intitolandolo ‘L’altro Sergio’. La speranza è che l’idea venga ancora presa in considerazione per regalargli – stavolta davvero – quell’agognata copertina con la storia e non restare nel retro. Anche se di suo pugno, la storia, Corbucci l’ha scritta davvero con qualche riflettore in meno ma tanti azzardi vinti.

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