Il dramma dei piloti di droni militari: K. Larson

Qual è il valore di una vita cancellata? O meglio ancora, c’è differenza tra un tipo di morte e un’altra? Sono delle domande che hanno aperto da mesi un lungo dibattito negli Stati Uniti, dove le risposte a questi quesiti sono fin troppo variabili. Con questa premessa il pensiero potrebbe andare verso l’atavico problema delle differenze razziali, magari a George Floyd e al movimento “Black lives matter”, ma sono altre le morti che stavolta vengono prese in considerazione, ossia quelle provocate da chi lo fa di mestiere, da chi ha deciso di difendere sul campo di battaglia il proprio Paese. Una scelta che implica necessariamente delle conseguenze serie, come il trauma psicologico di dover fare i conti ogni giorno della propria esistenza con la consapevolezza di aver fermato il cuore di altri essere umani, che (nella migliore delle ipotesi, ma non è una regola assoluta) proprio come loro stavano eseguendo gli ordini dei loro superiori, combattendo guerre di cui forse non conoscono nemmeno le motivazioni. Sono persone che nella maggior parte dei casi vengono colpite da stress inesorabile, con dipendenza dall’alcol e divorzi sempre più comuni. Molti hanno tentato il suicidio. Un bel fardello, insomma, per il quale il governo statunitense ha garantito ai suoi militari una serie di disposizioni apposite, strutturando dei piani di recupero ad hoc e screening successivi per valutare la loro salute mentale. Accortezze necessarie per evitare dei pericolosi e repentini crolli nel vortice della depressione e dei sensi di colpa, misure che spesso e volentieri hanno salvato quelle stesse vite. Peccato però che questo non valga per tutti i “killer autorizzati”, perché il servizio di assistenza non è stato ancora adeguato all’evoluzione tecnologica che inevitabilmente ha coinvolto anche il settore bellico e che ha portato a un sempre maggiore utilizzo dei droni, i quali nell’ultimo decennio – come riportato in una recente inchiesta del New York Times – hanno lanciato più missili e ucciso più persone di praticamente ogni altro reparto dell’esercito americano.

La storia di Kevin Larson – La “non guerra” dei droni

Questi apparecchi sono stati pubblicizzati come “un modo migliore per fare la guerra”, uno strumento in grado di colpire con precisione da migliaia di chilometri di distanza e al tempo stesso mantenere al sicuro i membri del servizio americano. Il programma dei droni era iniziato formalmente nel 2001, definito come una piccola operazione strettamente controllata a caccia di obiettivi terroristici di alto livello. Ma durante gli ultimi dieci anni, con l’intensificarsi della battaglia contro lo Stato islamico e il protrarsi della guerra in Afghanistan, la flotta è cresciuta, gli obiettivi sono diventati sempre più numerosi e più comuni. Non solo, nel corso del tempo le regole intese a proteggere i civili sono crollate e il numero di persone innocenti uccise nelle guerre aeree americane è cresciuto fino a diventare molto più grande di quanto il Pentagono abbia ammesso pubblicamente.

Il dramma dei piloti di droni militari: K. Larson

E dietro questi aeromobili a pilotaggio remoto, ovviamente, oltre a persone che hanno scelto di servire il proprio Paese arruolandosi, ce ne sono altre che invece hanno inizialmente coltivato una passione diversa, adeguata e adattata solo successivamente a esigenze diverse, con finalità omicida. Loro non sono tecnicamente sul campo di battaglia, lavorano nella maggior parte dei casi a distanza. La quasi totalità delle operazioni con i droni del Pentagono sono gestite dalla base dell’Air Force Nevada, cui si aggiungono una manciata di località satellitari in Virginia e South Carolina, oltre a un piccolo sottogruppo di truppe che si schiera all’estero per gestire il drone al momento del lancio e del ritorno alla base. Per via di queste differenti condizioni di lavoro rispetto ai “militari normali”, i piloti di droni vengono considerati al pari di “impiegati”, quindi con stipendi più bassi, tassazioni meno agevolate e, soprattutto, nessun tipo di trattamento per provare a mettere a posto la coscienza dopo aver svolto il proprio lavoro, dopo aver scovato o ucciso il nemico di turno. Una differenza di considerazione che può diventare letale, come può confermare la storia del capitano dell’aeronautica Kevin Larson.

La storia di Kevin Larson – Il pilota di droni militari

Era un pilota di droni, uno dei migliori in circolazione. Ha pilotato l’MQ-9 Reaper pesantemente armato e, tra il 2013 e il 2018, in 650 missioni ha lanciato almeno 188 attacchi aerei, guadagnato 20 medaglie per i suoi successi e ucciso un uomo di spicco nella lista dei terroristi più ricercati dagli Stati Uniti. Per i motivi spiegati pocanzi, però, nel suo fascicolo personale, sotto la voce “Servizi di combattimento”, era presente una sola parola: “Nessuno”. Sul suo frigorifero conservava un biglietto di ringraziamento scritto a mano dal direttore della CIA. Ne era profondamente orgoglioso, seppur non dicesse a nessuno la motivazione di quel messaggio. D’altronde era un segreto di Stato, così come quasi tutto ciò che faceva all’interno del programma sui droni. Ogni dettaglio della sua attività doveva restare ben chiuso dietro le porte di massima sicurezza della base aeronautica di Creech a Indian Springs, in Nevada. Lì dentro però c’erano anche cose di cui andava meno fiero. Nell’Air Force, in fondo, i piloti di droni non sceglievano i loro bersagli. Quello era un lavoro riservato ad altri, gente che i piloti chiamavano “il cliente”. Poteva essere un comandante delle forze di terra convenzionali, la CIA, oppure una cellula d’attacco classificata per operazioni speciali. 

Il dramma dei piloti di droni militari: K. Larson

Non era importante, lo era solo che ottenesse il risultato che desiderava. E questo anche se a volte, magari, ciò che voleva il cliente poteva apparire come ingiusto, senza scrupoli. Tanti dubbi che Larson ha vissuto sulla sua pelle, ma che nascondeva abilmente nei contesti pubblici. Nella sua casa a Las Vegas ostentava una felicità e una sicurezza invidiabili, guidava una Corvette decappottabile blu elettrico e una Jeep dello stesso colore, godendosi il tempo libero con la sua bellissima moglie. Ogni tanto, però, emergevano segnali di angoscia, a volte con un commento strano prima di andare a letto, altre attraverso una battuta cupa al bar con gli amici. Nella sua mente continuavano a scorrere immagini brutali, occhi di persone cui aveva tolto la vita. Un trauma profondo, a cui Kevin ha cercato di far fronte con l’utilizzo di droghe, un ulteriore segreto che doveva mantenere ben nascosto. In questo caso però non riuscì nell’intento, perché l’Air Force lo scoprì.

La storia di Kevin Larson – Una vita distrutta

Era il febbraio 2018, Larson e sua moglie Bree avevano litigato. Lei era arrabbiata con lui perché era rimasto fuori tutta la notte e gli aveva rotto il telefono. In risposta lui l’aveva trascinata e chiusa fuori di casa, a malapena vestita. Quando la polizia di Las Vegas è arrivata sul posto, ha chiesto se ci fossero droghe o armi in casa e la donna ha indicato il garage, dove il marito nascondeva un sacchetto di funghi allucinogeni. Successivamente raccontò anche che quando aveva conosciuto Kevin due anni prima, lui già ricorreva a sostanze stupefacenti, tra cui l’MDMA, giustificandone l’utilizzo con il fatto che gli “offrivano sollievo”. Una volta conosciuta la sua storia, le autorità civili di Las Vegas erano disposte a perdonarlo, ma l’Air Force lo ha accusato di una lunga serie di crimini: possesso e distribuzione di droga, false dichiarazioni ai loro investigatori e un’accusa pesantissima per le forze armate, cioè condotta non adatta a un ufficiale. Per questo è stato privato del suo status di pilota e gli è stato proibito di parlare con i colleghi. Anche il suo matrimonio è andato in pezzi ed è stato processato, rischiando una possibile pena detentiva di oltre 20 anni. E dal momento che non era un “veterano” di combattimento convenzionale, per lui non era necessaria alcuna valutazione psicologica al fine di vedere quale influenza avesse potuto avere la sua esperienza militare sulla sua cattiva condotta. Nel corso del suo processo nessuno ha menzionato i 188 attacchi missilistici classificati cui ha partecipato e nel gennaio 2020 è stato rapidamente condannato. Quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, l’ultimo di una serie di shock emotivi. Così, nel disperato tentativo di evitare la prigione, sentendosi tradito dallo stesso Paese che aveva servito dedicandogli la vita, ha deciso di darsi alla fuga.

La storia di Kevin Larson – La fuga senza uscita

Un’ora prima della sua condanna definitiva, Larson ha caricato la sua Jeep di cibo e vestiti ed è scappato. Subito dopo l’Air Force ha emesso un mandato per il suo arresto. Nel frattempo lui si è diretto a Los Angeles, dove poi ha trascorso la notte con un amico, prima di rimettersi in auto dirigersi verso nord. Nel pomeriggio di sabato 18 gennaio, mentre stava guidando vicino a San Francisco tra vigneti e boschi di sequoie sulla US Route 101, nella contea di Mendocino, la California Highway Patrol lo ha individuato e fermato. Lui ha accostato, aspettando con calma che l’ufficiale si avvicinasse al suo finestrino. Poi ha sparato. A seguire, macchiato di un nuovo crimine, si è rimesso alla guida, virando su una stretta strada sterrata che serpeggiava tra le montagne. E dopo diversi chilometri percorsi, si è fermato in mezzo agli alberi per nascondersi. La polizia non è riuscita a subito a trovarlo, ma conosceva qualcosa che lui non sapeva, ossia che tutte le strade del canyon erano dei vicoli ciechi. Così, bloccando l’unica via d’uscita, il ricercato in fuga era bloccato.

Il dramma dei piloti di droni militari: K. Larson

Nel frattempo è scesa la notte, poi si è alzato di nuovo il sole. Il 19 gennaio gli agenti hanno risalito il canyon e hanno individuato tracce di pneumatici su un bivio molto stretto. Continuando a seguire la pista hanno avvistato la Jeep blu nascosta tra gli alberi. A quel punto si sono fermati, per non rischiare altre potenziali perdite. A loro disposizione, in fondo, avevano un’opzione migliore. Un piccolo drone si è alzato presto in cielo, alla ricerca di Larson. In quella zona profonda del canyon non c’era campo per nessun servizio telefonico, nessun modo per chiamare qualcuno e magari ottenere una parola di conforto o di speranza. L’unica cosa che poteva fare era registrare un videomessaggio per i suoi familiari: «Amo ognuno di voi. Mi dispiace. Non andrò in prigione, quindi metterò fine a tutto questo. Questo è sempre stato il piano». Mentre parlava è stato interrotto da un ronzio a lui molto familiare: «Riesco a sentire i droni. Mi stanno cercando». L’ironia del destino è che alla fine l’Aeronautica Militare aveva deciso di non condannarlo al carcere, ma solo al licenziamento. Nessuno però ha potuto mai dirglielo. Proprio come Kevin aveva fatto innumerevoli volte in passato, a quel punto gli ufficiali potevano solo studiare il filmato del drone e analizzare le prove. Quelle che mostravano il cadavere del 32enne capitano Larson accasciato dietro il masso, colpito dal suo stesso fucile d’assalto. Chissà se si saranno domandati quale fosse il valore di quella morte.

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