“Pejë o Peć?” Il primo punto interrogativo appena scesi da un Lockheed C-130J dell’Aeronautica militare italiana, un aereo da trasporto tattico partito dall’aeroporto militare di Pisa e atterrato a Pristina, capitale del Kosovo, il 5 ottobre scorso, si traduce in due lingue, albanese e serba, entrambe ufficiali nel paese. Per capirne il perché bisogna scavare tra la storia recente dei Balcani, dell’Europa, della Nato, delle Nazioni Unite ma anche dell’Italia, portare indietro le lancette all’estate del 1998 e attraversare un confine, immaginario e geografico, fatto proprio di lingue, religioni e culture diverse, di bandiere, di Est ed Ovest, di basi militari, di cimiteri per le strade, di guerra e di pace. Per capirne il perché abbiamo trascorso 9 giorni nella Repubblica del Kosovo, lo Stato proclamatosi indipendente il 17 febbraio 2008, riconosciuto tale da 100 Stati membri dell’ONU su 193 (tra cui l’Italia), e dove dal 12 giugno 1999 è iniziata la missione Kosovo Force (KFOR), la forza militare internazionale guidata dall’Alleanza Atlantica responsabile di ristabilire l’ordine e la pace in Kosovo su mandato delle Nazioni Unite. Le Forze Armate italiane, oltre ad aver assunto la leadership della più longeva delle operazioni della NATO, detengono dal 1999 il comando della regione occidentale del Kosovo. All’operazione, che vede la partecipazione di circa 3700 unità provenienti da 20 Paesi Nato e 8 partner, l’Italia fornisce il contingente più numeroso, con 638 militari, 230 mezzi terrestri e un mezzo aereo.
“Pejë o Peć?” Il quesito si ripropone sulla strada che collega la capitale Pristina proprio a Pejë (o Peć, in serbo), circa 85 km verso ovest quasi al confine con il Montenegro dove ai piedi delle montagne del parco nazionale Bjeshkët e Nemuna è situato il CVI, il Camp Villaggio Italia, nella località Belo Polje. Nel tragitto in macchina, scortati dai Carabinieri italiani, la sensazione è quella di essere in un Paese vivo e in costruzione, tra numerosi cantieri che risaltano agli occhi lungo la strada e automobili di grossa cilindrata: alcuni segnali stradali, però, sono solo in albanese (le scritte in serbo sono state cancellate) e i colori delle bandiere sembrano creare confusione. L’aquila nera sullo sfondo rosso di quella albanese fa da padrona fino a destinazione, a Pejë, insieme ai simboli dell’Ushtria Çlirimtare e Kosovës (UÇK o UCK), nome albanese dell’Esercito di liberazione del Kosovo (ELK). Ormai è buio pesto ma l’oasi nel deserto dove gli italiani arrivarono il 14 giugno del 1999 è ancora qui, a oltre 600 metri sul livello del mare, immersa nella natura e nel silenzio. Anche se la macchina della difesa non si è mai fermata da 23 anni: i prefabbricati Corimec sono aumentati ospitando migliaia di militari che in questi anni hanno prestato servizio in Kosovo nella base italiana dove ha sede il quartier generale del Comando regionale occidentale RC-W, diretto dal 26 luglio scorso dal colonnello dell’Esercito italiano Ivano Marotta – oltre al contingente italiano vi è anche il contributo in loco di Austria, Albania, Croazia, Macedonia del Nord, Moldavia, Polonia, Slovenia, Svizzera e Turchia.
Una storia, tante storie
Viene ricordato come uno dei capitoli più sanguinosi del conflitto nei Balcani seguito alla dissoluzione della Jugoslavia: siamo in Kosovo, una Repubblica parlamentare stretta tra Serbia, Macedonia del Nord, Albania e Montenegro, abitata da poco meno di 2 milioni di abitanti in poco più di 10.000 km quadrati – la sua estensione può essere paragonata a quella dell’Abruzzo. Il cuore dei Balcani senza nessun sbocco sul mare ma piena di confini e frontiere: il suo passato è conosciuto per essere stato animato da sempre da un dualismo tra l’etnia serba e quella albanese, ancora presente nel Paese. Tanto da essere divisa, ieri come oggi, tra gruppi nazionali, religioni e lingue diverse. Una maggioranza fatta di albanesi e musulmani da una parte e una minoranza di bosgnacchi, serbi, cattolici e ortodossi dall’altra. La sua storia presente si mischia con un passato difficile da cancellare in una terra anticamente abitata dagli Illiri, stanziatisi nei Balcani occidentali dal 2000 a.C., e l’avvento delle popolazioni slave tra il V e il VI secolo d.C. Nel XII secolo la presenza slava si consolidò nella regione della Raška, a nord del Kosovo, diventato poi il nucleo del primo Stato serbo, sotto la dinastia dei Nemanjia, stabilendo anche la chiesa autocefala serba nel monastero di Zica per poi essere re-insediata nel 1250 a Pejë/Peć. Dopo la battaglia di Kosovo Polje, anche nota come quella della Piana dei Merli, del 28 giugno 1389, il Kosovo venne riconquistato dai turchi ed entrò a far parte dell’impero ottomano. Cinque secoli di dominazione ottomana, le guerre balcaniche, il Maresciallo Tito, Slobodan Milošević e Ibrahim Rugova, il ‘sogno’ della Grande Albania da una parte e la Serbia dall’altra: i protagonisti e gli eventi che hanno portato alla guerra del febbraio del 1998 tra le truppe federali jugoslave e l’UÇK è un filo rosso sangue degli oltre 13.000 civili morti. È lo sviluppo del nazionalismo serbo e i presunti crimini di guerra attribuiti all’UÇK durante e dopo il conflitto del 1999.
È una difficile convivenza tra due Stati e il fallimento di ogni accordo fra le parti opposte che determinò l’inizio dell’attacco NATO contro la Repubblica Federale nel marzo 1999, conclusosi solo a giugno dello stesso anno quando Belgrado accettò il piano di pace proposto dai paesi del G8 (con l’invio di truppe NATO). L’operazione Allied Force è la seconda azione militare nella storia della NATO (dopo l’operazione Deliberate Force del 1995 in Bosnia ed Erzegovina), e la prima volta in cui l’Alleanza Atlantica usò la forza militare senza l’approvazione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. La risoluzione 1244 dell’Onu, adottata il 10 giugno 1999, autorizzò una presenza internazionale civile e militare nel Kosovo, allora parte della Repubblica Federale di Jugoslavia, ponendolo sotto l’amministrazione provvisoria delle Nazioni Unite. Entrambe le parti in conflitto successivamente la adottarono nell’Accordo di Kumanovo. Dopo una iniziale amministrazione internazionale, nel 2008 il Kosovo ha dichiarato la sua indipendenza, attualmente riconosciuta solo da una parte della Comunità internazionale. Alla fine del 2020 113 dei 193 membri dell’Onu avevano formalmente riconosciuto il Kosovo come Stato indipendente, compresi quelli confinanti di Montenegro, Macedonia del Nord e Albania. Agli inizi di marzo dello stesso anno, però, 15 membri delle Nazioni Unite hanno ritirato il loro placet. Tra i membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, il Kosovo è riconosciuto da Stati Uniti, Francia, Regno Unito; tra i Paesi della Ue, Grecia, Slovacchia, Spagna, Romania e Cipro sono ancora contrari all’indipendenza di Pristina. Con Russia e Cina che continuano a considerarlo una provincia con autonomia amministrativa della Serbia.
Il ruolo dell’Italia
Alla mezzanotte del 12 giugno 1999 il contingente italiano entrava in Kosovo. Da quel momento, non se ne è più andato, aiutando il Paese a mantenere la pace, la libertà di movimento, assistendo le istituzioni locali e contribuendo alla cooperazione in ambito internazionale. A sottolinearlo, a 23 anni dall’inizio della missione internazionale, anche il generale Angelo Michele Ristuccia lo scorso 10 ottobre in occasione della cerimonia di insediamento come nuovo comandante KFOR, il tredicesimo italiano. “Dal 1999 l’Italia è in prima linea in Kosovo. L’incremento delle nostre forze, con l’assunzione del comando, fa parte di un impegno che caratterizza l’interesse italiano per un’area di forte competizione geopolitica, laddove la pace e la stabilità giocano un ruolo determinante per gli equilibri internazionali”. È il generale appena insediato a sottolineare ancora una volta come l’Italia rappresenti il maggiore contributore tra le 27 Nazioni di KFOR, spiegando come il ruolo del Paese sia cambiato negli anni: “molti obbiettivi sono stati conseguiti, rimangono da raggiungerne altri sempre nell’efficacia del dialogo, della pace, della libertà di movimento verso un equilibrio stabile”. Una piramide, italiana, ben solida nel Paese dove ha la responsabilità del Comando regionale occidentale RC-W, basato su tre elementi multinazionali: un battaglione cinetico, un battaglione non-cinetico e un gruppo di supporto logistico.
Il primo rappresenta la componente di manovra del Comando, incaricata di supportare le organizzazioni locali e internazionali in caso di deterioramento della situazione di sicurezza in Kosovo e rapidamente dispiegabile in tutta l’area di responsabilità della RC-W. Il secondo, il battaglione non cinetico, è invece incaricato di supportare la situational awareness e di condurre la campagna di comunicazione insieme alle autorità locali per monitorare costantemente la situazione sociale, economica, politica e di sicurezza dell’area. Opera anche con 12 assetti chiamati Liaison and monitoring teams (Lmt), che contribuiscono a migliorare le relazioni con le comunità dell’area e a promuovere la credibilità di KFOR nei confronti dei cittadini. E poi il Multinational specialized unit (MSU), composto interamente da Carabinieri italiani e comandato dal gennaio scorso dal colonnello Maurizio Mele, che fornisce anche la consulenza al comando di KFOR su tutte le questioni di polizia civile. “Immaginare KFOR come una forza granitica sarebbe il fallimento stesso della missione – dichiara l’ufficiale dell’Arma nella base del Reggimento MSU di Pristina, non lontano da Camp Film City, sede della KFOR -, anni fa c’era la presenza di mezzi blindati, l’assetto era molto più combat. Oggi il modello di MSU è quello di pattugliamento come lo abbiamo in Italia, per dare alla popolazione una sensazione di fiducia, con un allentamento della postura”. Un impegno, quello dell’Arma in Kosovo, fin dal 1999 con la Kvm (Kosovo Verification Mission), come osservatori militari sotto bandiera Osce, con complessivi 15 militari distribuiti tra Pejë/Peć, Pristina, Mitrovica, Prizren, Ohrid.
Ma anche in Albania con le tre Missioni Ueo-Mape, Bilaterale e Die, e in Bosnia principalmente nella Msu-Sfor. “Oggi abbiamo una presenza al pari di qualsiasi Paese a noi prossimo, il passaggio è libero. Entrambi i lati (kosovari albanesi e kosovari serbi) vedono in KFOR lo stesso riferimento di sicurezza – continua Mele -. A differenza di altre missioni dimostriamo e crediamo più di altri in questo percorso, diamo qualcosa di concreto. Non solo per mettere un tic sulla casella”. Già comandante del Reparto Corsi e insegnante di Attività e Tecniche di Polizia nel Centro di Eccellenza per le Stability Police Units dell’Arma dei Carabinieri, Mele è oggi alla guida di quasi 200 uomini, pronti ad intervenire in ogni momento: “la situazione in Kosovo è in continuo divenire, fluida, che usiamo definire sostanzialmente calma ma con un equilibrio fragile. Questo è dato dalle caratteristiche stesse della missione: siamo qui per garantire quel processo di evoluzione che nel corso degli anni ha già raggiunto numerosi successi, ma che ha bisogno ancora di una costante presenza della comunità internazionale che si concretizza con la presenza di KFOR su tutto il territorio kosovaro”. Fondamentale, infatti, anche l’affiancamento e il pattugliamento dei Carabinieri italiani alla Polizia locale kosovara: “non possiamo permetterci di abbassare la guardia”, conclude il colonnello. Un aspetto, quello di continuare ad esserci, enfatizzato dal generale Ristuccia, non solo in occasione dell’insediamento, ma come leit motiv della missione per fare in modo che grazie a KFOR si raggiunga la piena integrazione: “non ci sono alternative, non ne abbiamo”.
Il Camp Sparta
L’appuntamento è al Camp Sparta, nella zona di Decani, a 20 minuti da Pejë/Peć: gli assetti cinetici multinazionali del Regional Command West sono quasi tutti qui per l’attività basata sul tema addestrativo del controllo della folla, ovvero Crowd and Riot Control, con un approfondimento operativo focalizzato su uno scenario caratterizzato da atteggiamenti particolarmente aggressivi, con gestione di feriti e conseguente evacuazione. Dinamicità e concentrazione nei ritmi di esecuzione, sono queste alcune delle caratteristiche dei moduli addestrativi delle unità del Battaglione Cinetico di RC-W, condotti per mantenere alto il livello di attenzione ed essere pronti in caso di necessità. Perché Decani è l’unico luogo dell’area dove l’Italia, nella realtà KFOR, può agire come first responder, ovvero prima della polizia del Kosovo e della missione EULEX dell’Unione Europea. Un cross-training integrato dedicato al mantenimento di una completa capacità operativa e organizzativa, frutto di un concetto di azione applicato dai contingenti multinazionali che formano la Missione Joint Enterprise a Camp Villaggio Italia. Un’esercitazione con tanto di manifestanti e un tassello in più per il continuo progresso nell’efficienza delle forze in gioco e nell’efficacia di assolvere prontamente, e in ogni momento, qualsiasi tipo di sommossa.
Il Monastero di Decani
“La storia è qualcosa che non è mitologia, la storia sono i fatti”. Non usa mezzi termini Padre Sava, abate del monastero ortodosso di Visoki Decani, situato ai pendii delle montagne di Prokletije, nella parte occidentale della provincia di Kosovo e Metohia, circondato da un intenso verde nei pressi del fiume di Bistrica. “In Kosovo sono le stesse autorità che non rispettano alcune decisioni e leggi”, continua padre Sava. È abituato a parlare con i giornalisti – anche se non gli piace essere considerato una figura politica -, e a raccontargli la sua versione dei fatti legata indissolubilmente alla storia del Kosovo e alla guerra del ’98-‘99. Prima di farlo, però, posa sorridente davanti al Monastero, una perla artistico-architettonica, costruito fra il 1327 e il 1335 dal Re Stefano Uros III Decanski e patrimonio dell’Unesco dal 2004. “Anche se le insegne per arrivare qui vengono sistematicamente vandalizzate”, dice. Non è un caso che subito dopo l’arrivo delle forze di KFOR in Kosovo, il monastero sia stato messo sotto la protezione dei militari italiani, che tuttora ne garantiscono la sicurezza giorno e notte. Un legame, quello tra il monastero e l’Italia che passa anche dall’arte: nel 2014 alcuni esperti vennero direttamente da Firenze per la pulizia dei marmi del complesso. Anche se qui gli unici ben visti sono proprio gli italiani: “è normale che non ci sia nessuna insegna del sito Unesco più importante dei Balcani nella vicina cittadina di Decani?” Chiede in modo retorico Padre Sava, “è come se dicessi a qualcuno di importante che lo ami senza mai fargli un regalo, probabilmente non puoi dire di amarlo poi così tanto”.
È tagliente quanto basta l’abate del monastero, considerato a livello politico-diplomatico una delle figure più importanti nel rapporto tra serbi ed albanesi-kosovari. E ammette che la situazione, oggi, sia ancora molto tesa: “il Kosovo è ancora lontano da essere una società democratica, non posso dire che tutti i serbi siano degli angeli, alcuni di loro hanno commesso dei crimini. Ma il nazionalismo è il vero problema che ostacola i dialoghi tra Pristina e Belgrado”. Ad avvalorare la sua tesi un cimitero serbo abbandonato appena fuori le mura del monastero e le nuove norme sulle targhe che avevano acceso nei mesi scorsi la rabbia dei serbi – dal 1 settembre vige infatti l’obbligo per i serbi del Kosovo di cambiare le loro targhe rilasciate dalle autorità di Belgrado con quelle kosovare: in estate la decisione di Pristina di concedere 2 mesi di tempo per mettersi in regola ed evitare tasse e dazi per un ammontare fino a 5 mila euro. “Il problema delle targhe? – risponde padre Sava -, una cosa stupida se consideriamo che è accaduto durante la guerra in Ucraina. L’Europa è alle prese con un conflitto armato, non abbiamo bisogno di altri disordini nei Balcani”.
Il Ponte che divide
L’indirizzo IP del telefono (l’identificatore unico associato all’attività online) segna Albania, da un ristorante si sente a tutto volume l’ultima hit dei Maneskin, da una parte uno dei tanti cani randagi sosta davanti ad una via tappezzata di bandiere serbe, dall’altra un monumento ad un eroe nazionale albanese viene immortalato dai turisti all’ombra della bandiera rossa e nera. In mezzo, i Carabinieri italiani dell’MSU. Anche se qui non siamo né in Albania né in Serbia, tantomeno in Italia ma sul ponte di Mitrovica (in albanese Mitrovicë, in serbo traslitterato Kosovska Mitrovica), che taglia in due la città, capoluogo dell’omonimo distretto del Kosovo settentrionale ed uno dei principali centri del territorio. Diviso dal 2013, quando la parte nord a maggioranza serba decise di ‘staccarsi’ e costituire un comune a sé stante – da quel momento è sede di tutte le istituzioni serbe nel Kosovo che sono riconosciute dal governo di Belgrado; due anni dopo la morte di Tito, nel 1982, diventò Titova Mitrovica (letteralmente Mitrovica di Tito), tornando al nome originario nel 1991. Una città, due comunità che vivono sulle sponde opposte del fiume Ibar, collegate da un ponte pedonale presidiato dai Carabinieri italiani 24 ore su 24. Una passerella che divide più che unire diventata negli anni emblema delle differenze. Attraversarla vuol dire entrare e uscire da due mondi diversi: quello albanese all’apparenza più ricco e colorato, e quello serbo, grigio, fatto di cani randagi sul ciglio delle strade, di scritte che recitano “Nato go home” (in inglese e serbo cirillico) accanto alla lettera “Z” simbolo della guerra di Putin in Ucraina. E un murales, iconico, che legge (in russo e in serbo), “Kosovo è Serbia – Crimea è Russia”. Le storie sono diverse ma i colori delle bandiere che si intrecciano, quasi come a prendersi per mano, sono ancora qui. Al di là del ponte.