Violenze, fame, sfollamenti, sistema sanitario al collasso e guerre continue, ma l’allarme dell’ONU viene costantemente ignorato
“Avete tutti assistito ai crimini, alle violazioni e alle atrocità commesse da questi ribelli contro il popolo e lo Stato sudanese”, queste sono le parole che Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan – generale e Presidente del Consiglio sovrano transitorio del Sudan – ha dichiarato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite lo scorso 26 settembre.
La violazione dei diritti umani è oramai una costante da più di cinquecento giorni di guerra in Sudan. La violenza incessante si è dilagata in tutto il Paese dall’aprile del 2023, con scontri sempre più frequenti e di ampia portata tra l’esercito regolare sudanese, guidato da Abdel Fattah al-Burhan, e le Rapid Support Forces (RFS), un’organizzazione paramilitare con a capo Mohamed Hamdan Dagalo.
A distanza di più di un anno quella del Sudan è, di fatto, la più grave crisi umanitaria in corso. Uccisioni, distruzioni, rapimenti, violenze sessuali, torture, tutto questo si consuma giornalmente a danno della popolazione civile per avere più controllo e potere possibile sul territorio. Secondo le Nazioni Unite, oltre 14.000 persone sono state uccise e 33.000 ferite, questi, però, sono dati incerti, il numero sommerso di vittime potrebbe essere molto più alto di così. Le altre cifre sono ulteriormente devastanti: 10 milioni sono le persone sfollate – circa un quinto della popolazione –, costrette a fuggire dalle loro case a causa delle incursioni violente e degli scontri tra milizie.
L’allarme carestia sembra oramai inevitabile, le organizzazioni umanitarie stimano che 2,5 milioni di civili potrebbero morire entro la fine dell’anno. Circa 2,3 milioni hanno attraversato le frontiere – 814.000 sono fuggite in Ciad, altre 781.000 in Sud Sudan e 515.000 in Egitto. Più della metà di loro sono bambini. Tutti i 18 Stati interni del Sudan sono diventati dei grandi campi sfollati, ognuno dei quali ospita da 250.000 a 1,8 milioni di civili. Su una popolazione di più di 46 milioni di abitanti, circa 24,8 milioni hanno bisogno di assistenza umanitaria.
Un passato di crisi e guerre civili
Nel mese di agosto la rivista inglese The Economist ha dedicato il suo numero mensile alla crisi sudanese, evidenziando come il mondo non le riservi la stessa attenzione data a Gaza e all’Ucraina. Eppure, osservando il Paese con sguardo analitico e geopolitico, molti sono gli elementi che dovrebbero attrarre l’attenzione della comunità internazionale. Il Sudan è il terzo Paese più grande dell’Africa, ha circa 800 km di costa sul Mar Rosso, questo significa che la sua implosione minaccia anche lo strategico Canale di Suez, transito commerciale di portata mondiale.
Dalla sua indipendenza nel 1956, in Sudan si sono susseguite crisi sociali, politiche ed economiche e diverse guerre civili – la prima tra il 1955 e il 1972, la seconda tra il 1983 e il 2005 e infine l’ultima iniziata lo scorso anno. La cronica fragilità del sistema Paese si fonda sulla complessa composizione etnico-sociale, sulla lotta per l’appropriazione di risorse e sulla divisione tra i territori settentrionali e quelli meridionali, che ha visto il suo apice nel 2011 con la dichiarazione di indipendenza del Sudan del Sud.
Prima ancora, però, esplose uno dei conflitti più cruenti della storia del continente africano: la guerra del Darfur. Il Darfur è una regione del Sudan situata nella parte occidentale del Paese, lungo i confini con il Ciad. Il termine Darfur, per la lingua locale, significa “terra dei Fur”, ossia dell’etnia maggiormente concentrata in questa regione. Quella dei Fur è un’etnia di origine centro-africana, così come anche le altre comunità presenti sul territorio. L’aspetto etnico, che vedeva da una parte i gruppi di origine centro-africana e dall’altra quelli con origine araba, si pone alla base delle motivazioni dell’inizio degli scontri che nel 2003 diedero inizio al conflitto, terminato poi nel 2009. Furono anni di spargimenti di sangue, soprusi e violenze inaudite contro i civili, arrivando a causare centinaia di migliaia di morti.
Oggi, il Darfur è la regione sudanese dove si combatte di più insieme alla capitale Khartoum.
Nel Darfur occidentale è la città di El Geneina a essere maggiormente sotto attacco da parte delle due fazioni in campo: le Forze di Supporto Rapido e le Forze Armate Sudanesi.
Negli ultimi giorni, la responsabile umanitaria ad interim delle Nazioni Unite Joyce Msuya ha dichiarato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che la carestia è già reale nel Darfur e che un’operazione umanitaria su larga scala è “una questione di vita o di morte”.
A rendere ancora più complesso l’accesso al cibo per la popolazione civile, negli ultimi mesi piogge intense hanno colpito diverse aree del territorio, causando inondazioni e distruzione di raccolti. Le inondazioni in corso e il crollo della diga di Arba’at nello Stato sudanese del Mar Rosso, avvenuta lo scorso 25 agosto, hanno causato spostamenti forzati di persone. La rottura della diga ne ha provocato il completo svuotamento del bacino, causando ingenti danni a civili e proprietà in circa 20 villaggi a valle. Secondo le autorità locali fino a 50.000 persone, che vivono nelle aree a ovest della diga, sono state gravemente colpite.
Sistema sanitario al collasso e l’incubo della violenza sessuale
La necessità di spostarsi diventa emergenziale, persone in cammino che diventano sfollate, esponendo le proprie vite a rischi di protezione e sicurezza, all’incertezza di reperire beni primari e di ricevere cure in un contesto dove circa l’80% degli ospedali non funziona più. Il personale sanitario è carente, le forniture mediche introvabili e gli ospedali vengono danneggiati, saccheggiati e occupati.
La violenza sessuale è radicata in tutte le aree colpite dal conflitto. Un’arma di guerra che si ripete nella storia. Secondo le ultime analisi dell’UNFPA – l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di salute sessuale e riproduttiva – 6,7 milioni di persone sono a rischio di violenza di genere in Sudan, la maggior parte sono donne e ragazze sfollate. In regioni come il Darfur, Khartoum e il Kordofan si registrano numeri inquietanti: più di 7000 neomamme e 220.000 bambini gravemente malnutriti che, secondo i rapporti redatti dall’agenzia e pubblicati a maggio del 2024, rischiano di morire nei prossimi mesi se non avranno accesso a servizi di salute materna e ad assistenza nutrizionale. Si teme anche per le circa 1,2 milioni di donne incinte e in fase di allattamento che stanno già affrontando situazioni di scarsità di cibo, aumentando il rischio di incorrere in gravi complicazioni sanitarie durante e dopo il parto.
La difficoltà di raccontare il dramma umanitario del Sudan sta anche nell’accesso limitato, se non del tutto negato, a giornalisti internazionali. Quello che si sa, che riesce a venire fuori e a diffondersi come informazione, notizia o testimonianza offre, dunque, solo una lettura parziale della realtà dei fatti. Appare evidente, quindi, che sia i numeri, sia le atrocità in corso abbiano dimensioni maggiori di quelle emerse. Continuano inoltre a essere segnalati casi di rapimenti, matrimoni forzati, violenza domestica, violenza sessuale legata ai conflitti e matrimonio infantile, soprattutto nello Stato di Aj Jazirah e nella regione del Darfur.
Nelle scorse settimane l’ONU e Human Rights Watch (HRW) hanno richiesto il rispetto dell’embargo sulla fornitura di armi che si rinnova dal 2004 per la regione del Darfur e che, l’11 settembre scorso, è stato nuovamente confermato per un altro anno, con votazione del Consiglio di Sicurezza. Le stesse organizzazioni hanno espresso la necessità di inviare una missione umanitaria guidata dall’Unione Africana per la protezione dei civili, il monitoraggio delle violazioni dei diritti umani e la fornitura di aiuti umanitari. Una proposta, questa, rifiutata dal generale Al-Burhan perché considerata un’ingerenza negli affari interni del Paese.