Un incontro inaspettato a cinquant’anni di distanza dallo spaventoso autunno del 2023 in Medio Oriente
“Per favore, le mani contro il muro e le gambe divaricate. Non si muova e non compia azioni brusche”. Obbedisco. I miei polpastrelli sono appoggiati a una carta da parati beige e verde, nel corridoio di una villetta a due piani a ridosso di un bosco fuori Toronto. È dicembre. Piove. Non nevica più da 3 anni. Il ragazzo della sicurezza che mi sta tastando pantaloni, vita, schiena, fianchi e braccia per assicurarsi che io non sia armato ha origini mediorientali. Ma non si direbbe. È pieno di tatuaggi e una cresta ossigenata gli attraversa il cranio.
Sul labbro inferiore, vicino all’angolo della bocca, scintilla un piercing. Il suo compare non è molto diverso. Indossa un cappellino di lana arancione fosforescente e una maglietta nera con il logo della squadra dei Raptors. Sullo zigomo sinistro c’è una stella nera e rossa. Ha lenti a contatto color ghiaccio. Sembrano entrambi appassionati di musica elettronica. Frequentatori di rave. A nessuno verrebbe mai in mente che possano essere agenti di Hamas. E invece.