Una crisi al cardiopalma. Alla fine, dopo ribalderie e giravolte varie, Mario Draghi ha rassegnato le dimissioni da presidente del Consiglio. Che Sergio Mattarella non ha potuto fare altro che accettare, per poi sciogliere le Camere e indire nuove elezioni, previste per il 25 settembre. È successo tutto il 20 luglio. Una giornata «di follia», per dirla come il segretario del Partito democratico, Enrico Letta. L’ex banchiere centrale si era presentato al Senato per la fiducia. Gli occhi erano puntati sul MoVimento 5 Stelle: il colpo, se ci fosse stato, sarebbe partito da loro. Pochi guardavano verso l’altro emiciclo dell’Aula. La fiducia al governo viene approvata da 95 senatori (Pd, LeU, Ipf, il Centro): il risultato più basso mai ottenuto dall’esecutivo Draghi. La maggioranza di larghe intese, che quel 13 febbraio 2021 aveva dato vita a un “governo di unità nazionale”, non c’era più. I grillini non votano, definendosi «presenti non votanti» per non far venir meno il numero legale ed evitare nuove sedute. Nessuna sorpresa. A non votare la fiducia, però, sono anche Lega e Forza Italia, il “centrodestra di governo”. E qui la sorpresa c’è, eccome. Novantacinque senatori, tecnicamente, sarebbero bastati per continuare l’esperienza a Palazzo Chigi, dati i 133 votanti. Non per Draghi. Che il giorno dopo, all’inizio del dibattito sulla fiducia alla Camera, comunica la sua intenzione di rassegnare (di nuovo) le dimissioni, incamminandosi poi verso il Quirinale.
Galetto fu il Decreto Aiuti
Il 14 luglio, a Palazzo Madama partiva la discussione in Senato sulla conversione del Decreto Aiuti, un provvedimento da 23 miliardi di euro contenente iniziative su politiche energetiche e sociali, produttività delle imprese e crisi ucraina, su cui il governo aveva posto la fiducia per sondare l’esistenza di una maggioranza favorevole alla normativa. L’obiettivo era capire le intenzioni del M5S, scettico fin dal principio su alcuni punti del Decreto e sull’orlo di uno strappo definitivo (già alla votazione del provvedimento alla Camera non aveva partecipato). Alla fine, con 172 voti favorevoli e 39 contrari, il Senato aveva rinnovato la fiducia al governo. Tutto regolare. Se non fosse che il rinnovo era avvenuto senza i grillini, usciti dall’Aula. Oltre ai temi già citati, il testo del Decreto contiene anche un ritocco al Reddito di cittadinanza, l’orgoglio dei grillini, che nel lontano 2018 aveva fatto gridare a Luigi Di Maio «abbiamo abolito la povertà». Adesso, la nuova legge prevede che potrà essere declinata una sola offerta di lavoro.
La richiesta dei pentastellati, poi, era di aumentare la cessione dei crediti del Superbonus al 110 per cento. Richiesta non presa in considerazione nel provvedimento. A creare malumori, anche il via libera dato al sindaco di Roma, Roberto Gualtieri (Pd), per la realizzazione di un termovalorizzatore che possa risolvere il problema annoso della spazzatura nella Capitale: fumo negli occhi per il M5S, che considera l’impianto anti-ecologico. Il 6 luglio, Giuseppe Conte inviava al governo un pre-ultimatum, un documento in 9 punti. Nonostante l’atteggiamento intimidatorio dell’avvocato pugliese, Draghi si era mostrato conciliante, definendo le richieste coerenti con l’agenda dell’esecutivo. Ormai, però, tornare indietro per il leader del M5S era impossibile, e il 10 del mese questi annunciava il mancato sostegno al governo in vista della votazione in Senato.
M5S, un MoVimento allo sbando
Le mosse di Conte vanno lette attraverso due lenti: da un lato, il flop alle amministrative di giugno, dall’altro, il “tradimento” di Luigi Di Maio. Sul primo fronte, i risultati erano stati tali da far ammettere a quest’ultimo: «Non siamo andati mai così male» (il M5S si aggirava tra il 2 e il 4 per cento). Sul secondo fronte, l’uscita di Di Maio dal partito, e la scissione che ne è derivata, è uno degli eventi che più ha destabilizzato il M5S. A segnare la frattura, il posizionamento sull’invio delle armi all’Ucraina: da un lato il titolare della Farnesina che, in linea con il governo, era favorevole a proseguire con gli aiuti; dall’altro Conte, fautore di un approccio diplomatico. Poco importa se alla fine i grillini hanno votato con (e non contro) l’esecutivo sulla risoluzione: ormai il danno era fatto. E oltre a questo, la beffa: non solo avevano perso il ministro più importante del governo, ma i 5S dovevano anche fare i conti con una sessantina di secessionisti, nonché con un nuovo gruppo parlamentare nato dal seme del tradimento, Insieme per il futuro.
La posizione del centrodestra
La situazione in Parlamento era tesa. Dall’opposizione, Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia) puntava tutto sulle elezioni, forte dei sondaggi che, a oggi, la danno favorita. E già prima che Draghi mettesse piede alle Camere, l’ex ministra della Gioventù lavorava su una possibile squadra di governo. Meno tranchant il resto del centrodestra. Dopo alcuni tentennamenti, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi (Forza Italia) si erano detti favorevoli a un Draghi bis, depurato però dai Cinque Stelle. L’apertura a un nuovo esecutivo può essere interpretata come una strategia per liberarsi una volta per tutte dei grillini, lacerati dalla possibilità di ulteriori scissioni. Tre giorni prima del discorso di Draghi alle Camere, infatti, Conte era passato dal pre-ultimatum all’ultimatum: «Senza risposte chiare», i pentastellati sarebbero passati all’opposizione o all’appoggio esterno. Una dichiarazione che aveva inasprito ancor di più i malumori nel partito: altri parlamentari, guidati dal capogruppo alla Camera Davide Crippa, avrebbero rotto le righe per raggiungere Di Maio.
Dimissioni rifiutate
L’uscita dall’Aula del M5S, per Draghi, era un punto di non ritorno. D’altronde, pochi giorni prima della votazione sul Decreto Aiuti, era stato esplicito: «Se si fa fatica a stare in questo governo bisogna essere chiari. Per me non c’è un governo senza 5 Stelle». Così, sempre il 14 luglio, l’inquilino di Palazzo Chigi saliva al Colle per rassegnare le dimissioni. Al termine del secondo colloquio veniva diffusa una nota del Quirinale, in cui si leggeva: il presidente della Repubblica «non ha accolto le dimissioni e ha invitato il presidente del Consiglio a presentarsi al Parlamento per rendere comunicazioni, affinché si effettui, nella sede propria, una valutazione della situazione che si è determinata». Comunicazioni che sarebbero iniziate il 20 luglio.
20 luglio, una giornata «di follia»
Non erano neanche le 10 quando il presidente del Consiglio iniziava il suo discorso a Palazzo Madama. Ha spiegato le ragioni delle sue dimissioni (poi rifiutate), una «scelta sofferta ma dovuta». E poi: «L’unica strada se vogliamo ancora rimanere insieme è ricostruire daccapo questo patto, con coraggio, altruismo, credibilità. A chiederlo sono soprattutto gli italiani». Tutti applaudivano. Tranne i senatori del M5S e della Lega. Le ore successive, per i partiti, erano all’insegna del brainstorming: votare o non votare la fiducia? Forza Italia e Lega si davano appuntamento alle 13 per decidere la mossa successiva. Anche Giuseppe Conte incontrava i suoi. A rompere gli indugi è stato Massimiliano Romeo, capogruppo della Lega, con un discorso rivolto a Draghi che avrebbe fatto tremare i polsi a quanti, nella sinistra, continuavano a richiamare gli avversari alla responsabilità: «Noi ci siamo se si tratta di fare una nuova maggioranza senza M5S, e se serve ricostituire un nuovo governo».
Poco dopo, la Lega depositava una risoluzione, a firma di Roberto Calderoli, in cui veniva chiesto che «nella compagine governativa fossero comprese esclusivamente» le forze «espressione dei partiti che hanno votato a favore della fiducia nella seduta del Senato del 14 luglio». I 5 Stelle erano dunque esclusi. Pier Ferdinando Casini rispondeva allora con un’altra risoluzione: «Il Senato, udite le comunicazioni del presidente del Consiglio dei ministri, le approva». Tradotto, il documento sarebbe stato posto ai voti anche senza le firme dei capigruppo del centrodestra. Draghi, a quel punto, chiedeva che venisse posto il voto di fiducia sulla seconda risoluzione. Il vaso era caduto: Salvini e Berlusconi informavano che Lega e Forza Italia non avrebbero votato la risoluzione di Casini, mentre, durante la chiama sulla fiducia, i pentastellati si definivano «presenti e non votanti», così da garantire il numero legale nella votazione.
La crisi del centrodestra
Nel centrodestra, però, qualcosa non andava, e gli effetti si sono visti già nell’immediatezza del post-voto. Forza Italia ha iniziato ad andare in pezzi: la ministra per gli Affari Regionali, Mariastella Gelmini, annunciava la sua uscita dai forzisti: «Questa Forza Italia non è il movimento politico in cui ho militato per quasi venticinque anni […] Ha ceduto lo scettro a Matteo Salvini». Poche ore dopo, anche il ministro della Pubblica Amministrazione, Renato Brunetta, si dimetteva dal partito con dichiarazioni al veleno («frattura con il mondo di valori in cui credevo», ha detto ai cronisti). Nella serata del 21 luglio, anche l’ultima dei ministri forzisti, Mara Carfagna, ministra per il Sud e la Coesione territoriale, avviava un «momento di riflessione», che con ogni probabilità renderà orfano il suo partito di tutti i suoi ministri nel governo Draghi. Nella Lega, già da tempo attraversata da un dualismo con protagonisti il segretario Salvini e il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, si prospettano giornate febbrili. Molto dipenderà dagli intendimenti degli amministratori locali, per lo più favorevoli alla prosecuzione dell’esperienza di governo di larghe intese: se la delusione supererà la fiducia nella linea pro-elezioni, e se Giorgetti si convincesse di avere i numeri per lo strappo, il partito potrebbe uscirne spaccato. Quanto al Campo largo del centrosinistra, Letta ha dato poche speranze: basta inseguimenti ai 5 Stelle, «ora pensiamo a noi».