La guerra in Ucraina non può più permettersi di non avere un orizzonte e il sostegno americano non può più permettersi di non avere un obiettivo
Gli Stati Uniti d’America sono nel bel mezzo di un impasse strategico, dovuto alla difficoltà di gestire due guerre regionali che toccano direttamente gli interessi americani in due teatri sensibili per l’egemonia a stelle e strisce, il confine orientale dell’Europa e il Medio Oriente, nonché l’immagine e il ruolo degli USA nel mondo. È quanto alcuni chiamano il dilemma della “solvibilità strategica”, ovvero la tensione causata dal disequilibrio fra le risorse di potere disponibili e gli impegni assunti in giro per il mondo e che ne richiedono il dispiego. Detta altrimenti: un conto è occuparsi, per un po’, di foraggiare le casse e l’armamentario bellico di uno Stato che alle porte della Russia difende la fu fortezza Europa, con la prospettiva di un processo di integrazione occidentale (soprattutto a livello militare) senza possibilità di dietrofront.
Un altro conto, invece, è assicurarsi che due abili avversari del mondo libero e dell’ordine internazionale basato sulle regole (dizione statunitense per pax o egemonia americana) come Russia e Iran, non tirino la corda separatamente o in combinato disposto per attentare alla guida americana nei rispettivi quadranti di azione e influenza. L’America da tempo non agisce più come agente regolatore del disordine mondiale, ma per lo più rincorre le crisi, prova maldestramente a riportarle a sistema oppure, da ultimo, comincia a infischiarsene abituando i satelliti locali al caos o, auspicabilmente, responsabilizzandoli.
Washington rallenta, Mosca accelera
Mercoledì sera il Senato americano ha bocciato un disegno di legge per gli aiuti militari da 110,5 miliardi di dollari a Israele e Ucraina. I repubblicani hanno votato compatti contro i nuovi impegni finanziari e militari all’estero e anche tra i democratici si sono alzate voci critiche al piano dell’amministrazione Biden di fornire nuovi aiuti militari a Kiev prima della fine del 2023. Il pacchetto avrebbe assegnato circa 50 miliardi di dollari in equipaggiamento bellico al paese, nonché aiuti umanitari e finanziari al governo guidato dal sempre meno iconico e sempre più isolato presidente Volodymyr Zelensky. Del resto, qualche giorno prima, la Casa Bianca aveva già inviato una lettera dai toni molto accesi ai leader del Congresso, avvertendo che gli Stati Uniti avrebbero esaurito il denaro necessario per inviare armi all’Ucraina entro la fine dell’anno, con un impatto devastante sulla capacità di difendersi contro l’invasione russa.
L’ultimo e fallito tentativo del presidente Joe Biden di esercitare una pressione nei confronti dei repubblicani sempre più riluttanti a sostenere la guerra in Ucraina sine die. Così, mentre il presidente russo Vladimir Putin vola in Medio Oriente per incontrare i sovrani di Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita, di fatto sancendo la fine dell’isolamento internazionale di Mosca, oltreoceano il presidente Biden è costretto a minacciare la vittoria di Putin e il coinvolgimento delle truppe statunitensi alludendo ad un possibile attacco russo contro un alleato Nato, oltre l’Ucraina.
Il negoziato politico sottotraccia che l’Occidente non poteva ammettere
Chiariamoci: da mesi gli apparati americani stanno tentando di persuadere gradualmente gli ucraini a intavolare un negoziato con i russi e qualche segnale che il sostegno statunitense alla causa ucraina non sarebbe durato per sempre è trapelato pressocché regolarmente proprio dalle pagine della stampa americana. Nel giugno 2022, Biden redarguisce i due fedelissimi, il Segretario di Stato Antony Blinken e il Segretario alla Difesa Lloyd Austin, che in quei giorni avevano dichiarato pubblicamente che gli Stati Uniti volevano una vittoria ucraina in grado di indebolire irrimediabilmente la Russia, invitandoli ad abbassare i toni. Secondo diversi funzionari dell’amministrazione familiari con l’episodio, Biden ritenne allora che trasmettendo il messaggio che l’obiettivo americano fosse una sconfitta strategica della Russia i segretari si fossero spinti troppo oltre. A ottobre dello stesso anno, Biden propone a Putin una «via d’uscita» al fine di evitare “la prospettiva di un’Armageddon” nucleare e a novembre alti funzionari del Pentagono cominciano a esortare gli ucraini a mostrarsi aperti a tenere discussioni diplomatiche con la Russia.
Con buona pace del decreto firmato da Zelensky a inizio ottobre 2022 sulla “impossibilità di intrattenere negoziati” con il presidente russo. A febbraio 2023, Blinken fa sapere che un tentativo di riprendere la Crimea da parte ucraina non avrebbe l’appoggio americano perché oltrepasserebbe una linea rossa per Mosca. A luglio 2023, un’inchiesta del settimanale americano Newsweek svela l’esistenza un accordo informale fra i servizi di Washington e quelli di Kiev secondo cui gli americani avrebbero armato gli ucraini e in cambio questi si sarebbero astenuti dal portare la guerra in territorio russo.
Che la capacità americana di eterodirigere Kiev sia stata poi ampiamente smentita dalla lunga serie di episodi in cui Kiev ha invece preso iniziative di segno opposto senza informare né ottenere il consenso di Washington è un altro paio di maniche. Ricorrenti sono stati i sabotaggi alle linee di rifornimento russe nonché i razzi lanciati contro la Crimea. Allo stesso modo, in territorio russo, la responsabilità ucraina pressocché certa per l’assassinio di Dar’ja Dugina nell’agosto 2022, i bombardamenti alle basi di Dyagilevo ed Engels nel dicembre 2022 e l’incursione militare a Belgorod nel maggio 2023 sono indicativi di una capacità impositiva o persuasiva americana sui partner e alleati sempre più deficitaria. Eppure, l’intento americano di non irritare eccessivamente Mosca appare evidente. Più di recente, infine, l’Occidente collettivo ha iniziato anche a interrogarsi sul come chiudere la partita. Qualche indizio arriva dall’ultima riunione dello Ukraine Defense Contact Group tenutasi l’11 ottobre 2023 a Bruxelles in cui, secondo la stampa americana, le delegazioni statunitensi ed europee avrebbero iniziato a discutere con Zelensky di possibili “negoziati di pace” con Mosca, sul destino dei territori occupati e su cosa Kiev potrebbe convincersi a cedere. Discussioni che alla fine dell’anno o poco dopo potrebbero diventare sempre “più urgenti”. Che a Zelensky piaccia oppure no.
La difficoltà interna americana determina gli obiettivi di politica estera
Come si spiega quella che sembra una traiettoria piuttosto coerente della visione americana per l’Ucraina che pare sfuggire all’informazione mainstream? Innanzitutto, con un progressivo affaticamento dell’opinione pubblica americana a ritenersi responsabile per le sorti di Kiev, tanto più dopo il fallimento della controffensiva d’estate. Gli americani non vogliono impegnarsi in una guerra di cui non riescono a intravedere la fine. Secondo i sondaggi, meno della metà dell’opinione pubblica statunitense è ancora favorevole a continuare i rifornimenti militari all’Ucraina. Stessa sensibilità per il sostegno alle sanzioni contro la Russia. Il sentimento popolare ha un netto riflesso sul piano politico. Negli ultimi mesi è calato drasticamente anche il numero di elettori del Grand Old Party e dei repubblicani nel ramo basso del Congresso, la Camera dei Rappresentanti, favorevoli a un sostegno indefinito all’Ucraina. Tanto più ora che da tenere sotto controllo c’è anche il Medio Oriente e siamo alle porte dell’anno elettorale. La guerra in Ucraina, insomma, non può più permettersi di non avere un orizzonte e il sostegno americano non può più permettersi di non avere un obiettivo. Nel settembre scorso, durante un incontro a porte chiuse a Washington tra Zelensky e l’allora speaker della Camera, il repubblicano Kevin McCarthy, quest’ultimo disse di voler sapere dal presidente ucraino quale fosse il suo piano per la vittoria e di cosa avesse bisogno per raggiungerlo.
La risposta non deve essere piaciuta ai repubblicani presenti che – prima con l’ammissione da parte del comandante in capo delle Forze armate ucraine Valerij Zalužnyj sulla situazione militare in “stallo”, poi con quella dello stesso Zelensky che ha parlato di una controffensiva che “non ha raggiunto i risultati desiderati” – sembrano sempre più convinti dell’inutilità di continuare a spendere soldi per armare Kiev per un conflitto che, a quasi due anni dal suo inizio, non può essere vinta. La priorità in politica estera per la maggior parte degli americani, del resto, non è né l’Ucraina né Israele, bensì l’immigrazione. Questioni generali più urgenti hanno poi tutte a che fare con problematiche interne come l’inflazione, la violenza da armi da fuoco, la disuguaglianza razziale e l’assistenza sanitaria. Sarà per questo che proprio ieri il portavoce del Consiglio per la sicurezza nazionale, John Kirby, in un briefing con la stampa ha sottolineato che sui nuovi aiuti “non siamo nella posizione per fare promesse all’Ucraina” e che “una frangia repubblicana tiene gli aiuti in ostaggio in cambio di politiche estreme sui confini”. La destra americana vuole effettivamente privilegiare una riforma della politica migratoria, stringere le maglie sull’asilo e indirizzare più fondi per la sicurezza al confine con il Messico. Quasi a dire: se proprio di esteri dobbiamo occuparci, meglio concentrarsi sul nostro giardino di casa, questione ancora tutta domestica.”