Siamo in Colombia, località Doradal, Antioquia. La zona è situata a pochi passi dalla valle del fiume Magdalena, il simbolo del Cartello di Medellìn, regno di Pablo Escobar. È il 1978, esattamente quarantacinque anni fa, e il più grande narcotrafficante della storia ha appena acquistato la tenuta Nápoles insieme ai suoi cugini Jhonny Bedoya Escobar e Luis Bedoya Escobar. Una trattativa lampo, una questione di pochi minuti, al boss non è mai piaciuto perdere tempo: tutti e tre si sono presentati all’appuntamento in carovana, attraversando sentieri, fumando marijuana e bevendo brandy, non prima però di fermarsi a pochi metri dal villaggio di San Carlos, zona confinante con Puerto Trionfo. È qui che li aspetta per un summit il proprietario del terreno, Gonzalo Arteaga, vecchia conoscenza di Pablo Escobar. Trentacinque milioni di dollari la richiesta iniziale. Settanta, quindi il doppio, l’offerta decisiva. “Tutti abbiamo un prezzo”, è invece la frase con cui Pablo Escobar si congeda dal suo beneficiario. In pochi mesi, cinquecentotrentuno ettari si trasformano in ventisette laghi artificiali, stanze per dormire, una pista di atterraggio privata, un distributore di benzina autonomo, un giardino esotico, stalle per cavalli e uno zoo in costruzione. Per il logo della tenuta viene scelto un piccolo aereo posizionato sull’arco dell’entrata, replica fedele di quello con cui Escobar portò il suo primo carico di cocaina negli Stati Uniti (quello originale fu perso in mare, secondo quanto ha affermato lo stesso Escobar in un colloquio con il giornalista Germán Casto Caycedo). Dall’ingresso principale si possono ammirare anche oggetti e autovetture di grande valore, come la Chevrolet modello 1934, fatta colpire appositamente da alcuni proiettili per farla somigliare a quella dei leggendari Bonnie e Clyde o Al Capone, personaggi da sempre stimati dal narcotrafficante. Oggi, a distanza di molti anni, i lavori di ristrutturazione della Tenuta Nápoles e dei suoi beni hanno permesso di aprire lo zoo al pubblico, creando vari ecosistemi dove gli animali riescono a vivere serenamente. Il parco tematico non fa menzione del famoso proprietario Escobar, a cui però è dedicata la parte centrale dell’area, ovvero gli edifici in cui viveva e ospitava altri boss e personaggi di spicco. Tra le rovine degli edifici, mai recuperati, si trovano ancora oggi dei cartelli illustrativi su Escobar e la lotta contro lo Stato. Abelardo Colorado, il suo storico tuttofare, ha ripetuto più volte: “A Pablo piaceva ostentare le sue fortune, ma niente lo faceva gonfiare come la sua personale “Arca di Noè”. Millenovecento specie esotiche diverse raccolte tra la fine degli anni Settanta e l’inizio dei Novanta: rinoceronti, elefanti, cammelli, ippopotami, zebre (spesso scambiate alla dogana con asini dipinti di bianco e nero), giraffe, gru, impala, cervi, tapiri, canguri, fenicotteri, struzzi, delfini e pappagalli neri (unici al mondo). Una volta ci disse: “Se muore il delfino rosa, vi ammazzo”. Oggi Abelardo Colorado è ancora vivo. Evidentemente, almeno fino al 1993 (anno dell’uccisione di Pablo Escobar) pure il delfino se l’è cavata.
Lo zoo di Pablo Escobar – Nel 2023 gli ippopotami rappresentano un problema per la Colombia
Il governatore di Antioquia, Aníbal Gaviria, è stato chiaro: “Bisogna trasferire immediatamente settanta ippopotami da Magdalena Medio in altri paesi, non possiamo più tenerli”. La polemica si è riaccesa all’improvviso, anche a distanza di trent’anni dalla morte di Pablo Escobar, che li portò in Colombia tra il 1978 e il 1980. Inizialmente ne arrivarono dieci, nel corso del tempo il numero è aumentato a circa 100 esemplari, considerati dagli esperti una specie invasiva per l’ecosistema. Infatti, uno studio condotto dall’Universidad Pontificia Javeriana e dall’Humboldt Institute stima che entro il 2034 la popolazione potrebbe raggiungere i 783 individui e nel 2039 potrebbe arrivare addirittura a 1.418. Numeri, dunque, troppo impegnativi: l’India è pronta a riceverne 60, il Messico 10, l’obiettivo è mitigare l’impatto sugli ecosistemi e sulle specie autoctone dell’area in cui si trovano gli ippopotami. Di recente, Lina Marcela De Los Ríos, responsabile della protezione del benessere degli animali del Segretariato Ambiente e la sostenibilità del governo di Antioquia, ha fornito dettagli su come avverrà il trasporto degli animali nei loro nuovi habitat: “Siamo in attesa di ricevere i necessari permessi dal Ministero per procedere alla cattura e al trasferimento aereo. Il governo nazionale è pienamente preparato ad accelerare questo processo”.
Il dirigente ha aggiunto che sarebbe necessaria la costruzione di altri recinti per facilitare la cattura degli animali, che verranno portati via terra all’aeroporto di Rionegro e successivamente caricati su due aerei differenti (due gruppi da 30 ippopotami): “Qualsiasi uso di anestetici o simili sarà evitato il più possibile, la sedazione infatti è sconsigliata. Saranno portati consapevolmente e con tutte le cure necessarie”. L’intero processo, senza contare il trasferimento via aereo, che sarà a carico dei paesi che ospiteranno gli animali, ammonta a circa 4milioni di dollari. Tutto accadrà molto naturalmente e non ci sarà il pericolo di riproduzioni fuori controllo, come è accaduto invece negli ultimi vent’anni in Colombia: “Arriveranno in aree delimitate e in ambienti controllati – ha specificato De Los Ríos – con protocolli stabiliti. In altre parole, la storia non si ripeterà”. Il dibattito su cosa farne degli ippopotami di Pablo Escobar va avanti da anni ed è stato sollevato di tutto, dalla castrazione allo sterminio. Brigitte Baptiste, biologa e rettore dell’Università Ean, ha proposto “la macellazione”. Così come Nataly Castelblanco, PhD in Ecologia e Sviluppo Sostenibile presso El Colegio de la Frontera Sur (Messico) e autrice principale dello studio “Un ippopotamo nella stanza”. Ipotesi e soluzioni agghiaccianti, mai prese in considerazione fortunatamente dal governo colombiano: “Non accetteremo mai lo sterminio, speriamo di portarli in altri paesi che hanno dimostrato interesse a riceverli”. E a dire il vero, lo sperano pure gli ippopotami.
Lo zoo di Pablo Escobar – L’arrivo dei primi animali e il rifiuto a tigri e leoni
Le prime informazioni su come acquisire e trasportare animali in Colombia, Pablo Escobar le prese direttamente dagli Stati Uniti. Inizialmente chiese al figlio Juan Pablo di informarsi su come ottenere elefanti, zebre, giraffe, dromedari, ippopotami, bufali, canguri, fenicotteri, struzzi e altre specie di uccelli, provenienti da uno zoo già esistente. In realtà nella lista della spesa c’erano anche tigri e leoni: la pericolosità di questi due grossi felini e la voglia di avere nell’hacienda soltanto animali liberi di girare ovunque, lo spinsero a non prenderli. In quei giorni di sondaggi e testimonianze, gli uomini di Escobar contattarono una fattoria a Dallas, in Texas, specializzata nella caccia agli animali nel loro habitat naturale e nel trasporto negli Stati Uniti. Secondo diverse ricostruzioni, furono sborsati due milioni di dollari in contanti per i primi animali, che arrivarono qualche giorno dopo al porto di Necoclì, nella zona di Urabá e sul Mar dei Caraibi. Tuttavia, visto che i viaggi in barca si rivelarono stressanti per gli animali, molti di loro iniziarono ad arrivare in Colombia tramite voli clandestini che atterravano all’aeroporto Olaya Herrera di Medellín: “Mentre l’enorme ordigno atterrava senza spegnere i motori – ha raccontato Juan Escobar – dall’hangar di mio padre sono usciti numerosi camion e addetti ai lavori che con varie gru calavano con una velocità sorprendente le casse con gli animali. Poi l’aereo è decollato di nuovo. Quando sono arrivate le autorità, allertate dal rumore, hanno trovato solo alcune scatole di legno vuote e molte piume sul pavimento”. Successivamente fu utilizzato anche un aereo DC-3 per portare dagli Stati Uniti una coppia di rinoceronti, due pappagalli neri e due delfini rosa.
Lo zoo di Pablo Escobar – “Se muore il delfino rosa, vi ammazzo”
Abelardo Colorado è una di quelle persone che ascolteresti parlare per ore senza stancarti mai. Conosce segreti e vizi di Pablo Escobar, lo ha servito per oltre quattro anni nell’Hacienda Nápoles, vivendo situazioni incredibili ed esaudendo ogni capriccio del boss. Come, per esempio, convincere alcuni uccelli bianchi (portati dall’Africa) a radunarsi, poco prima di ogni tramonto, su alcuni alberi vista piscina. Da lì, infatti, davano l’illusione della neve su un esuberante paesaggio tropicale, come descrisse una volta il giornalista Juan José Hoyos. Abelardo, quindi, dirigeva notte e giorno circa 120 persone pronte a soddisfare ogni richiesta, anche la più assurda, di Pablo Escobar. Di tutti gli animali collezionati nel corso degli anni, un occhio di riguardo veniva dedicato al delfino rosa, arrivato da Miami alla fine di un’estenuante trattativa. L’animale fu portato a Napoli avvolto in sacchetti di plastica per evitare ferite o bruciature, eludendo ogni controllo doganale. E non con poca attesa o pressione verso i suoi collaboratori di fiducia, tanta era la voglia di averlo nell’hacienda: “Se muore il delfino rosa, vi ammazzo”. Nei sei anni in cui si è goduto il suo zoo personale, Escobar vide anche un canguro nascere in cattività, evento mai accaduto prima in Colombia. Abelardo, come faceva in ogni occasione, si prese cura pure di lui, ma l’animale durò soltanto tre settimane. Quando il veterinario di fiducia si rese conto della situazione, scappò per paura di essere ammazzato, ma alla fine il tutto si chiuse con un aspro rimprovero. Oggi Abelardo Colorado ha 60 anni ed è rimasto senza lavoro. Del delfino rosa invece non si hanno notizie certe. Ci auguriamo solo sia vivo, così come tutti gli altri animali dell’Hacienda Nápoles.