Arturo Gallia, geografo e ricercatore dell’università Roma Tre, studia dal punto di vista geografico, fisico e umanistico, i complessi sistemi delle piccole isole italiane e del Mediterraneo. Proprio queste sono considerate, ormai da anni uno dei più importanti insiemi insulari del pianeta e giocano un importante ruolo ecologico, economico, sociale, politico e culturale che le loro ridotte dimensioni non lasciano presagire. “Le isole sono dei piccoli laboratori dove accadono dinamiche amplificate, a discapito delle ridotte dimensioni territoriali. Sebbene siano isolate dal mare, rispetto alla terraferma, in realtà il mare rappresenta una risorsa, non solo un ostacolo e una divisione. Nella geografia più recente si chiama ‘acquapelago’, ovvero un prodotto delle attività umane che avviene nell’area di transizione tra terra e mare. Una fascia di transizione dove mare e terra sono legati” afferma Arturo Gallia. In questo contesto di studi, Gallia è il coordinatore a livello nazionale del gruppo di ricerca sulle isole e sugli Stati arcipelagici. Il gruppo di ricerca sulle isole è nato nel 2017, al suo interno si svolgono attività congiunte sui diversi contesti insulari a livello internazionali. Una delle aree di studio, nonché tra le tematiche contemporanee più urgenti, è la conflittualità tra attori esterni e interni legati al turismo. Il turismo è un’attività umana fondamentale per le isole che, al tempo stesso, crea conflittualità tra chi gestisce il turismo e la comunità abitante dell’isola. D’estate vediamo un grandissimo svolgimento di attività umane legate al turismo marittimo, d’inverno tutto questo non c’è più, così come l’attività economica predominante. Parte degli abitanti abbandonano l’isola per la terraferma, anche a causa dell’assenza dei servizi di base, come la scuola. Le isole ponziane, lungo la costa laziale, soffrono di questa dinamica. “Ponza e Ventotene (in provincia di Latina) d’estate vedono moltiplicare la presenza umana, per il turismo marittimo, mentre d’inverno si dimezza proprio perché molte persone tornano sulla terraferma per fruire dei servizi primari. Questo meccanismo determina da un lato un’attività turistica ed economica intensa, dall’altro un impatto antropico fortissimo sia per la presenza a terra che in mare ma, al tempo stesso, anche un impatto ambientale. Nella stagione invernale c’è uno svuotamento vero e proprio, nonostante la promozione del turismo lento e di attività promosse in inverno, questo non è sufficiente a compensare l’attività estiva. Si comportano diversamente le isole partenopee che non hanno questa decompressione invernale perché, d’inverno, agiscono come quartieri distaccati di Napoli. In questi “quartieri” non ci si muove con la metropolitana o la funivia, ma con l’aliscafo. C’è una forte eterogeneità: questo pendolarismo molto accentuato, dove la distanza è solo una distanza geografica, fa sì che le isole siano vissute anche d’inverno. Analogamente si comportano Pantelleria e Lampedusa che, grazie alla presenza di aeroporti, sono raggiungibili tutto l’anno” afferma Arturo Gallia. In conclusione, possiamo dire che studiare le isole d’inverno ci permette di conoscere un mondo a parte, dove tutto è amplificato e dove i conflitti e le possibilità vengono analizzati per coglierne delle risorse, da replicare altrove”.
Isole, piccoli laboratori tra mare e terra – L’acqua come nodo conflittuale nelle isole minori
Arturo Gallia non si occupa di isole, da sempre; inizia i suoi studi focalizzandosi sulle risorse naturali nei contesti desertici ed è qui che trova delle analogie con i contesti insulari. Come le aree desertiche, anche le isole presentano risorse naturali endogene scarse, a cui dover sopperire. Considerando le criticità ambientali, una delle tematiche più urgenti su cui verte lo studio del geografo è l’approvvigionamento idrico, tanto dal punto di vista territoriale e ambientale, quanto da quello dello sviluppo. L’acqua, su un’isola, è particolarmente indispensabile alla vita domestica ed economica e fondamentale per l’agricoltura e il turismo, ma è scarsa e limitata. Per questo e per il costante aumento della domanda idrica, dalla capacità che avranno le società insulari mediterranee di ottenere e di gestire questa risorsa dipenderà, in gran parte, il loro avvenire. “Nel corso del tempo, le società insulari hanno imparato a sfruttare le risorse, seppur modeste, di cui disponevano e, nel caso dell’acqua piovana, hanno provveduto a raccoglierla in cisterne o in altri bacini. Gli impluvi, di semplice ed economica costruzione e noti fin dall’epoca romana, hanno permesso un’agevole raccolta e hanno caratterizzato perfino la costruzione delle abitazioni attraverso lo sfruttamento della superficie del tetto per raccoglierla e convogliarla in cisterne, costruite, in genere, nel sottosuolo in prossimità della casa, per una migliore conservazione e un facile accesso. È pertanto possibile evidenziare alcune similitudini, funzionali, più che estetiche, nelle innumerevoli abitazioni che costellano le coste delle isole del Mediterraneo” tratto dal Geotema 67, AJ. Capita sempre più frequentemente che le soluzioni tradizionali di raccolta delle risorse idriche non siano sufficienti a soddisfare le richieste del periodo estivo, anche per la scarsezza delle precipitazioni durante il corso dell’anno. Tra le soluzioni ci sono diversi sistemi di approvvigionamento supplementare, ma tre sono quelli maggiormente utilizzati: navi-cisterna provenienti dalla terraferma; la realizzazione di acquedotti sottomarini; il dissalamento dell’acqua marina. Il sistema più efficace prevede il dissalamento dell’acqua captata dal mare e resa potabile per i diversi usi. È l’unico utilizzabile nella maggior parte delle piccole isole mediterranee che si trovano abbastanza lontane dalla terraferma, come ad esempio Lampedusa. Il problema maggiore rimangono gli alti costi di realizzazione e di gestione. Al di là di questi sistemi di approvvigionamento supplementare, è importante ricordare che sono i comportamenti umani a dover svolgere un ruolo essenziale per la salvaguardia dell’acqua.
Isole, piccoli laboratori tra mare e terra – L’approvvigionamento idrico di Ponza
Per le dimensioni ridotte, la conformazione morfologica e geologica e la distanza dalla terraferma, l’isola di Ponza (Lt), ad oggi, non ha riserve idriche naturali. “Eppure, fino alla metà del XVIII secolo varie testimonianze attestavano che, oltre a una folta vegetazione, l’isola disponeva di acqua dolce. La trasformazione del territorio e del paesaggio, prima, e l’incremento demografico, poi, nonché l’avvento del turismo nel secondo dopoguerra hanno, da una parte, ridotto le risorse idriche endogene e, dall’altra, provocato l’incremento della domanda idrica, soddisfatta ancora oggi per mezzo di navi cisterna” tratto da Geotema 67 dell’Associazione Geografi Italiani. Durante i processi di popolamento del Settecento, le strutture idrauliche preesistenti – di epoca romana e di età moderna – sono state recuperate: alcune sono state destinate alla funzione originaria, altre sono state impiegate per scopi diversi. Il loro recupero è stato coniugato con i saperi idrici e agricoli importati dai nuovi abitanti provenienti dalle aree circostanti alla città di Napoli. Ma fu l’apertura della miniera di bentonite, nel 1936, a provocare il primo disastro ambientale di Ponza, causa del prosciugamento dell’unica sorgente d’acqua dolce, la stessa che diversi secoli prima riforniva l’acquedotto romano. “Oggi, l’impatto turistico, concentrato esclusivamente nei tre mesi estivi, incide sulle risorse naturali in maniera sproporzionata rispetto alle esigenze annuali della popolazione locale. Il consumo di energia elettrica, di acqua potabile e di alimenti, infatti, è moltiplicato anche di cento volte e concentrato in un lasso di tempo molto breve, con effetti susseguenti anche sui rifiuti solidi e liquidi” sostiene Arturo Gallia.
Isole, piccoli laboratori tra mare e terra – Crisi climatica degli ambienti costieri
Tra le tematiche di studio dell’Associazione dei Geografi Italiani, di cui Arturo Gallia è il coordinatore nazionale, c’è l’impatto ambientale della crisi climatica sulle coste. “Gran parte delle isole del Mediterraneo sono di origine vulcanica e per questo molto fragili. Il turismo di massa significa anche più barche in circolazione, più movimento sull’isola, più rifiuti e cibo da spostare. Lo stesso moto ondoso delle barche o innalzamento delle acque comportano un’erosione più veloce della costa o, addirittura, la chiusura di spiagge e calette a causa del distaccamento di pareti rocciose” sostiene Arturo Gallia. Basti pensare alla chiusura della spiaggia del relitto Navagio di Zante (Grecia), per le frane della parete rocciosa, o Chiaia di Luna a Ponza (Lt) dal 2001, la stessa isola dove si stima che il 97% delle spiagge sia inaccessibile a causa delle frane. Gli impatti del turismo in termini di cementificazione, consumo di suolo e risorse, omologazione del paesaggio, iper-concentrazione dei servizi, superamento delle soglie di capacità di carico e riduzione della biodiversità endemica sono sconvolgenti e irreversibili. Oggi, su questi processi geostorici, i territori insulari pagano pegno e fanno i conti con il cambiamento climatico che minaccia le isole di erosione, acidificazione delle acque e il loro innalzamento, che mette a rischio insediamenti, infrastrutture portuali e resort costieri. Le denunce, globali e locali, dei movimenti ambientalisti, così come le reazioni da parte delle comunità isolane, sono espressione di una tensione verso la ricerca di nuovi modelli turistici, in equilibrio con le risorse ambientali e con le specificità delle culture tradizionali. “Un’azione utile sarebbe rivedere il posizionamento delle destinazioni insulari nel mercato globale, come anche a ripensare la governance locale del turismo nelle regioni insulari. Dare il via a forme alternative al solito turismo balneare che, investe in massa l’estate, è l’unica strada percorribile per cambiare rotta” afferma Gallia. È la somma di tutto questo che rende le isole laboratori territoriali per testare strategie di valutazione e gestione degli impatti ambientali.