Oltre 700 morti in venti giorni di cui 190 bambini, più di 5 mila feriti, almeno 335 mila sfollati e 2 milioni di persone in più ridotte alla fame. È il tragico bilancio del conflitto esploso in Sudan, il Paese nordafricano dove due fazioni rivali – l’esercito nazionale (SAF, Sudanese Armed Forces) e la forza paramilitare (RSF, Rapid Support Forces) – si scontrano per il controllo del territorio. Un conflitto che è arrivato a coinvolgere 12 dei 18 Stati del Sudan, dal quale sono esclusi i civili – sbagliato dunque chiamarla “guerra civile” – che ne stanno invece pagando pesanti conseguenze e da mesi chiedono di lasciare spazio a un governo di transizione senza la presenza militare. Mentre i sudanesi rimangono gravemente feriti e in centinaia hanno perso la vita, l’Occidente si è mobilitato sia per mettere in salvo i propri connazionali, sia per fare pressione affinché cessino i combattimenti. Per giorni le numerose notizie di un “cessate il fuoco” hanno fatto ben sperare, peccato si sia sempre trattato di tregue temporanee, i cui accordi sono stati continuamente violati. L’intervento di Arabia Saudita e Stati Uniti ha portato a dei colloqui per la pace iniziati il 5 maggio, che ancora non hanno dato il risultato atteso. Una guerra non nuova nel Paese che, dalla sua indipendenza conquistata nel 1956, ha fronteggiato diverse fasi di crisi, a partire dal primo colpo di mano delle forze armate sudanesi nel 1958, e ancora nel 1969, nel 1971, 1976 e 1985. Nel 1989, poi, la presa del potere da parte del maresciallo Omar al-Bashir. Lo stesso che nel 2011 acconsentì alla scissione tra Sudan e Sud Sudan che pose fine alla guerra civile. Il contrasto tra il leader dell’esercito di Stato e quello delle forze paramilitari è sfociato in un violento conflitto che ha ridotto notevolmente, se non azzerato, la speranza di un Governo di transizione che porti il Paese verso la democrazia. Ma quali sono le cause del conflitto?
La guerra dei generali distrugge il Sudan – Cosa sta succedendo nel Paese e perché?
Da una parte c’è l’esercito di Stato regolare (SAF), guidato dal generale Abdel-Fattah Al-Burhan , dall’altra ci sono i paramilitari delle Forze di sostegno rapido (RSF, Rapid Support Forces), guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemeti, che attualmente ricopre la carica di vicepresidente della giunta che governa il Paese. Lo scontro tra le due fazioni è scoppiato il 14 aprile, dopo due giorni di preparativi. Le RSF hanno attaccato parte delle istallazioni militari e centri di potere in diverse aree del Paese. Un attrito che ha molteplici cause: secondo gli analisti quella principale è il futuro assorbimento delle milizie RSF all’interno dell’esercito di Stato. Al-Burhan vorrebbe che ciò avvenisse in tempi brevi, due anni o meno. Dagalo, invece, pretende tempi molto più lunghi, almeno dieci anni. I combattenti si contendono potere e denaro, dal momento che avere un certo ruolo all’interno dell’esercito vuol dire anche assumere posizioni chiave nel controllo degli affari e degli interessi del Paese. Tra i tanti punti di contesa c’è anche la richiesta di giustizia per le accuse di crimini di guerra da parte dei militari e dei suoi alleati nel conflitto in Darfur dal 2003. Ma le radici del conflitto vanno rintracciate nel prolungato conflitto tra i due comandanti. Nel 2019 SAF e RSF si erano uniti con lo scopo di rovesciare l’ex presidente Omar al-Bashir e negli ultimi tre anni hanno portato avanti una sorta di collaborazione. Negli ultimi due anni, tuttavia, si è acuito il contrasto tra i due leader, complici anche le forti ingerenze esterne, fino ad arrivare all’attuale rottura. Al-Burhan (SAF) gode infatti del sostegno dell’Egitto e degli islamisti, mentre Hemeti (RSF) ha sostenitori in Libia, Yemen e Ciad e, secondo fonti militari sudanesi, le RSF ricevono aiuti anche dalla Cirenaica libica guidata da Khalifa Haftar e hanno contatti anche con i mercenari russi del Gruppo Wagner. L’interesse delle grandi potenze del Medio Oriente coinvolte sta nel fatto che il Sudan è un Paese molto ricco (soprattutto grazie alle sue miniere d’oro) e anche Cina, Stati Uniti e Turchia guardano da tempo, con particolare interesse, ai 700 chilometri di costa sul Mar Rosso.
Le modalità del conflitto sono state da subito molto violente, con raid aerei che hanno preso di mira obiettivi civili, ospedali, operatori umanitari e mezzi di soccorso. Le RSF hanno condotto offensive in tutto il Paese, anche nel Darfur occidentale che è considerata la loro roccaforte. Hanno preso d’assalto l’aeroporto di Merowe nel nord del Sudan, il Palazzo presidenziale – dal quale sono stati respinti – e i centri della comunicazione radio-televisiva nazionale. Le forze paramilitari, il 26 aprile, hanno comunicato di aver preso il controllo di una raffineria di petrolio e di una centrale elettrica, infrastrutture che forniscono rispettivamente il 70% e il 20% del carburante e dell’elettricità del Paese. Per settimane i “cessate il fuoco” annunciati della durata di 72 ore sono stati vani, con violazioni continue da parte di entrambe le parti che si accusavano reciprocamente. Finalmente, dopo tre settimane di combattimenti, il 5 maggio i rappresentanti dell’esercito e delle Rsf si sono incontrati in Arabia Saudita, a Gedda, per i colloqui volti a stabilire una tregua. Colloqui che fanno parte di un’iniziativa diplomatica proposta dall’Arabia Saudita e dagli Stati Uniti. Sul tavolo, oltre a un cessate il fuoco definitivo, anche l’apertura di corridoi umanitari dalla capitale Khartoum e dalla città di Omdurman e la protezione delle infrastrutture civili al collasso. Usa e Arabia Saudita, in una dichiarazione congiunta, hanno esortato entrambe le parti a “impegnarsi attivamente nei colloqui per un cessate il fuoco e la fine del conflitto, che risparmierà le sofferenze del popolo sudanese”. Il raggiungimento della pace sembra tuttavia non essere così imminente. Da parte di entrambe le fazioni sono proseguiti gli attacchi, anche dopo l’inizio dei colloqui, con violenti bombardamenti nelle capitale.
La guerra dei generali distrugge il Sudan – L’esodo dal Paese e la grave crisi umanitaria
In tre settimane centinaia di migliaia persone hanno lasciato il Sudan. Più di 56 mila persone, secondo l’Onu, sono arrivate in Egitto, 30 mila in Ciad, più di 12 mila in Etiopia e 10mila nella Repubblica Centrafricana. L’Onu ha avvertito che 860 mila persone potrebbero varcare i confini nei prossimi mesi e ha chiesto 402 milioni di euro per aiutare il Paese, uno dei più poveri del mondo. Al contempo, anche la comunità internazionale si è mossa per il rimpatrio dei propri connazionali. Circa 150 gli italiani sono rientrati a Roma grazie a un ponte aereo da Gibuti, accolti dal ministro degli Esteri Antonio Tajani. La maggior parte degli emigrati sudanesi vive ora in campi profughi in condizioni poco sicure, con carenza di acqua pulita e dunque in condizioni igienico sanitarie rischiose. Si contano, nel complesso, più di 75 mila sfollati interni che hanno lasciato le proprie abitazioni e diversi enti e istituzioni parlano del rischio di una crisi umanitaria sempre più grave, considerando che in Sudan un terzo della popolazione stava morendo di fame già prima dell’esplosione di questo conflitto. Nel Paese è peggiorata ulteriormente la carenza di beni di prima necessità e i prezzi dei generi alimentari sono alle stelle. Solo il 30 aprile è arrivato a Port Sudan il primo volo di aiuti umanitari della Croce Rossa internazionale con otto tonnellate di materiale medico e personale sanitario ed è stata annunciata la partenza dell’inviato Onu Martin Griffiths, coordinatore per le emergenze e gli aiuti umanitari dopo che lo stesso segretario generale Antonio Guterres ha riconosciuto che si trattasse di una “situazione senza precedenti”.
Il primo maggio il programma alimentare mondiale dell’Onu (Pam) ha annunciato la ripresa delle sue attività in Sudan, dopo la sospensione seguita all’uccisione di tre dei suoi dipendenti il 16 aprile. Una situazione allarmante le cui conseguenze si sono riversate anche sui più giovani. La chiusura delle scuole dovuta ai conflitti ha costretto milioni di persone ad abbandonare le aule. Così una ragazza su tre e un ragazzo su quattro non hanno più la possibilità di accedere all’istruzione. Save the Children, Unicef e World Vision hanno lanciato un allarme per l’impatto del conflitto prolungato sui bambini, chiedendo con urgenza alle fazioni in conflitto e alla comunità internazionale di impegnarsi maggiormente per proteggere i bambini in Sudan. Molti di questi enti si sono trovati infatti costretti a interrompere le proprie attività a causa della violenza e dell’insicurezza diffuse e molte delle loro strutture hanno subito furti e attacchi. Mentre proprio in questi ultimi giorni nella città Saudita di Gedda sono in corso colloqui per arrivare a un cessate il fuoco definitivo, nell’ assediata Khartoum proseguono i bombardamenti e i pochi residenti rimasti sono chiusi in casa senza acqua, cibo, medicine e beni di prima necessità. Una situazione drammatica che – affinché venga risolta il prima possibile – necessita di un maggiore sforzo diplomatico internazionale.
(foto copertina LaPresse)