“Brutte figure quasi quotidiane degne di noi. Quindi grazie di cuore Parigi, grazie francesi: noi non avremmo saputo fare di meglio”
Ogni 4 anni avviene un miracolo. Come se fossi uno degli eroi di Matrix, mi basta accendere la tv e incontrare uno sport e ne ricordo ogni regola, oppure la apprendo immediatamente. Già oggi, a Giochi olimpici conclusi, nel caso dell’80% delle discipline, avverrà un altro prodigio. Dimenticherò tutto, per poi riappropriarmi di quelle nozioni nell’estate del 2028. Ovviamente questo comporta anche un dispendio emotivo enorme: il dolore per quarti, quinti e sesti posti, per finali mancate, per atleti eroici non medagliati e altri deludenti è stato enorme, così come piangere per due ragazze meravigliose che vincono la Madison (giuro, so cos’è, ma non saprei spiegarlo), Nadia Battocletti che fa un miracolo che, per me, supera persino l’accoppiata Tamberi-Jacobs di Tokyo 2021 (a proposito: Marcell ha dimostrato di essere un campione con un quinto e un quarto posto, più che con quell’oro).
E pure lei, peraltro, vince l’argento mentre Diaz nel triplo prende un bronzo con la stessa identica misura (17,63) con cui 12 anni prima aveva vinto l’oro agli europei Fabrizio Donato (poi il ragazzo, a bronzo ottenuto, riesce pure a fare un centimetro in più) e nello stesso giorno, sempre di 12 anni prima, in cui il coach vinse il bronzo olimpico a Londra. E a proposito di coincidenze, che meraviglia che Andrea Giani – sì, fa male che l’ItalVolley maschile abbia spento la luce sul più bello, ma se doveva perdere, meglio lui di altri – e Julio Velasco si siano ripresi, 28 anni dopo l’oro perduto all’ultimo punto contro l’Olanda ad Atlanta (a proposito, lo sapete che con le attuali regole, sarebbe finita, quella partita, 3-1 per noi?). Julio, che prima dell’oro ci ha dato una lezione di sportività e di etica. Lui, che lo desiderava più di ogni altro quel primo posto alle Olimpiadi, proprio con la maglia azzurra, ci ha detto di smettere, come popolo di guardare a cosa manca. Una dichiarazione – una delle tante sue, è un gigante l’argentino, intellettualmente, politicamente, sportivamente, umanamente – da presidente del Coni.
Ecco, sarebbe bello, averlo su quello scranno. Intendiamoci, nulla contro Giovanni Malagò – non siamo mica Abodi – che durante i suoi mandati ha portato 80 medaglie olimpiche, che senza il M5S avrebbe ottenuto che queste Olimpiadi le avrebbe organizzate Roma, ed è tra i migliori dirigenti sportivi mai avuti dall’Italia. Anzi, qualcosa contro il buon Malagò ce l’abbiamo: facciamo fatica a riconoscere nel presidente coraggioso e indignato per il furto della vittoria allo schermidore Macchi con giudici all’altezza di quelli dei pugili Nardiello a Seoul 88 o Clemente Russo a Pechino 2008, lo stesso che ha bacchettato il Settebello per la protesta gagliarda e efficacissima per lo scandalo dei quarti di finale Italia-Ungheria, con l’espulsione al Var grottesca di Francesco Condemi. Dare le spalle agli arbitri durante l’inno e giocare in 6 per quattro minuti: chapeau, tanto che hanno solidarizzato anche gli avversari spagnoli a cui pure soffiammo l’oro olimpico 32 anni fa, in casa, dopo sei tempi supplementari. Se fossimo cattivi, penseremmo che il monarca Paolo Barelli – comanda in Fin dal 2000 e si è pure ricandidato -, tra i pochi nemici dichiarati di Giovanni Malagò, centri qualcosa in questa presa di posizione. Ma il numero uno del Coni dovrebbe difendere tutti gli sportivi, anche quelli che in Federazione hanno come capo qualcuno che non gli piace.
Però, chissà, magari Barelli vuole provare di nuovo, dopo il fallimento del 2009, a prendere il posto di Giovannino, oppure Malagò stesso, così, vuol dare una spallata al rivale (che denunciò per il doppio finanziamento per gli stessi lavori alla piscina del Foro Italico) e favorire Rampelli per la presidenza Fin. Barelli è capogruppo alla Camera di Forza Italia, il secondo è un fedelissimo di Meloni, con cui poter costruire così un’altra alleanza di potere importante, dopo le polemiche per i mondiali d’atletica mancati per un governo poco incline a sborsare gli 80 milioni di euro necessari, prima promessi e poi sfumati. Ma è fantapolitica sportiva, lasciamo stare. Anzi, facciamo come dice sua maestà Velasco, pensiamo a ciò che abbiamo. E allora diciamolo, che questo paese è un esempio virtuoso sportivamente parlando. Perché se anche le Federazioni non sono sempre specchiate, seppure in alcuni casi dovremmo arrossire (un oro, un argento, un bronzo dal ciclismo su pista, ma non abbiamo in tutta la penisola un velodromo coperto dove si possano allenare questi fenomeni), il nono posto nel medagliere rafforzato dal primo nelle medaglie di legno e affini (quinti e sesti posti: deludenti solo per chi non sa di sport, ma come dice Gabrielleschi del fondo, è tanta roba e dimostrano la salute di tutto un movimento, così come le 40 medaglie in 20 discipline diverse) ci dice che non siamo fortunati (anzi), non siamo politicamente aiutati (gli arbitraggi contro quest’anno sono stati alla Byron Moreno), ma siamo un sistema che funziona. Lo dice, ad esempio, il fatto che in un paese maschilista, in cui esiste ancora una sperequazione reddituale e di potere di genere, la maggior parte degli ori vengano dalle donne.
Tutto questo grazie, va detto, al Coni stesso e a un’idea di sport che poggia per la maggior parte su forze armate, di polizia, accessibili a tutti e che senza borse di studio ricattatorie come negli Stati Uniti – prima concesse e poi tolte se i risultati stentano ad arrivare – o spese private e familiari enormi come in altri paesi, permettono a molti di sviluppare i propri talenti sportivi, mantenendo la possibilità di un futuro lavorativo certo. E, soprattutto per gli sport (e quindi gli sportivi) cosiddetti poveri, è una manna. Fiamme gialle, oro, azzurre, rosse, i centri sportivi di Esercito, Marina, Aeronautica e Carabinieri consentono un accesso democratico e protetto a molti atleti a una possibile eccellenza. E a chi rimane nelle retrovie, di non abbinare ai rimpianti sportivi anni cupi e complessi dopo il ritiro dall’attività agonistica. Con la stessa forza con cui ne denunciamo gli abusi, va riconosciuta questa importantissima funzione. E pure la politica, soprattutto locale, si sforza: migliorano gli impianti, sorgono nei parchi e nelle ville attrezzature sportive, playground, campi sportivi accessibili a tutti, lo sport di base migliora (quello scolastico meno). A proposito di medaglie di legno: che meraviglia Mattarella che convoca anche chi è arrivato ai piedi del podio. Un segnale fondamentale per i vincenti da divano, portatori insani di un’etica demenziale figlia del turboliberismo per cui l’importante è vincere, perché è l’unica cosa che conta. No, è fondamentale il percorso, il modo in cui si è arrivati a un risultato, non i commenti ridicoli degli haters che in una piscina, su una pista, su un ring o una pedana non sono mai saliti e che non capiscono che essere lì, alle Olimpiadi, è già la certificazione di essere tra i migliori. Le lacrime di Benedetta Pilato, quarta per un solo centesimo, che dice “è il più bel giorno della mia vita”, sono un insegnamento straordinario. Da far vedere ai nostri figli, ai dirigenti sportivi, ai politici, nelle scuole (e che brava la campionissima Elisa Di Francisca che dopo, da ex atleta che di sacrifici ne ha fatti davvero tanti, averla contestata in diretta tv, l’ha chiamata: perché chi parla la stessa lingua si capisce sempre).
Ci sarebbe ancora così tanto da dire, di un’Olimpiade bella e imprevedibile per l’Italia, tanti favoriti hanno steccato, tante sorprese hanno sbalordito. La storia di Imane Khelif ad esempio. Politica e sport non possono mischiarsi: politicamente è indegno e sessista l’attacco subito dall’atleta algerina e imbarazzante quanto fatto da Carini, anzi complimenti al suo paese che l’ha nominata portabandiera nella cerimonia di chiusura, ma sportivamente quel testosterone non è un dato trascurabile in uno sport che ha categorie di peso stringenti e che dà ai valori fisici un senso “regolamentare. E ancora l’insopportabile Djokoviç che ci scioglie il cuore (ma pure sempre nel tennis il doppio d’oro Errani/Paolini e Musetti che fa il Sinner), un titanico Paltrinieri e le spadiste, il giovane volante Furlani, Alice d’Amato (ma pure Esposito e Raffaeli) che ci ha fatto innamorare, le 11 medaglie ucraine, un miracolo di chi ha visto bombardare piste, palazzetti, palestre.
Chiudiamo però, con un sorriso, con un po’ di ironia. Un ringraziamento ai francesi. Che dopo aver sfruttato la paura di Virginia Raggi per prendersi queste Olimpiadi, che in condizioni normali sarebbero state Roma 2024 (ma non pensiamo a quello che non abbiamo, pensiamo a Milano Cortina 2026), le hanno organizzate come avremmo fatto noi. Una cerimonia d’apertura che sfrutta la bellezza della città ma anche un’arroganza rara e un po’ coatta con vette di cattivo gusto entusiasmanti. Una di chiusura noiosissima, perché tanto ormai è finita (ah Tom Cruise, bella la pacchianata di moto più paracadute più, geniale, i cerchi olimpici sopra le “o” di Hollywood, ma Celine Dion che canta Edith Piaf in quel modo, probabilmente nell’ultima esibizione pubblica della vita, non la batte nessuna). E ancora giudici e arbitri imbarazzanti e partigiani – il salto tarocco di Evangelisti a Roma 1987 ci è sembrato vero dopo quello che abbiamo visto in pedana e in vasca e in alcuni palazzetti -, le medaglie che si rovinano dopo pochi giorni, il villaggio olimpico scomodo e inospitale (tanto che l’oro Thomas Ceccon dormiva sul prato invece che sui letti), la Senna inquinata che quasi ammazzava i concorrenti. Brutte figure quasi quotidiane degne di noi. Quindi grazie di cuore Parigi, grazie francesi: noi non avremmo saputo fare di meglio. Pardon, di peggio.