Il successo di Mare fuori, parola al regista

L’indice che sfiora il grilletto di una pistola. Vendetta, onore. A volte, redenzione. Vomero e Forcella che s’incontrano. Il Maschio Angioino, il rione Sanità, il centro direzionale, Posillipo. Nel mentre, appicc n’ata sigarett…E il mare, quello di Napoli, dietro le sbarre. Mare fuori è la serie ideata da Cristiana Farina, prodotta da Rai Fiction e Picomedia, che ha tenuto incollato al piccolo schermo il pubblico italiano per un totale di 54 milioni di visualizzazioni e quasi 23 milioni di ore di fruizione. Tre stagioni da record (la quarta è attesa per il prossimo anno), tutte disponibili su Rai Play (le prime due anche su Netflix, approdo che ne ha decretato il successo definitivo), che raccontano le tormentate vicende dei detenuti e di alcuni impiegati dell’Istituto penitenziario minorile partenopeo, ispirato al carcere di Nisida. Un trionfo tale che le prime due stagioni sono state esportate in oltre venti Paesi, alcuni dei quali pensano già a un remake (la Spagna, in primis). A spiegare a il Millimetro la ricetta che ha reso Mare fuori uno dei fiori all’occhiello di Rai Fiction è Ivan Silvestrini, il regista subentrato a Carmine Elia e Milena Cocozza a metà della seconda stagione.

Il successo di Mare fuori, parola al regista
Ivan Silvestrini, regista di Mare fuori

Dopo Gomorra, non era scontato per una serie inserirsi in quel filone e riscuotere un tale successo: come ci siete riusciti?

«Mare fuori ha qualcosa in più. Ho visto tutte le stagioni di Gomorra e l’ho molto apprezzata, ma credo che la grande differenza tra le due stia nel fatto che questa ha un’attenzione particolare alla sensibilità delle persone che racconta e un approccio diverso alla criminalità. I protagonisti sono perlopiù giovani, quindi recuperabili (o almeno questa è la speranza) non avendo ancora sviluppato un ‘cuore di pietra’. Ci caliamo nel loro vissuto assistendo ai loro conflitti, ai loro sentimenti. È una serie sul mondo criminale che, però, cerca di combatterlo educando e rieducando i ragazzi, a volte partendo quasi da zero. Soprattutto, è una serie che parla dei sentimenti di chi popola quel microcosmo che è il carcere minorile. Questa, forse, è la grande novità: se pensiamo a prodotti come Gomorra, i sentimenti sono estremamente marginali, i criminali vengono raccontati come fossero automi, uomini freddi dediti a compiti più o meno spietati. Qui è diverso, percepiamo il peso di tutto ciò che questi giovani fanno: in Mare fuori non si uccide a cuor leggero e ogni tragedia ha delle ripercussioni emotive molto forti, un po’ come, a mio avviso, accade nella realtà a quell’età, quando il cuore batte ancora forte».

Non tutti i protagonisti, però, imparano dai propri errori…

«Quando mi proposero di realizzarla temevo che, essendo una produzione Rai, sarebbe venuto fuori un prodotto buonista. Per fortuna, non è stato così. È una serie che vuole affrontare le cose con un discreto realismo: non tutti i ragazzi sono recuperabili, spesso bisogna quasi ‘riprogrammarli’ essendo cresciuti a pane e criminalità fin da piccoli, e non sempre ci si riesce. È molto onesta, mostra anche il prezzo che paga chi ha cambiato rotta ma non riesce a liberarsi del giogo del sistema malavitoso da cui è stato svezzato. Forse proprio per questi motivi ha riscosso tanto successo».

Qual è il pubblico di Mare fuori?

«Per almeno metà, under 35. Nell’ultimo anno, però, il target si è ampliato. È diventata una serie transgenerazionale, vista dai genitori insieme ai figli e, a volte, anche ai nonni. Non è solo per ragazzini, anche se per loro può essere l’iniziazione a temi che ancora non conoscono. Ricevo spesso messaggi di ragazzi e ragazze che grazie a Mare fuori hanno scoperto e capito aspetti significativi della vita. Questo mi fa pensare che ho una grande responsabilità: con il mio lavoro contribuisco a forgiare l’immaginario di una generazione. Da qui, la scelta di trattare tematiche che mi stanno molto a cuore, come la questione femminile, i diritti LGBTQIA+, l’omofobia e il razzismo. Argomenti che, soprattutto nella terza stagione, entrano in maniera prepotente. La sfida, per me, è stata quella di trovare il tono giusto per raccontare, anche a livello visivo, questioni così importanti».

Il successo di Mare fuori, parola al regista

Sei subentrato alla regia a metà della seconda stagione. Qual è stato il tuo apporto?

«Ho cercato uno stile personale che riuscisse a far tesoro dell’emotività sviluppata fino a quel momento e, al contempo, a portare la serie in una direzione visiva un po’ diversa. Questo nasce da mille ragioni, soprattutto tecniche: a volte una scena con trenta personaggi la devi girare in maniera tradizionale, magari con una sola inquadratura molto articolata. Secondo me, ciò che si nota da quando ho cominciato a girare io è il fatto che le scene sono raccontate in modo spesso molto immersivo, con lunghe inquadrature e senza troppi tagli. Questo comporta difficoltà extra, di coreografia in primis. La fortuna è che ormai gli attori sono talmente straordinari che mi posso permettere soluzioni tecniche complesse. Un’altra differenza è nello stile: il primo Mare fuori era girato con tre macchine da presa contemporaneamente, con un approccio quasi documentaristico. Io ho cercato di portare qualcosa del mio background cinematografico, con un numero di macchine variabile, che stessero più ‘addosso’ ai personaggi. La mia sfida personale è stata quella di cercare sempre la distanza perfetta dagli attori, andandogli però molto vicino».

Da regista, che effetto ti fa vedere ragazzi spesso alle prime armi riuscire in ruoli tanto complessi dal punto di vista psicologico?

«Quando li ho conosciuti nella seconda stagione erano già dei giovani professionisti, si vedeva da come si comportavano e da quanto fossero seri. Raramente ho avuto un cast così diligente e preciso. Il merito, oltre che loro, è di chi li ha selezionati ai casting, Carmine Elia. Poi, in parte, è diventato anche mio per gli ultimi ingressi, come quello di Maria Esposito (Rosa Ricci, nella serie). Ha stupefatto tutti, in primis me che l’ho scelta: pensavo fosse un’attrice interessante e di talento, ma non immaginavo sarebbe cresciuta così tanto. Adesso è una giovane stella».

Hai mai paura di favorire fenomeni emulativi tra i giovani, che potrebbero prendere come ‘modello’ dei criminali?

«Sì, anche perché alcuni personaggi compiono gesti tremendi ma in maniera talmente spettacolare che una certa simpatia verso il ‘diavolo’ quasi ci scappa. È una possibilità che metto in conto perché, come dicevo, è una serie onesta: anche nella vita ci sono persone che ‘abbracciano’ il male per poi redimersi e altre che, invece, non se ne pentono mai. Il valore aggiunto è che in Mare fuori si racconta anche la fine che fanno questi personaggi: perché, dunque, dovrei imitare chi, così giovane, è destinato a una morte terribile? Poi certo, parliamo di protagonisti affascinanti: d’altronde, anche il male può esserlo. Ma sarebbe sbagliato e falso limitarsi a dire che il male è brutto e cattivo. Non è così, sarebbe come buttare fumo negli occhi dei telespettatori. A tal proposito, una delle storie più toccanti è quella di Mimmo, un ragazzo che viene da una realtà povera e che, a un certo punto, pensa che affiliarsi a una famiglia camorrista possa essere la svolta della sua vita. Sono tante le persone che, nella realtà, ricercano questa fantomatica ‘svolta’ e che spesso pensano che risieda nella criminalità. La serie insegna che è solo apparenza, che l’illusione della ricchezza accumulata in questo modo può durare qualche mese perché, alla fine, finisci in carcere (nella migliore delle ipotesi)».

Il successo di Mare fuori, parola al regista

Edulcorare il male, quindi, non è la strada giusta…

«Non ha senso e il pubblico lo rigetterebbe subito. Mare fuori ha successo perché non fa sconti. In più, c’è un aspetto che la rende straordinaria: persino nei cattivi si intravedono motivazioni che ti permettono quasi di capire le loro scelte. Ci sono due capofamiglia, Don Salvatore Ricci da un lato e Wanda Di Salvo dall’altro. Entrambi compiono (e fanno compiere) azioni terribili, ingiustificabili e imperdonabili, ma nel loro profondo sono animati da un fortissimo senso paterno-materno. Questo non li assolve in alcun modo, ma è giusto conoscere le loro ragioni, pur senza giustificarli».

Anche perché, come dimostra la serie, spesso le colpe dei padri ricadono sui figli…

«E questo è niente. Pensiamo al padre di Ciro che chiede al figlio di sparare al suo migliore amico: Ciro lo fa perché è cresciuto in quel modo, in quel mondo. Per questo non mi stanco mai di dire che se c’è una speranza per le generazioni future, questa è nella scuola. Ma non in una scuola qualunque: in una che possa contrastare l’influenza di certi modelli familiari sui ragazzi. D’altronde, non dimentichiamoci che il primo esempio che riceviamo è quello dei nostri genitori: se questo è ‘votato al male’, il giovane lo considererà comunque giusto. Da qui, la necessità di fornirgli un’alternativa valida».

Come siete riusciti a portare sullo schermo temi così importanti senza rischiare di banalizzarli?

«Gli sceneggiatori frequentano abitualmente Nisida per parlare con detenuti ed educatori, per capire – ma capire davvero – la realtà di quei luoghi e, perché no, lasciarsi ispirare. Le storie che raccontiamo sono verosimili, per questo entrano nel cuore della gente. L’unico aspetto che in Mare fuori viene edulcorato è la rigida separazione tra maschi e femmine presente normalmente in un carcere. È una licenza poetica che gli autori si sono concessi per poter dar vita a storie interessanti e raccontare al meglio i personaggi: il rapporto con l’altro sesso e l’innamoramento, d’altronde, sono fasi cruciali della vita di un adolescente».

C’è un personaggio in particolare a cui sei legato?

«Rosa Ricci, ma solo perché l’ho scelta io, è un po’ una ‘mia creatura’. ‘Pirucchio’, invece, è quello che ha avuto l’evoluzione più interessante. Un ruolo, per altro, affatto semplice da recitare: Nicolò Galasso ha fatto qualcosa di straordinario. In generale, sono legato a tutti i ragazzi, abbiamo trascorso un pezzo di vita insieme e voglio bene a ognuno di loro. Sono fiero di loro, di quello che siamo riusciti a realizzare».

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