La libertà del fondatore di WikiLeaks è l’unica arma che abbiamo per contrastare chi sta costruendo passo dopo passo la Terza guerra mondiale
Conobbi Julian Assange nel novembre del 2013. Lo incontrai all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, dove si era rifugiato alcuni mesi prima per sfuggire a una richiesta di arresto per stupro (reato che non ha mai commesso) ma soprattutto per difendere la sua libertà e il suo lavoro. Sapeva perfettamente che, una volta estradato in Svezia, per via di quelle false accuse costruite ad arte per far dimenticare alla pubblica opinione mondiale quel che ci aveva permesso di capire, l’estradizione verso gli USA sarebbe stata una formalità. Quando chiese asilo politico all’Ecuador, Assange aveva bisogno soprattutto di una cosa: il tempo. Aveva materiale infinito da pubblicare.
Aveva in mano notizie compromettenti, informazioni su crimini commessi dal blocco occidentale, segreti che avevano a che fare con il potere politico-militare, ovvero con quel mondo demoniaco che si arricchisce grazie alle guerre. Quel giorno Assange aveva un bell’aspetto, era entusiasta, si sentiva parte integrante di una missione, quella di rendere centinaia di milioni di cittadini più indipendenti intellettualmente. Quando lo incontrai, WikiLeaks – l’organizzazione giornalistica da lui fondata il 4 ottobre del 2006 – aveva già realizzato scoop sensazionali. Collateral Murder (“Omicidio collaterale”), il video della carneficina di civili iracheni uccisi da un elicottero d’assalto Apache, aveva fatto il giro del mondo.
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