Facciamo una prova. Chiediamo a 100 persone se hanno visto Il mostro. Siamo certi che tutte risponderebbero: “Certo! Insieme a Il piccolo diavolo è uno dei film più divertenti di Benigni”. Ma qui non stiamo parlando del toscanaccio più famoso d’Italia, del Cioni Mario, incallito bestemmiatore immortalato da Giuseppe Bertolucci in Berlinguer ti voglio bene (bei tempi…), né del regista stucchevole e lacrimoso, ormai convinto paladino di una poetica dolciastra e caramellosa, portata alle estreme conseguenze in film come Pinocchio e La tigre e la neve (mala tempora currunt…). Il mostro di cui parliamo è un altro. Ed è quello che Luigi Zampa portò sugli schermi nel lontano 1977, affidando il ruolo principale ad un Johnny Dorelli che, fuori dal contesto della commedia in cui si muoveva e continuò a muoversi almeno fino alla metà degli anni ’80, dimostrò di essere attore drammatico con i fiocchi e i controfiocchi. È sintomatico che un film come Il mostro esca nelle sale nel 1977. Si tratta infatti di uno degli anni più oscuri della nostra Repubblica, 365 giorni virati al grigio più sepolcrale ed oscuro. Siamo nell’epicentro dei cosiddetti anni di piombo, in cui la radicalizzazione degli estremismi di destra e di sinistra raggiunge il picco più alto della sua parabola. Gli apparati statali appaiono impotenti dinanzi agli attacchi portati avanti contemporaneamente dalla contestazione giovanile, dall’ascesa degli autonomi, dal moltiplicarsi di partiti extraparlamentari. Le piazze, le strade, le facoltà universitarie diventano luogo di scontro, fulcri di una violenza insensata dove a cadere come pedine sono esponenti delle forze dell’ordine, manifestanti, giovani politicizzati e semplici cittadini. Le città italiane si trasformano scenari in cui va in onda una compilation ininterrotta di slogan guerrafondai, colpi di spranga e pistola, sirene spiegate. No, l’Italia del 1977 non è un bel posto in cui vivere. E il cinema italiano di quegli anni ne riflette in toto la violenza pervasiva e asfissiante, dipinge su celluloide l’aria che si respira, ne affresca le tele con parossismi visuali e contenutistici.
Italia odia
Ogni genere è attraversato da un vento mefitico, ribolle di ferocia e nichilismo, fa esplodere sugli schermi incubi e deliri, sussurri e grida. Basta dare un’occhiata alle uscite nelle sale del 1977 per averne una controprova schiacciante. Il poliziottesco si ibrida con la fantapolitica e ci regala una pellicola sovversiva e terroristica come Italia: ultimo atto? (Massimo Pirri); l’horror spinge sull’acceleratore dell’allucinazione panottica con Suspiria di Argento; il drammatico si interseca con temi estremi come il rapporto vittima-carnefice (Oedipus Orca di Eriprando Visconti), la pedofilia (Anima persa di Dino Risi), la disgregazione di ogni interrelazione umana (Autostop rosso sangue di Pasquale Festa Campanile); l’erotico si necrotizza in una rappresentazione del sesso sempre più malsana (Blue Nude di Luigi Scattini, Emanuelle – Perché violenza alle donne? di Joe D’Amato, Maladolescenza di Pier Giuseppe Murgia). Anche la commedia e le sue maschere più rappresentative gettano la spugna, si arrendono alla ferocia dilagante e dimostrano come in una decina di anni, dall’effimera spensieratezza del boom al riflusso generazionale-politico-sociale dei Settanta, il passo sia stato brevissimo, evidenziando quanto l’italiano di ogni classe sociale avesse germogliato quel lato oscuro della sua indole sempre presente, ma tenuto ben nascosto. I mostri sono quindi tra noi e si annidano in ogni dove, pronti a far deflagrare la loro violenza. Non stupisce dunque che il genere più popolare del nostro cinema subisca una metamorfosi, fondendosi con suggestioni, echi e rimembranze provenienti altri contesti.
Il divertimento diventa straniante, un ghigno sghembo che può tramutarsi repentinamente in grottesco fantasmatico (Tutti defunti, tranne i morti di Pupi Avati), in giallo crepuscolare (Doppio delitto di Steno), in caricatura lombrosiana (Casotto di Sergio Citti), in erotismo mortifero (La stanza del vescovo di Dino Risi), in carrellata deformante (I nuovi mostri di Monicelli-Scola-Risi), in dramma senza pietà (Un borghese piccolo piccolo di Mario Monicelli). Torniamo allora al “mostro” di cui parlavamo all’inizio. Anche in questo caso ci troviamo davanti a una pellicola che non si riesce ad inquadrare in un genere definito, un’opera che non ammette incasellamenti, stritolata come è nella morsa di più tentacoli, che la dilaniano, la frantumano in mille schegge (acuminate) in cui si possono scorgere scintillii di commedia, dramma sociale, horror grandguignolesco, satira politica e massmediologica, thriller argentiano. In questo senso Il mostro è molto simile, quasi un parente stretto, di un altro misconosciuto capolavoro uscito nel ’77: quel Gran bollito diretto da Mauro Bolognini che unirà i toni della commedia a quelli del dramma psicologico e dell’horror rurale, descrivendo l’inesorabile discesa nella follia di Leonarda Cianciulli, serial killer ante litteram, nota come la “saponificatrice di Correggio”. Una figura stregonesca che sacrificò all’altare dell’occulto alcune sue amiche, facendole a pezzi e saponificandole: un tributo di sangue per scongiurare la partenza del figlio per il fronte durante il secondo conflitto bellico.
La storia del film
Il mostro si dipana seguendo una trama che presenta evidenti suggestioni letterarie (su tutte Il rovescio della medaglia di Ellery Queen) e cinematografiche (quest’ultime capaci di spaziare da L’asso nella manica di Billy Wilder all’episodio L’educazione sentimentale del collettaneo I mostri di Dino Risi), partendo con i toni della commedia sociale e calando il sipario su un finale più nero della pece. Valerio Barigozzi è un uomo infelice. Il matrimonio è andato in frantumi da tempo e il lavoro come cronista presso il giornale “Tribuna Sera”, dove non gode della stima di colleghi e superiori, non lo soddisfa. Perennemente in bolletta, non può nemmeno portare a vivere con sé il figlio Luca, adolescente taciturno ed introverso. Tutto cambia quando un giorno riceve in redazione un lettera anonima che gli preannuncia l’assassinio di “Nonno Gustavo”, noto conduttore TV di programmi per ragazzi. Il giornalista si reca senza troppa convinzione sul posto per parlare con la potenziale vittima e ne scopre il cadavere. Il killer gli ha sfondato il capo a martellate e ha tracciato una V sul volto con il rossetto. È solo il primo di una catena di delitti (con lo stesso modus operandi l’assassino ucciderà il portiere di una squadra di calcio, il direttore del giornale e una giovane cantante) di cui Barigozzi verrà preventivamente informato dall’omicida.
Arrivando sempre per primo sul luogo del delitto e anticipando la concorrenza di altre testate, il cronista diventa di colpo la punta di diamante del quotidiano in cui lavora, gli scoop si susseguono e le vendite si impennano. Ben presto le forze dell’ordine, insospettite dalla ripetuta quanto fulminea presenza dell’uomo sulla scena del crimine, lo arrestano. Durante la detenzione, riflette su quanto accaduto e intuisce che il killer vive proprio sotto il suo stesso tetto; scopre infatti che le lettere anonime sono state redatte con la sua macchina da scrivere. Credendo che la responsabile dei delitti sia l’ex moglie Anna, che avrebbe agito con il proposito di distruggergli la carriera, riesce a convincere il commissario della colpevolezza della donna che viene uccisa dalla polizia durante l’operazione di cattura, colta mentre tenta di fare del male al figlio Luca. Sembra tutto finito, ma la verità è molto più inquietante e tragica. Quando Barigozzi si troverà al cospetto del vero assassino non potrà far altro che arrendersi e restare in attesa che il colpo di martello cali anche su di lui.
Echi e riferimenti
È un film pessimista Il mostro. È un affresco che dipinge un mondo arrivista e senza scrupoli dove nessuno è esente da colpe, in cui la società tutta è corresponsabile dello stato delle cose in atto. Ed è sintomatico che a dirigerlo sia quel Luigi Zampa che, nella sua filmografia, ha sempre puntato il dito contro il sistema-Italia. Tra gli autori che hanno reso grande la commedia all’italiana, Zampa è il nome che viene meno menzionato, che quasi sempre passa in secondo piano. Ed è un peccato visto che qui parliamo di un autore con una filmografia che si snoda per quasi cinquanta anni, dall’esordio nel 1933 con Risveglio di una città all’ultimo giro di manovella con Letti selvaggi nel 1979. In questo lasso di tempo Zampa ha regalato al pubblico vere e proprie perle di comicità cattiva, aiutato anche dal sodalizio artistico con Alberto Sordi, l’attore che più volte ha calcato i set del regista. Pensiamo a L’arte di arrangiarsi in cui si dipingono ferocemente i voltagabbana e i continui cambi di credo politico dell’homo italicus, a Il vigile dove si analizzano gli effetti nefasti e gli abusi di potere che l’indossare una divisa può comportare, a Il medico della mutua, una delle opere più riuscite, capace di dipingere la sanità italiana con toni mostruosamente grotteschi e allo stesso tempo iperrealisti.
L’Italia dipinta da Zampa è un marasma che ribolle, una palude in cui si aggirano alligatori voraci, un belpaese che non ha nulla di bello. Il passaggio quindi dai toni della commedia amara al dramma più cupo si può considerare una tappa quasi inevitabile. Qui a finire sotto la lente entomologica dell’autore è il mondo del giornalismo e il riprovevole sfruttamento degli omicidi e del mondo criminale a fini sensazionalistici. Nello scavo di questa analisi nerissima Zampa va a braccetto con lo sceneggiatore Sergio Donati che già nel 1972 aveva detto la sua sull’argomento, avendo ideato lo script di Sbatti il mostro in prima pagina diretto da Marco Bellocchio. Entrambi i soggetti dipingono un universo, quello della stampa e dei media, che non arretra di fronte a nulla, che sguazza nel sangue e nell’evento delittuoso per poi darlo in pasto ad un pubblico sempre più attratto dall’orrore del reale. La visione di Zampa e Donati assume oggi, in un mondo ancora più schiavo delle atrocità e della violenza esibita, una valenza profetica lancinante e dimostra quanto il film avesse colto appieno il clima del tempo. Altro tema portante del film è quello del rapporto disfunzionale genitori-figli. Barigozzi, che vomita le sue frustrazioni su un adolescente fragile come un cristallo, non si accorge di instillare, goccia dopo goccia, un veleno potentissimo.
Come evidenziato nel libro La risata amara – La morte della commedia all’italiana (Bibliotheka Edizioni, 2021) “…Abbiamo detto ai nostri figli di fregarcene del prossimo, di essere prevaricatori, di pensare solo al nostro egoismo, di fottere gli altri sempre e comunque. Abbiamo seminato vento e ora raccogliamo tempesta”. E la tempesta investirà la vita del protagonista con esiti tragici. Attraversato dalle musiche allarmanti di Ennio Morricone, ambientato in una città indefinita e decostruita, prodotto della confluenza di location romane, dialetto milanese attribuito ai protagonisti e topografia udinese esposta nella mappa in cui Barigozzi colloca le scene del crimine, Il Mostro alla sua uscita incassò meno di 500 milioni di lire. È tempo di riscoprirlo in tutta la sua crudele bellezza, per comprendere quanto la barbara violenza di ieri sia sempre più presente nella isterica solitudine dell’oggi.