In una società profondamente militarizzata come quella israeliana, l’ipotesi di un utilizzo della ricerca condotta in collaborazione con le università europee, sia per scopi civili che militari, non è così remota
Manganelli, scudi, percosse, insulti e subito dopo la solita gara per stabilire da quale lato stia la ragione, come se alla fine contasse solo questo. Come se alla fine, sapere che la polizia ha manganellato degli studenti disarmati, dopo che questi ultimi stavano cercando di forzare un cordone qualsiasi, bastasse per farci dormire sogni tranquilli. Come se alla fine di questa storia, dove a definire buoni e cattivi ci hanno già pensato politici e opinionisti dell’ultima ora, ciò che conta veramente è sapere che l’azione delle forze dell’ordine è pienamente lecita senza andarsi a soffermare sull’atto in sé: studenti picchiati solo perché stavano cercando di manifestare il loro pensiero in spazi pubblici, come quello universitario, che in fondo gli appartengono. È un copione che negli ultimi mesi abbiamo visto diverse volte e che si è ripetuto anche alla Sapienza di Roma, dove alcuni studenti hanno cercato di fare irruzione al Rettorato dell’università – dove era riunito il Senato accademico intento a decidere se proseguire o meno la collaborazione con Israele sulla ricerca – e poi al commissariato, nelle cui vicinanze si erano radunati alcuni manifestanti.
Da un lato le parole della ministra dell’Università Bernini, che si è schierata dalla parte delle forze dell’ordine condannando la «violenza vergognosa» degli studenti picchiati. Alle sue, hanno fatto eco quelle della Premier e di altri ministri da subito affannati nella ricerca della parola più estrema per definire gli universitari che hanno partecipato alle proteste. Dall’altro lato, le parole del Presidente della Repubblica che, a distanza di qualche mese, restano a far da monito. «L’autorevolezza delle Forze dell’Ordine non si misura sui manganelli ma sulla capacità di assicurare sicurezza tutelando, al contempo, la libertà di manifestare pubblicamente opinioni. Con i ragazzi i manganelli esprimono un fallimento».
L’accordo di collaborazione dietro la protesta degli studenti
Scendendo più nel dettaglio, dietro la protesta degli studenti c’è la possibile partecipazione delle università italiane a un bando di collaborazione con istituti di ricerca e atenei israeliani. Il bando, nella fattispecie, si trova all’interno di un accordo fatto tra il ministero dell’Innovazione, Scienza e Tecnologia (MOST) per la parte israeliana e la direzione generale per la promozione del “sistema Paese” del ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale (MAECI) per la parte italiana.
Già lo scorso febbraio, però, quasi 2.500 docenti, ricercatori e personale tecnico amministrativo di varie università avevano scritto al ministro degli Esteri per sospendere qualsiasi bando con Israele, visto il rischio di finanziare la ricerca in tecnologia dual use, cioè a scopo civile e anche militare, e la ferma volontà «di non essere complici delle gravi violazioni in atto» nella Striscia di Gaza. Lo scorso marzo, inoltre, l’università di Torino aveva approvato in senato accademico una mozione per vietare la partecipazione al bando MAECI. Sulla stessa scia, il senato accademico della Scuola Normale Superiore aveva approvato una mozione simile nella quale si chiedeva di riconsiderare il bando.
Gli accordi europei e le università israeliane
Passando a una dimensione sovranazionale, come quella europea, si può risalire a dei progetti di ricerca – a cui hanno preso parte anche le università italiane – che si prestano a un utilizzo militare. L’Unione, difatti, ha vari programmi di finanziamento per la cooperazione nella ricerca aperti anche a Paesi non membri come Israele. Negli anni, lo Stato ebraico ha partecipato attivamente ai programmi quadro dell’Unione Europea attraverso le sue università e il ministero della Pubblica Sicurezza, concentrandosi principalmente su questioni legate alla sicurezza. In totale, le entità israeliane hanno ricevuto oltre 2,6 miliardi di euro di finanziamenti nel corso dei programmi quadro dell’Unione Europea. In dettaglio, sono stati assegnati 879 milioni di euro nel periodo del programma quadro 7 (2007-2013), 1,28 miliardi di euro durante Horizon 2020 (2014-2020) e 503 milioni di euro fino al 2023 all’interno di Horizon Europe (2021-2027). Cinque i progetti all’interno di Horizon 2020 e Horizon Europe – oggetto della cooperazione tra università europee ed entità israeliane – con possibili risvolti militari:
- LAW-TRAIN, che aveva l’obiettivo di sviluppare e formare metodi di interrogatorio della polizia internazionale. Progetto dal quale si è ritirato il ministero della Giustizia portoghese per le critiche ricevute in relazione alla partecipazione della polizia israeliana e del ministero della Pubblica Sicurezza.
- MEDEA, che voleva provare a costruire una rete di servizi di sicurezza nella regione del Mediterraneo e del Mar Nero per rispondere alle sfide di sicurezza.
- PERCEZIONI, che aveva l’aspirazione di dare consigli ai responsabili politici dell’UE su come dissuadere i migranti diretti in Europa. A questo, dove ha preso parte anche il ministero israeliano della Pubblica Sicurezza, hanno partecipato l’Alma Mater Studiorum di Bologna e l’università La Sapienza di Roma.
- POLIIICE, che «mira a far progredire le forze dell’ordine europee (LEA) a nuovi metodi di LI, indagini e intelligence che possono indagare efficacemente sul crimine e sul terrorismo».
- ROXANNE, con l’obiettivo di creare una piattaforma delle forze dell’ordine per combinare nuove tecnologie vocali, riconoscimento facciale e analisi della rete per facilitare le operazioni di identificazione. A quest’ultimo ha preso parte anche l’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Gli atenei israeliani e la legittimazione delle operazioni militari
Da sempre oggetto di critiche e di svariate proteste, il rapporto tra atenei israeliani ed esercito è abbastanza ambiguo e tempestato da curiose coincidenze. Il 27 dicembre del 2008 Israele ha lanciato l’operazione Piombo fuso, che aveva l’obiettivo di «colpire duramente l’amministrazione di Hamas al fine di generare una situazione di migliore sicurezza intorno alla Striscia di Gaza nel tempo, attraverso un rafforzamento della calma e una diminuzione dei lanci dei razzi, nella misura del possibile». Tra i bersagli del primo giorno c’era anche la cerimonia di laurea di 89 cadetti della polizia palestinese nella Striscia di Gaza. L’operazione era stata pianificata con diversi mesi d’anticipo in stretta collaborazione con il Military Advocate General’s Corps (MAG), l’organo che si occupa dell’applicazione dello stato di diritto nell’esercito israeliano. Il MAG si suddivide in cinque dipartimenti e, tra questi, c’è quello di Diritto Internazionale, che svolge un ruolo fondamentale nella fase di pianificazione ed esecuzione delle operazioni militari.
Sotto la guida del colonnello Pnina Sharvit Baruch, i giuristi del Dipartimento attribuirono la qualifica di combattenti ai cadetti appena laureati trasformandoli in obiettivi legittimi visto che – secondo loro – sarebbero stati assorbiti nelle forze militari di Hamas. Due settimane dopo la fine dell’operazione, Sharvit Baruch fu nominata docente di Diritto internazionale della Facoltà di Giurisprudenza dell’università di Tel Aviv. Di fronte all’opposizione di alcuni docenti, il ministro della Difesa dell’epoca, Ehud Barak, contattò l’amministrazione dell’ateneo per sostenerne la nomina. Attualmente la stessa, in qualità di ricercatrice senior e direttrice del Law and National Security Program presso l’Institute for National Security Studies (INSS), si occupa di promuovere la cooperazione tra personale militare e accademico, mirando a sviluppare interpretazioni del diritto internazionale che sostengono le operazioni e la politica militare di Israele.
La relazione privilegiata con l’esercito: l’università di Tel Aviv
La legittimazione delle operazioni militari dinnanzi al diritto internazionale non è che una tendenza che si colloca all’interno dell’intersezione tra atenei e industria bellica di cui, sicuramente, paradigma può essere considerata l’università di Tel Aviv. All’interno dell’ateneo, diverse le figure di spicco che appartengono o hanno fatto parte dei ranghi dell’Israel Defense Forces (IDF) tra cui il generale Isaac Ben-Israel. Quest’ultimo, dal 2005 al 2022, è stato presidente dell’Agenzia spaziale israeliana e del Consiglio nazionale per la ricerca e lo sviluppo, tra il 2010 e il 2012 è stato consigliere di Netanyahu per la cibernetica e, nel frattempo, docente presso l’ateneo di Tel Aviv dove ha diretto, dal 2004 al 2007, il Programma di Studi sulla Sicurezza. Tale programma ha svolto un ruolo fondamentale per l’addestramento degli ufficiali e lo sviluppo della dottrina militare. Come si legge nella pagina, adesso oscurata ma facilmente raggiungibile dagli archivi di internet, «almeno il 50 per cento degli studenti del programma attualmente appartiene alla fascia media e superiore dell’establishment della difesa israeliana, si prevede che dotandoli di nuovi strumenti e concetti concettuali, il loro contributo effettivo in aree come la pianificazione della difesa, la ricerca e la valutazione dell’intelligenza, possa essere notevolmente migliorato». Dall’altro lato, accanto ai vari dipartimenti, all’università si associano tre think tank strettamente connessi con gli apparati militari israeliani:
- l’Operational Theory Research Institute (OTRI): guidato dal generale di brigata Shimon Naveh, quest’organo, che doveva coinvolgere ricercatori e dottorandi dell’università, introdusse la dottrina della guerra urbana che l’esercito sperimentò poi nelle offensive del 2002, lanciate in tutta la Cisgiordania;
- l’Institute for National Security Studies (INSS): considerato il principale think tank strategico di Israele, è coinvolto nella pianificazione militare. Diversi i programmi rivolti ai militari che includono, per esempio, l’unità Struttura dell’IDF, l’unità Terrorismo… Svariati anche i seminari organizzati congiuntamente con il National Security College, il comando dell’IDF e il Consiglio di sicurezza nazionale;
- Lo Yuval Ne’eman Workshop for Science, Technology and Security: programma di studi sulla sicurezza lanciato da Ben-Israel in collaborazione con la Harold Hartog School of Government and Policy e il Security Studies Program dell’università di Tel Aviv. Come si legge sul sito «oltre alle sue attività di ricerca, il Workshop tiene anche una popolare serie di conferenze all’università di Tel Aviv con la partecipazione di membri dell’IDF e delle agenzie di sicurezza, politici e decisori, università e alti dirigenti delle principali aziende israeliane e internazionali».
L’assenza di confini netti tra ricerca e collaborazione con le forze armate
Come evidenziato dagli esempi sopra citati, non si può negare che una parte significativa della ricerca e dello sviluppo per le forze di sicurezza venga condotta da società e istituzioni accademiche, sia pubbliche che private, spesso in collaborazione con le stesse forze armate. La difficoltà nell’esplicitare e stimare tale collaborazione è principalmente dovuto al fatto che, per ovvie ragioni, non viene etichettata come tale.
A questo si aggiunge che, in una società profondamente militarizzata come quella israeliana, gli stessi atenei offrono un trattamento privilegiato agli studenti soldato e in servizio presso le riserve. Sulla base di quanto detto, l’idea che dei bandi di collaborazione tra Israele e gli altri Paesi dell’Unione siano utilizzati in chiave militare, considerando gli innumerevoli legami tra il mondo accademico ebraico e le forze armate, non può essere rigettata a priori al di là del singolo bando contestato dagli studenti.