Decine di migliaia di persone in preda alla disperazione per la povertà e la fame hanno occupato il palazzo simbolo del potere di stato. Non si tratta di una rivolta settecentesca ma di quanto è accaduto il 9 luglio in Sri Lanka. Il Paese si è trovato a fare i conti, per mesi, con la peggiore crisi politica, economica, sociale e culturale degli ultimi anni: dall’inflazione galoppante alla dichiarazione di default, fino al rischio della mancanza di cibo. Basti pensare che, rispetto al 2019, il prezzo del riso, che è alla base dell’alimentazione del Paese, è aumentato del 95%. Il popolo è esploso e ha occupato il palazzo presidenziale: centinaia di persone hanno saccheggiato le cucine e tante altre si sono tuffate nella piscina della residenza. Per ore del capo di Stato, Gotabaya Rajapaksa, non si sapeva altro se non che fosse stato portato in un “luogo sicuro”. Poi successivamente, lo stesso giorno, anche la residenza ufficiale del premier Ranil Wickremesinghe, eletto solo due mesi prima, è stata invasa e bruciata dai manifestanti. Cosa ha portato a tutto questo?
Il graduale fallimento economico sotto la guida della famiglia Rajapaksa
L’isola, perla dell’oceano indiano, si è saputa riprendere modestamente dopo il disastroso tsunami del 26 dicembre 2004. Nonostante l’arretratezza sul piano democratico, i piani di ricostruzione e sviluppo successivi alla catastrofe naturale hanno dato al Paese un buon livello di reddito. Poi è avvenuta, gradualmente, la salita al potere dei Rajapaksa, che hanno assunto varie cariche pubbliche dal 2004 al 2015, per poi ritornare ad affermarsi in occasione delle elezioni amministrative del 2018 e presidenziali del 2019, con le quali si è raggiunto il culmine del potere della famiglia, in particolare sotto la presidenza di Gotabaya Rajapaksa, con il fratello Mahinda Rajapaksa come premier e il figlio, Lakshman, come ministro dello Sport; il fratello Basil ministro delle Finanze e altri parenti posizionati in posti chiave dell’amministrazione civile e della struttura militare. L’impoverimento è stato graduale e si è acuito di pari passo con i sempre più frequenti fenomeni di nepotismo e corruzione e con l’aumento del debito. Ciò si è tradotto in serie difficoltà nella vita quotidiana degli oltre 22 milioni di abitanti dell’isola, di cui il 61% è si trovato costretto a ridurre quantità e qualità degli alimenti per i prezzi alle stelle. Il Programma alimentare mondiale stima che un terzo della popolazione dello Sri Lanka non ha la possibilità di acquistare il cibo necessario.
Una crisi che, proprio negli ultimi mesi, ha raggiunto l’apice: a marzo i pochi prodotti ancora disponibili sul mercato hanno raggiunto un aumento medio del prezzo del 30%. Una vera emergenza, a cui le autorità governative hanno risposto invitando i cittadini a coltivare più riso e per raggiungere questo obiettivo hanno concesso loro un giorno di riposo in più ogni settimana, a patto che questo venisse impiegato per lavorare la terra e coltivare degli orti nei pressi delle loro abitazioni. Eppure questa soluzione non ha affatto soddisfatto i cittadini cingalesi, ormai troppo provati da mesi e mesi di carestia: quattro cittadini su cinque non riuscivano a consumare tutti i pasti quotidiani. In questo contesto i tempi erano ormai maturi e migliaia di oppositori non sono più riusciti a contenere il malcontento e si sono radunati nella capitale Colombo, dove hanno protestato per giorni. Il governo ha tentato di arginare la rabbia del popolo mettendo in campo centinaia di agenti della polizia che non si sono risparmiati e hanno provocato decine e decine di feriti. Un intervento comunque insufficiente e incapace di frenare l’impeto popolare e l’insistente e ormai violenta richiesta di un cambio di regime. Di qui l’occupazione del palazzo presidenziale e la fuga a Singapore del presidente Gotabaya Rajapaksa.
Le sfide del nuovo governo
Per arginare la rivolta il parlamento srilankese ha tentato di correre ai ripari quanto prima eleggendo un nuovo presidente: Ranil Wickremesinghe, primo ministro dello Sri Lanka fino a pochi giorni prima dell’occupazione. Un nome, insomma, non nuovo al paese. Wickremesinghe è un veterano della politica del paese: avvocato di professione, primo ministro per sei volte, incluso il mandato iniziato lo scorso maggio, è il leader dello United National Party, formazione di centrodestra e più antico partito srilankese. Con il raggiungimento del culmine della crisi economica di quest’anno, Rajapaksa lo aveva nominato premier a maggio. Fino a luglio il suo governo ha dovuto affrontare un periodo molto travagliato, tentando anche di venire incontro alle richieste politiche dei partiti di opposizione e soprattutto a quelle del popolo.
Assunto il nuovo incarico di capo di Stato, Wickremesinghe, ha di fronte mesi altrettanto impegnativi, in cui ci si attende una ripresa dei colloqui tra il Fondo Monetario Internazionale e il nuovo governo dell’isola. Con un debito estero di oltre 50 miliardi di dollari, uno dei compiti del presidente sarà negoziare un piano di salvataggio. Ma c’è anche un’altra sfida prioritaria: risollevare il settore del turismo, che traina l’economia del paese (terza fonte di entrata) e che ha subito un duro colpo in primis con gli attentati terroristici di Pasqua 2019, in cui morirono 260 persone, in seguito con la pandemia. Poi c’è la mancanza dei carburanti, di cibo e di altri beni di prima necessità, nonché l’aumento dei prezzi delle materie prime dovuto anche alla guerra in Ucraina. Tante, insomma, le emergenze da risolvere e per far questo Wickremesinghe ha detto di volere “un governo di unità nazionale, per salvare l’economia della travagliata isola dalla bancarotta e per fare riforme dolorose ma necessarie”.
La dipendenza dalla Cina
In seguito allo scoppio di questa crisi molti analisti hanno sostenuto che lo Sri Lanka potrebbe essere solo il primo di una lunga serie di paesi, nelle stesse condizioni economiche e dunque a basso reddito, a ritrovarsi in una situazione di tale emergenza politica, economica e sociale. Molti si sono interrogati anche sulle concause della crisi, tra cui il funzionamento del debito contratto con la Cina, che ammonta a 6,5 miliardi di dollari. Lo Sri Lanka, in quanto occupa una posizione strategica lungo le rotte navali delle Vie della Seta, fa molto gola ai cinesi nell’ambito del loro piano espansionistico Belt and Road Initiative (iniziativa strategica della Repubblica Popolare Cinese per il miglioramento dei suoi collegamenti commerciali con i paesi nell’Eurasia); negli ultimi anni, pertanto, sono aumentati considerevolmente i contatti tra i due paesi asiatici. Il governo di Colombo per finanziare diverse infrastrutture come porti, aeroporti, strade, ferrovie e connessioni anche digitali, si è fortemente indebitato con Pechino. Lo scopo di questi accordi, per i Rajapaksa, era aumentare il livello di sviluppo del Paese, rendendolo più attraente per altri investimenti esteri e più “turisticamente” evoluto. Tra i tanti prestiti arrivati da Pechino, uno dei più rilevanti è quello per la costruzione del porto di Hambantota, situato a dieci miglia nautiche dalla rotta marittima globale che collega l’Estremo Oriente con l’Occidente; una posizione strategica nell’Oceano Indiano, dove viene scambiato il quantitativo più alto al mondo di petrolio.
L’accordo, apparentemente molto proficuo, si è trasformato però in una trappola e ha costretto il governo di Colombo – incapace di ripagare Pechino – ad attivare una clausola del contratto che prevedeva la concessione, per 99 anni, del porto stesso. Dunque il Paese si è trovato non solo a dipendere dalla Cina, ma anche a perdere una parte molto strategica del territorio sovrano. Quest’episodio può essere un campanello di allarme per altri Stati: lo Sri Lanka infatti non è l’unica nazione ad avere ricevuto credito dalle banche cinesi, pertanto non è escluso che altri Paesi in condizioni economiche analoghe o peggiori possano trovarsi nella stessa situazione. Se da un certo punto di vista lo Sri Lanka attende la ripresa dei colloqui con il Fondo monetario Internazionale, che punta sulla ristrutturazione del debito, dall’altra teme che la Cina possa ostacolare questo processo. Pechino, infatti, ha dichiarato che i colloqui tra Sri Lanka e Fmi potrebbero far cambiare idea al regime sulla concessione di un ulteriore prestito all’isola. Un problema non da poco questo, considerando che la sopravvivenza di Colombo, già fortemente minata, è appesa a un filo. E quel filo passa anche per Pechino.