Recep Tayyip Erdoğan utilizza i luoghi di culto per rafforzare l’influenza turca, sollevando dubbi e preoccupazioni sulle possibili ingerenze politiche
I minareti avranno un’altezza di 50 metri, l’interno potrà ospitare fino a 5.000 fedeli ed è costata 30 milioni. Porta firma turca la nuova moschea della capitale albanese, destinata a diventare il simbolo di rinascita della città e che una volta ultimata sarà la più grande dei Balcani. Finanziare la costruzione o il restauro di moschee fa parte della strategia di soft power di Erdoğan per consolidare il suo potere e l’influenza turca all’estero, rafforzando i legami con i Paesi che un tempo erano parte dell’Impero ottomano e dove oggi è presente una forte componente musulmana.
Ma prima di Tirana è già successo ad altre città europee, tra cui Colonia, Vienna, Strasburgo, Sarajevo e Sisak in Croazia (dove è stata inaugurata la prima eco-moschea). I luoghi di culto finanziati dal Dyanet – il Direttorato per gli Affari Religiosi – spesso fungono da centri di aggregazione sociale e culturale per la comunità turca e musulmana locale e sono visti da molti analisti come strumenti attraverso cui la Turchia cerca di esercitare una forma di controllo politico. L’architettura religiosa diventa quindi uno strumento chiave, simbolo tangibile del ritorno della Turchia come potenza.
Il ruolo di Dyanet
L’ex ministro degli esteri e primo ministro turco, Ahmet Davutoğlu, è uno degli architetti della politica estera turca moderna e ha sottolineato in vari discorsi l’importanza dell’elemento religioso come parte della proiezione di potere della Turchia. Il Diyanet ha assunto un ruolo sempre più centrale: oltre a finanziare la costruzione di moschee, si occupa della loro manutenzione e arredo e di formare gli imam. Sul sito ufficiale, si legge che l’istituzione “costruisce ponti d’amore tra le comunità musulmane nel mondo, mantenendo viva l’eredità ottomana”.
Il finanziamento delle moschee in Europa da parte della Turchia è un tema molto discusso tra analisti politici e intellettuali. Le divisioni riguardano aspetti legati all’integrazione delle comunità musulmane, alla geopolitica e ai complessi rapporti tra Europa e Turchia. Mentre per la Turchia le moschee rappresentano un mezzo per estendere la propria influenza culturale e religiosa, per molti governi europei sono strumenti di ingerenza politica.
L’Europa ospita una vasta popolazione musulmana, con una significativa presenza di immigrati di origine turca, in particolare in Germania, Austria e Francia. Il finanziamento delle moschee da parte di Ankara può creare una forma di dipendenza culturale dalla Turchia e ostacolare i processi di integrazione delle comunità musulmane nei rispettivi Paesi europei.
In Germania, che ospita milioni di cittadini di origine turca, le moschee finanziate da Dyanet sono considerate da alcuni dei luoghi in cui Ankara esercita la sua influenza sulla comunità turca. Questo ha portato a sospetti di interferenza politica, soprattutto durante i periodi elettorali, quando Erdoğan si è rivolto direttamente ai cittadini turchi residenti in Europa per consolidare il sostegno politico a livello transnazionale. Questa interferenza può generare divisioni all’interno delle stesse comunità turche, tra coloro che supportano le politiche di Erdoğan e coloro che vi si oppongono, come i curdi o i laici.
I leader europei temono che le moschee possano diventare avamposti per promuovere gli interessi della politica estera turca o strumenti di pressione in grado di condizionare la politica interna dei propri Paesi.
I rapporti con i Balcani e la competizione con l’UE
Hugh Eakin, noto autore, ha spesso sottolineato che i progetti di finanziamento delle moschee vanno di pari passo con iniziative diplomatiche e accordi commerciali, rendendo il soft power turco parte di una strategia multi-livello che mira a rafforzare il peso geopolitico del Paese.
Da oltre un decennio, la Turchia ha avviato una nuova fase della sua politica estera, caratterizzata da un’espansione in campo commerciale, diplomatico e culturale. L’obiettivo è quello di consolidare i legami con i Paesi situati tra i Balcani e il vicino Oriente, focalizzandosi su settori strategici come infrastrutture, energia, telecomunicazioni e costruzioni.
Storicamente e culturalmente legata alla Turchia, Erdoğan vede nei Balcani una via d’accesso privilegiata all’Unione Europea, grazie alla posizione geografica strategica.
In Albania, la Turchia si posiziona tra i maggiori investitori, con progetti che spaziano dalle infrastrutture bancarie alla sanità e ai media. In Serbia, gli investimenti turchi hanno registrato una crescita significativa, soprattutto nelle infrastrutture stradali e nei settori dell’energia e del tessile, superando i 250 milioni di dollari nel 2021. In Bosnia ed Erzegovina, la Turchia (che ha trovato terreno fertile nel dialogo con l’élite religiosa locale, complice il vuoto identitario lasciato dalla guerra degli anni ’90) è tra i principali partner economici, con investimenti che superano i 200 milioni di dollari all’anno, in particolare nei settori bancario ed energetico.
Anche il volume degli scambi commerciali tra Turchia e Balcani ha visto un’impennata negli ultimi anni. Nel 2021, il commercio con l’Albania ha toccato i 900 milioni di dollari, in Croazia ha raggiunto gli 845 milioni e quello con la Serbia ha superato i 2 miliardi.
Secondo Erdoan A. Shipoli, ricercatore alla Georgetown University, Erdoğan sfrutta abilmente la sua influenza nei Balcani per inviare un chiaro messaggio all’Europa: la Turchia è in grado di destabilizzare la regione in ogni momento. Questo scenario è reso possibile anche dall’assenza di un’effettiva integrazionedei Paesi balcanici nell’Unione Europea.
L’Albania ha ottenuto lo status di candidato all’UE nel 2014 e ha iniziato i negoziati nel 2022, così come la Macedonia del Nord, candidata dal 2005. Il Montenegro ha avviato i negoziati nel 2012, mentre la Serbia deve ancora superare l’ostacolo del riconoscimento del Kosovo. La Bosnia ha ottenuto lo status di candidato ufficiale nel 2022, mentre il Kosovo è ancora privo di tale riconoscimento, complice il fatto che cinque Stati membri dell’UE non ne riconoscono l’indipendenza.
Nonostante le sfide politiche, economiche e istituzionali, l’integrazione dei Balcani occidentali rimane una priorità per l’Unione Europea. Tuttavia, mentre la Turchia continua ad aumentare la sua influenza economica nella regione, se l’UE non accelera le procedure di adesione rischia di perdere il suo vantaggio, soprattutto nei settori strategici delle infrastrutture e dell’energia, dove Ankara sta guadagnando terreno.
Critiche alla politica estera di Erdoğan
L’espansione dell’influenza turca nei Balcani e in Europa suscita delle controversie. Paesi come la Grecia osservano con crescente preoccupazione il rafforzamento della presenza di Ankara nella regione. Le tensioni con Atene sono state alimentate dalle dichiarazioni di Erdoğan riguardo una possibile revisione del Trattato di Losanna, che definisce i confini della moderna Turchia. Tali affermazioni hanno generato timori su un’espansione turca nei Balcani e nel Mediterraneo Orientale, zona già segnata da conflitti territoriali e dispute marittime.
Anche in Bosnia, la crescente influenza turca ha creato malumori. Se da una parte la comunità musulmana accoglie positivamente il sostegno di Erdoğan, serbi e croati lo percepiscono come una minaccia alla stabilità politica del Paese. Il restauro di edifici ottomani e la costruzione di nuove moschee sono considerati un tentativo di riaccendere le divisioni etniche che hanno segnato la storia recente della regione.
Mentre l’Unione Europea cerca di integrare i Paesi balcanici, la Turchia si muove agilmente per consolidare la propria posizione. Attraverso la religione, l’architettura e la politica, Ankara proietta il suo potere, rendendo le moschee finanziate da Dyanet molto più che semplici luoghi di preghiera, ma veri e propri strumenti di influenza geopolitica.
Erdoğan affronta una considerevole opposizione all’interno del mondo islamico anche al di fuori dell’Europa. Da un lato viene visto come difensore dell’Islam e un leader impegnato nella lotta all’islamofobia globale, soprattutto per le sue posizioni critiche verso l’Occidente e il sostegno alla causa palestinese. Dall’altro, molti musulmani moderati o progressisti ne criticano l’uso politico della religione, accusandolo di autoritarismo e accentramento del potere. Alcuni gruppi islamisti più radicali, ritengono che Erdoğan sia troppo “compromesso” con l’Occidente e il suo approccio statalista all’Islam è percepito come una versione politicizzata della religione, più interessata a consolidare l’egemonia turca che a promuovere un autentico progetto religioso globale.