«Imparerai a tue spese che nel lungo tragitto della vita incontrerai tante maschere e pochi volti» scrisse Pirandello. In effetti milioni di persone, da un anno a questa parte, stanno pagando un prezzo altissimo per via dell’assenza di “volti” e, di conseguenza, dell’abbondanza di “maschere” nella politica europea. Per dodici mesi premier, ministri degli esteri e commissari europei hanno indossato la maschera dei sedicenti potenziali mediatori, dei sostenitori del dialogo, dei negoziati, della pace. “L’obiettivo è una pace giusta” hanno ripetuto centinaia di volte tentando di giustificare il massiccio invio di armi a Kiev e inondando con tonnellate di menzogne i dibattiti pubblici europei. “Occorre armare Kiev per permettere all’Ucraina di sedersi al tavolo dei negoziati in posizione di maggiore forza”. Non è questo quel che ci hanno raccontato? Tale strategia avrebbe avuto senso se, contestualmente, l’Europa avesse davvero promosso un tavolo negoziale. Ma dov’è il tavolo? Dove sono i negoziati? Dov’è finita la ricerca della pace? Dov’è l’Europa? Eclissata, dissolta, liquefatta al cospetto del comparto militare-industriale (e finanziario) statunitense. Ovvero il potere (quello vero) che sta determinando le scelte politiche europee. Oltretutto la smania di accreditarsi con tale potere spinge i principali politici europei a gettare la maschera sebbene questo possa fargli perdere definitivamente la faccia. Più o meno nelle stesse ore in cui Wang Yi, responsabile della diplomazia cinese, annunciava un’iniziativa per la pace in Ucraina, Josep Borrell, l’Alto Rappresentante Ue per la Politica Estera, dunque il numero uno della diplomazia europea, pronunciava tali scriteriate parole: «Il dossier più urgente è quello delle munizioni, se falliamo la guerra è a rischio. L’Ucraina ha bisogno di proiettili, in particolare di quelli di calibro 1.55. La Russia spara 50mila proiettili al giorno, dobbiamo fare in modo che l’Ucraina abbia le stesse capacità. Oggi presenterò una serie di proposte e domani sarò alla Nato». Neppure i generali parlano in questo modo. Anzi, paradossalmente, nel mondo alla rovescia i militari sono infinitamente più equilibrati dei politici. Forse perché conoscono la guerra mentre i politici pare conoscano soprattutto gli affari. Borrell non sente più neppure l’esigenza di mentire. “Il dossier più urgente è quello delle munizioni, se falliamo la guerra è a rischio la guerra”. Il capo della diplomazia europea dovrebbe preoccuparsi se a rischio fosse la pace, non la guerra.
La narrazione bellicista – Il ruolo dei media nella guerra
Leggendo tali follie, vengono in mente le parole che Julian Assange utilizzò nel 2011 per descrivere la guerra in Afghanistan: «L’obiettivo è una guerra eterna, non una guerra di successo. L’obiettivo è utilizzare l’Afghanistan per riciclare denaro dalle basi fiscali degli Stati Uniti e dei paesi europei attraverso l’Afghanistan e riportarlo nelle mani delle élite della sicurezza transnazionale». Le élite della sicurezza transnazionale, alias il comparto militare industriale, tra l’altro, sempre più in mano ai fondi finanziari. Dunque, vi è chi ritiene che una guerra di successo coincida con una guerra duratura, non con una guerra vinta. Perché solo una guerra duratura potrà lanciare la nuova corsa agli armamenti, perché solo una guerra duratura potrà spezzare, per trent’anni almeno, i legami politici, economici e culturali tra Russia e Europa occidentale. Perché solo una guerra duratura potrà consentire quelle devastazioni necessarie per chi intende fare business sulle ricostruzioni. Perché solo una guerra duratura può garantire il trasferimento di denaro pubblico (le basi fiscali di cui parlava Assange) dal welfare state alle politiche belliche. Ovviamente tutto questo non va detto. Al contrario la narrazione va incentrata sull’imminente fine della guerra possibile proprio grazie alla strategia occidentale su armi e sanzioni. L’11 marzo 2022 su La Stampa usciva un pezzo dal titolo: “Cos’è il razzo anticarro Javelin e perché sta cambiando la guerra”. Cosa mai penserà un lettore leggendo queste parole? Che la guerra possa finire presto grazie all’invio a Kiev dei Javelin, lanciarazzi anti-carro portatili prodotti in joint venture da Lockheed Martin e Raytheon Technologies, rispettivamente prima e terza fabbrica di armi al mondo. Il 23 giugno scorso l’AdnKronos batteva questa notizia: “Lanciarazzi Himars in Ucraina: perché possono cambiare la guerra”. Dunque, la guerra potrebbe, finalmente, cambiare non più grazie ai Javelin ma grazie agli Himars, un sistema lanciarazzi multiplo fabbricato sempre da Lockheed Martin. Ma evidentemente neppure gli Himars sono bastati. La Repubblica, 14 dicembre 2022: “Patriot americani a Kiev: cosa sono i sistemi di difesa antiaerea e come possono cambiare la guerra”. E ancora La Repubblica, 24 gennaio 2023: “Ecco perché i tank Leopard possono cambiare le sorti della guerra”. Non poteva mancare il Corriere della Sera, 3 febbraio scorso: “Usa pronti a fornire a Kiev le nuove bombe Glsdb: cosa sono, e che cosa cambia ora”. Da un anno a questa parte, ciclicamente, hanno provato a convincerci (con scarsi risultati visti tutti i sondaggi sull’invio di armi a Kiev) che ogni fornitura di armamenti, tra l’altro sempre più sofisticati, micidiali e costosi, fosse un passo di avvicinamento verso la fine della guerra. Questa è la classica narrazione bellicista. Tutti detestano la guerra, tutti vogliono la pace, tutti vedono i prezzi del latte, del pollo o dell’olio di semi. È dunque necessario ingannare i cittadini. I modi, d’altro canto, sono infiniti. C’è chi vuole far crederci che Putin sia un novello Hitler pronto ad invadere la Polonia. Che le sanzioni (o auto-sanzioni) stiano facendo collassare l’economia russa. Che l’esercito russo sia una banda di straccioni pronti alla diserzione di massa, che i russi abbiano esaurito le scorte di missili (poi ogni giorno, ahimè, in tutta l’Ucraina suonano le sirene) o che la guerra, grazie al massiccio rifornimento di materiale bellico a Kiev, sia ormai agli sgoccioli. Oppure, ed è la solita strategia comunicativa americana, si può puntare sulla guerra di civiltà. “Continueremo a difendere la democrazia a tutti i costi” ha tuonato Biden da Varsavia. Che poi sulla fantomatica democrazia ucraina ci sarebbe da parlare a lungo. E ancora: “In gioco non c’è soltanto la libertà dell’Ucraina, ma quella di tutti noi”. Si tratta delle stesse identiche parole pronunciate da altri inquilini della Casa Bianca alla vigilia dei bombardamenti su Belgrado, dell’invasione dell’Afghanistan (che tuttavia mai nessuno ha chiamato in questo modo) o della guerra in Iraq. Poi abbiamo visto come sono andate a finire quelle scriteriate avventure. Altro che scontri di civiltà. Gli USA hanno abbandonato un Afghanistan distrutto nelle mani dei “nemici della civiltà”, quei talebani con i quali hanno trattato e ai quali hanno lasciato molte più armi di quelle che possedevano nel 2001.
La narrazione bellicista – L’obiettivo è portare Kiev alla vittoria
La narrazione bellicista cozza con la realtà. Una realtà fatta di morte, di sangue, di immensi danni economici da parte europea (soltanto per affrontare la crisi energetica in un anno i paesi europei hanno speso 800 miliardi di euro, 50 miliardi in più del Recovery Fund, il fondo messo a disposizione dei Paesi UE per affrontare i danni della pandemia) e di business per i soliti noti. Il 28 dicembre scorso Zelensky ha avuto un lungo colloquio con Larry Fink, ceo di BlackRock, la più grande società di investimenti al mondo. Argomento? La ricostruzione dell’Ucraina. L’agricoltura dell’Ucraina, paese sostanzialmente agricolo, è già in mano alle tre principali imprese di agro-businnes al mondo, le statunitensi Cargill, Monsanto e DuPont. Inoltre, le interconnessioni tra fabbriche di armi e fondi finanziari sono sempre più evidenti. Banalmente BlackRock è il terzo investitore istituzionale di Lockheed Martin Corporation, terzo investitore istituzionale di Boeing Company e terzo investitore istituzionale di Raytheon Technologies, azienda che fabbrica quei missili Patriot che, a detta de la Repubblica, cambieranno le sorti della guerra. Ad oggi quel che stanno cambiando, oltre alle vite di decine di milioni di cittadini europei, sono i bilanci delle fabbriche di armamenti. E cambieranno (in meglio, per loro) ancor di più leggendo le dichiarazioni di Borrell o quelle di Ursula von der Leyen. “Dobbiamo raddoppiare e continuare il massiccio sostegno militare che è necessario per fare fallire completamente questo piano imperialistico di Putin e possa permettere all’Ucraina di vincere”, ha dichiarato pochi giorni fa il numero uno della politica europea. L’obiettivo non è più far sedere al tavolo dei negoziati Kiev da posizione di forza. L’obiettivo è portala alla vittoria. Se dovessero servire dieci anni, poco male. D’altronde è in corso una guerra di civiltà. E una guerra di civiltà va vinta, non la si può certo pareggiare con un negoziato. Non a caso la delegittimazione della Cina accusata di fornire armi su armi a Mosca è partita non appena Pechino ha parlato di una proposta di negoziato. Evidentemente oltre alla Russia va abbattuta anche ogni ipotesi di pace.